31 gennaio 1944 - Arpad Weisz: la morte dell'uomo, l'inizio del mito - Gli Eroi del Calcio
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31 gennaio 1944 – Arpad Weisz: la morte dell’uomo, l’inizio del mito

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GLIEROIDELCALCIO.COM (Eleonora D’Alessandri) – La storia del calcio è fatta di uomini e di episodi ma a volte ci sono uomini che, più degli altri, la storia non solo l’hanno fatta, ma l’hanno anche vissuta e ne sono tristemente rimasti vittime.

Questa è la storia di Arpad Weisz, la cui unica colpa è stata quella di nascere ebreo.

Arpad Weisz nasce a Solt, in Ungheria, il 16 aprile 1896. I suoi genitori, Lazzaro e Sofia, sono ebrei. Il giovane Arpad gioca a calcio e nel 1911 entra in un club di Budapest, il Torekves, con cui pochi anni dopo, esordisce in prima squadra. La Prima Guerra Mondiale è però alle porte e il giovane Arpad decide di partire per il fronte arrivando per la prima volta in Italia, dove viene catturato durante la quarta battaglia dell’Isonzo e portato come prigioniero a Trapani.

Terminata la Prima Guerra Mondiale, Weisz riprende a giocare nella squadra che aveva lasciato e nel 1923 si sposta al Maccabi Brno, occasione che gli permetterà poi di giocare con la nazionale ungherese, collezionando 6 presenze, tra cui una partita contro l’Italia il 4 marzo del 1923.

Ma quella non sarà l’unica esperienza nel bel paese, anzi, solo la prima di una lunga serie.

Infatti, solo due anni dopo nel 1925, Arpad Weisz viene acquistato dall’Internazionale Milano, nel quale nonostante i goal, s’infortuna, costringendolo così ad un prematuro addio al calcio giocato a soli 30 anni.

La sua carriera all’Internazionale però non finisce qui. È giovane e pronto a prendersi le sue responsabilità così, dopo una parentesi di apprendistato come vice del c.t. azzurro Rangone all’Alessandria, nella stagione 1926/27 diventa allenatore della prima squadra dell’Internazionale Milano.

Da questo punto ha davvero inizio la sua storia.

Arpad non ha solo una intelligenza calcistica, i suoi modi, le scelte, lo renderanno unico e precursore di tanti in questo mondo.

A differenza di molti allenatori dell’epoca, non solo era sempre a stretto contatto con i suoi giocatori partecipando attivamente agli allenamenti senza indossare abiti eleganti, ma fu anche il primo a introdurre i sistemi di allenamento programmati e a studiare la dieta di ogni singolo componente della squadra.

Proprio per questo legame con questo sport e con i suoi giocatori, non era strano trovarlo mentre osservava attento gli allenamenti della primavera.

Nel 1927, il suo centromediano, un certo “dottore” Fulvio Bernardini, gli consiglia di tenere d’occhio un “Balilla” che sta facendo grandi cose nella squadra primavera, un certo Giuseppe Meazza che fece poi esordire il 30 novembre 1927 nella Coppa Volta, diventando successivamente leader e stella della squadra, entrando nella storia del club.

Sembra l’inizio di un periodo d’oro per Weisz, ma il 7^ posto in finale lo vede esonerato e di ritorno in Ungheria, dove allenerà lo Szonmbathely e dove conoscerà la sua futura moglie. Dopo quattro mesi di tournée in America latina, nell’estate 1929 viene richiamato di nuovo in Italia dalla sua vecchia squadra, che porterà allo scudetto diventando, all’età di 34 anni il più giovane allenatore di sempre a vincere il tricolore.

Nella sua vita arriva anche il matrimonio, che verrà celebrato il 24 settembre 1929 in Ungheria con Ilona Rechnitzer anch’essa di origine ebraiche e un libro, “Il giuoco del calcio” pubblicato con Aldo Molinari nel 1930. Subito dopo diventa padre del suo primogenito Roberto, nato a Milano.

Nonostante il ritorno, il 5^posto nel campionato 1930/31 gli costa il mancato rinnovo del contratto con l’Ambrosiana Inter costringendolo a ripartire dal Bari, dove ancora oggi viene ricordato con affetto e stima grazie alla storica salvezza di cui fu artefice. Ma il suo carattere schivo, poco si adattava al caloroso sud e l’esperienza pugliese è una parentesi di pochi anni.

Nel frattempo, la Juventus di Edoardo Agnelli e Carlo Marcano vince 5 scudetti di fila, dando prova di una superiorità schiacciante rispetto al resto delle squadre del campionato.

Weisz non lo sa e, quando l’Inter lo richiama, decide di tornare di nuovo nella sua Milano per tentare il bis. Arriva però secondo dietro la Juventus due anni consecutivi, perdendo di nuovo la panchina e nel 1934 si ritrova ad allenare il Novara in serie B.

L’esperienza piemontese dura solo sei mesi e nel gennaio 1935 accetta l’offerta del Bologna, trovandosi in un club che segnerà per sempre la sua vita calcistica ed umana. Arpad trova una squadra organizzata da portare alla salvezza, obiettivo che raggiunge con un onesto sesto posto.

Per sua fortuna il ciclo vittorioso della Juventus sta per finire e nonostante si laurei campione di inverno nel campionato 1935/36, il Bologna di Weisz, grazie ad una difesa grandiosa e ad un gioco pragmatico e spettacolare vince il tricolore con diversi punti di vantaggio sulla seconda che era la Roma.

Lo storico presidente del Bologna Dall’Ara gli rinnova il contratto e Weisz porta al club il secondo spettacolare scudetto, dopo un campionato testa a testa con la Lazio di Silvio Piola.

Ma lo scudetto non basta e il tecnico ungherese porta il Bologna al Torneo dell’Esposizione, praticamente la Champions League dell’epoca. Dopo aver eliminato lo Slavia Praga allo stadio Colombes di Parigi, il Bologna batte 4-1 gli inglesi del Chelsea salendo sul trono d’Europa.

La vita di questo giovane e talentuoso tecnico sembra non poter procedere meglio di così, finché non arriva la storia a fare il suo corso.

Il 18 settembre 1938 infatti, Mussolini promulga le tristemente famose Leggi Razziali e a causa del Regio decreto 1381, tutti gli ebrei stranieri che avevano avuto la residenza in Italia dopo il 1 gennaio 1919, come Weisz, hanno sei mesi per lasciare l’Italia, costringendo il tecnico alle dimissioni.

Il suo mondo che fino a poco prima era fatto di gioie, vittorie e bagordi, riceve un duro contraccolpo, crollano tutte le certezze e comincia a sfaldarsi. Il presidente Dall’Ara non fa nulla per aiutarlo e anche la stampa liquida le sue dimissioni con frasi di circostanza, quasi fosse un allenatore di una squadra di seconda categoria. Ma il calcio a quel punto passa in secondo piano. Essere ebrei impedisce ai suoi figli Roberto e Clara di andare a scuola, Arpad e la moglie Ilona vengono abbandonati dagli amici e da tutti quelli che lo avevano osannato, così nel 1939 si trasferiscono a Parigi, sperando di trovare una squadra da allenare. Non la troverà.

Solo dopo un po’ di tempo e dopo un trasferimento in Olanda, riuscirà finalmente a tornare su una panchina per fare quello che amava, allenare.

Si tratta del Dordrecht, piccolo club dell’omonima cittadina con poco più di 50mila abitanti. In un paio d’anni riesce a portare il club, prima alla salvezza e poi ad uno storico 5^ posto.

Purtroppo, di nuovo, la storia non fa sconti. L’Olanda è occupata dai tedeschi e il 29 settembre 1941, dal Commissariato di polizia della piccola cittadina olandese, parte una lettera al club che invita i dirigenti a proibire ad Arpad Weisz “di stare sul terreno dove sono organizzate partite aperte al pubblico” e successivamente lo invita a non tenere o assumere nessun ebreo nell’associazione.

A differenza del club emiliano, gli olandesi sono vicini a Weisz e alla sua famiglia, consentendogli di sopravvivere nonostante non potesse più allenare. Ma i suoi ex dirigenti poterono fare ben poco contro la Gestapo e il 2 agosto 1942 tutta la famiglia Weisz viene arrestata per essere trasferita nel campo olandese di Westerbork e due mesi dopo ad Auschwitz.

Arrivati nel campo di concentramento, Arpad viene immediatamente separato dalla moglie e dai due figli di soli 12 e 8 anni. I tre verranno avviati subito alla camera a gas, morendo insieme il 5 ottobre.

Arpad Weisz invece resiste due anni. Lavorerà in un campo dell’Alta Slesia fino ad arrendersi per fame e stenti ed essere portato anche lui in una camera a gas il 31 gennaio 1944.

Un calciatore, un allenatore talentuoso, un uomo. Arpad Weisz ha fatto la storia e la storia stessa l’ha ucciso, insieme ad altri milioni di persone.

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Romana e romanista di nascita, trasferita in Friuli Venezia Giulia per sbaglio. Una laurea in scienze della comunicazione, un lavoro come responsabile marketing e un figlio portiere mi riempiono la vita. La mia grande passione è il calcio, la sua storia e tutto quello che ne fa parte.

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