Intervistare un campione non è mai semplice e scontato; l’emozione e la smania di stupire possono giocare brutti scherzi. Se il campione in questione è un vero e proprio simbolo del calcio anni ’90, poi, tutto diventa ancora più difficile. Incontro Igor Protti in un caldo pomeriggio lucano (al Metapontum Village di Metaponto), grazie all’ospitalità di Roberto Vaira e Gigi Franco, due collezionisti che portano avanti l’ambizioso e bel progetto del Museo del Bari.
Mi ritaglio il mio spazio tra i colleghi smaniosi di parlare con il bomber riminese e gli chiedo di accomodarsi al centro di un curatissimo campo da calcetto. Ho subito la sensazione di parlare con una persona molto disponibile e cordiale. Decido di rompere il ghiaccio con una domanda extra calcistica, riguardante un’esperienza teatrale con ragazzi diversamente abili … “E’ stata un’esperienza che ho fatto qualche anno fa con la compagnia Mayor Von Frinzius del Prof. Giannini. Un gruppo eterogeneo che ogni anno organizza uno spettacolo che va in scena al Teatro Goldoni di Livorno. L’ho fatto con grande piacere”.
Il clima cordiale sembra essere sempre più disteso e così inizio a ripercorrere una carriera lunghissima iniziata con il suo Rimini, non ancora maggiorenne … “Per me, entrare nel settore giovanile della squadra della mia città era un sogno. Ho iniziato da ragazzino in una squadra chiamata Gladiatori, poi sono stato preso dal Rimini. Era il massimo in quel momento come è stato il massimo l’esordio in Serie C a 16 anni”.
Non mi posso far sfuggire l’occasione e incalzo con una domanda su quella prima partita tra i professionisti … “Si giocava Rimini – Spal e io entrai al posto di Giordano Cinquetti, icona del calcio riminese. Andai anche vicino a fare gol. Quella palla la salvarono sulla linea altrimenti sarebbe stata l’apoteosi”.
Poi il primo trasferimento al Livorno, la città che lo renderà idolo incontrastato di una tifoseria tra le più calde d’Italia. Da amante di un calcio romantico, cerco di capire se anche nel mondo dello sport esistono “gli amori a prima vista” e chiedo a Igor se per Livorno ha capito di provare qualcosa di speciale fin da subito … “Mi sono legato molto alla città, immediatamente, soprattutto perché Livorno era una città che aveva calcisticamente sofferto. Erano 15 anni che non raggiungeva la B, quando io arrivai nel 1985 e i tifosi questo mi dicevano. Quando tornai, nel 1999, lo feci con l’obiettivo di aiutare la squadra a raggiungere questo sogno. Tra l’altro raggiungemmo addirittura la A due anni dopo. E’ stato un finale di carriera che avevo sognato e, tra l’altro, ho deciso io di smettere e non me lo hanno imposto”.
Prima di arrivare al capitolo Bari, mi faccio raccontare la sua esperienza nel Messina di fine anni ’80, guidato dall’allenatore che più lo ha seguito durante molte delle sue avventure calcistiche, Beppe Materazzi … “Materazzi mi ha fatto esordire a Rimini a 16 anni. L’ho ritrovato a Messina. Noi giocavamo al Celeste, uno stadio molto caldo. Tre anni fantastici di B, una città che mi ha dato tanto e alla quale penso di aver dato tanto. Il passaggio dalla C alla B faceva molta differenza, a livello mediatico. Anche tecnicamente. Al tempo in B si giocava al calcio di più mentre in C era qualcosa di molto più duro. Era un calcio di grande fisicità. Un calcio da uomini”.
E poi La Bari di metà anni ’90 con la quale diventa capocannoniere della Serie A … “Quattro anni meravigliosi. La meraviglia di quel periodo è che, a distanza di 24 anni, c’è un legame pazzesco con la città, la tifoseria. E’ qualcosa di cui sono orgoglioso e di cui vado onorato. Arrivai a Bari in Serie B, feci i primi due anni e poi arrivammo in A. Dopo 3 anni di contratto ero in scadenza e, al tempo, c’erano dei parametri da rispettare a livello contrattuale per chi avesse voluto comprare il cartellino. Parametri basati sull’età, sullo stipendio precedente etc. Non ci furono offerte e così Matarrese mi chiese di andare in ritiro senza contratto. Dopo una settimana venne in ritiro e mi disse che mi avrebbe fatto un contratto ma avrei dovuto firmarlo in bianco. Lo firmai in bianco e quell’anno diventai capocannoniere. La cosa bella, e questo forse spiega il grande legame con Bari, è che i tifosi, nonostante l’anno prima non avessi sfondato le reti, avevano chiesto a gran voce la mia conferma, probabilmente perché amavano il mio modo di giocare, il mio dar tutto per la maglia. Questo resiste nel tempo. Quando diventai capocannoniere non me lo aspettavo assolutamente. Da bambino non ero nemmeno un attaccante. Inoltre sono stato l’unico calciatore italiano ad aver vinto la classifica cannonieri con una squadra che poi è retrocessa. Quell’anno abbiamo battuto il Milan e pareggiato con la Juve due volte. Eravamo una squadra tosta in un campionato molto complicato. Ci tengo sempre a sottolineare che noi, a Bari, dopo l’ultima partita siamo usciti tra gli applausi nonostante la retrocessione in B”.
Dal Bari alla Lazio per formare una coppia d’oro con l’altro capocannoniere della stagione precedente, quel Beppe Signori che aveva fatto faville con i cugini del Foggia qualche anno prima …. “Nel primo periodo non è stato semplicissimo integrarmi nel gioco di Zeman. Io avevo un modo di giocare molto diverso. Dover pensare sempre a quello che dovevo fare in campo non faceva per me. Dovevo avere la testa libera. Poi la seconda parte di stagione è stata diversa con Zoff. Segnai anche un gol nel derby e direi che è stata una stagione molto positiva”.
Ritorno, doverosamente, a chiedere del Livorno, el buon ritiro dove questo cordiale campione ha passato anni di rinascita sportiva, aiutando una città a tornare nella massima serie dopo più di 50 anni e divenendo un punto di riferimento con il suo 10, inizialmente ritirato, e con la sua eleganza mista a professionalità … “Prima di iniziare a fare il professionista ero un tifoso di calcio e quindi quando poi sono passato dall’altra parte non mi sono mai dimenticato cosa i tifosi si aspettano. Rispettare la maglia, rispettare il tifo sono cose fondamentali. Alla base c’è il rendersi conto che quel giocatore sta combattendo per la propria squadra. L’anno prima della storica promozione in A, avevo deciso di smettere. Ero riuscito a vincere due volte la classifica cannonieri in C e un’altra in B e pensavo che il cerchio si fosse chiuso. Quell’anno erano arrivati Lucarelli e Mazzarri, il presidente Spinelli mi chiamava per chiedermi di riprendere e quindi decisi di provarci. Ottenemmo una storica promozione e l’anno dopo, visto che la A me l’ero guadagnata sul campo, giocai l’ultimo anno”.
Concludo la nostra chiacchierata con una domanda banale ma che stuzzica la curiosità di molti. Nonostante Protti abbia rappresentato tanto nel calcio italiano, non è mai arrivata per lui una convocazione in Nazionale. Mi faccio forza e chiedo a Igor se aleggia l’ombra di qualche rimpianto azzurro … “Io ho avuto talmente tanto dal calcio, dal punto di vista umano, che oggi dire di avere il rimpianto di non aver giocato in Nazionale mi sembrerebbe una bestemmia. Ho solo un rimpianto: sono arrivato a giocare la prima partita in A nel ’94 e ho perso mio padre nel ’93. Lui mi aveva seguito fin da bambino e quindi il fatto di non avergli dato la soddisfazione di vedermi giocare in A, almeno una volta, è il mio rimpianto più grande”.
Adesso ho io il rimpianto di aver dimenticato una domanda da fare a Protti ma va benissimo così.