GLIEROIDELCALCIO.COM (Riccardo Lorenzetti) – “Cosa stan a fe’ sti ciula?”, chiese Re Vittorio Emanuele III all’attendente che gli sedeva accanto, in tribuna d’onore.
Sua Maestà si stava annoiando a morte, e nemmeno la finale del campionato del mondo di calcio sembrava smuoverlo dal suo augusto distacco.
E anche Mussolini, davanti ad una partita di pallone, se la dormiva della grossa: ma il Duce aveva anche fiuto politico, e aveva intuito la suggestione che quei ventidue giovanotti in mutande esercitavano sulla gente, con tutto l’utilizzo in chiave propagandistica che ne poteva ricavare.
La fortuna del calcio nacque lì, all’alba dei ruggenti anni trenta: quando l’istituzione del girone unico in Serie A sancisce ufficialmente la fine del dilettantismo e va a mettere ordine in uno sport che ha deciso di organizzarsi come Dio comanda.
Le radiocronache di Nicolò Carosio, gli articoli della Gazzetta dello Sport, i disegni sul Guerin Sportivo e le canzoncine di Gilberto Mazzi (“Meazza che fa rete a tempo di foxtrot”) faranno il resto, fino a quando il calcio soppianterà il ciclismo, e il pugilato, nel cuore degli sportivi.
È in quel calcio comunque bambino (che usa ancora un elegante trattino per separare la parola football) che la Juve diventa ufficialmente la “Fidanzata d’Italia”.
La celebre Juve del quinquennio, che inaugura in quei tempi lontani la suggestione della squadra cosiddetta “invincibile”: in netto anticipo sul Grande Torino, sull’Inter del Mago e ad anni luce di distanza dal Milan di Berlusconi.
Combi-Rosetta-Caligaris… La filastrocca cominciava così, con quei tre ragazzoni “vej Piemont” sui quali punta ad occhi chiusi anche Monsù Pozzo, per la sua Nazionale che si avvia a dominare in lungo e in largo. Più avanti, i due Varglien, classici prodotti della forte terra d’Istria, seria, patriottica e risparmiatrice. Poi Bertolini, forte e generoso con il suo fazzoletto annodato sulla fronte che ne fa una specie di Huckleberry Finn cresciuto sulle rive del Tanaro. Luisito Monti, gigante burbero dal cuore d’oro, e Giovanni Ferrari da Alessandria, calvo come un antiquario; che ha 25 anni e ne dimostra quaranta.
Mumo Orsi, il violinista, e Sernagiotto, il “piccolo ministro”, delicati “oriundi” che sembrano di cera: un gentiluomo veneto come “Nane” Vecchina, e infine Felice Borel, detto “Farfallino”, che è un tipo da seconda ginnasio se non addirittura da oratorio.
È una squadra di classici “bravi ragazzi”. Di quelli che sull’autobus cedono il posto alle signore, e aiutano le nonne ad attraversare la strada.
Ma è anche una squadra prodigiosa, che inaugura il cosiddetto “stile Juve”: quel tratto austero e rigoroso che la Fiat pretende dai suoi dirigenti, e che anche il Regime incoraggia nella vita di tutti i giorni. Puntello indispensabile di quella mistica fascista tutta protesa a forgiare “l’uomo nuovo”.
Ed è in questo quadretto idilliaco che irrompe, nel 1929, Renato Cesarini. Quello che darà il proprio nome alla celeberrima “zona Cesarini”: e che della Juve dei cinque scudetti consecutivi risulterà il calciatore (insieme ad Orsi) di maggior classe e (ancora più di Orsi) il suo vero trascinatore emozionale, l’uomo dai colpi più geniali, maldestri e risolutivi.
Cesarini è la classica pennellata di rosso vivo in un quadro dai colori freddi, la nota jazz in uno spartito di musica fin troppo classica. Arriva dal Chacarita, che in Argentina passa per la squadra dei “beccamorti” (data la vicinanza dello stadio ad un cimitero) e ha nel sangue la fame sofferta da generazioni di Cesarini, prima che arrivi il pallone ad elevarlo al rango di milionario.
E nella severa Torino degli anni trenta, un tipo del genere non può passare inosservato: perché è un bel ragazzo, pur con quel naso storto che si è procurato facendo persino il pugile, fuma una sigaretta dietro l’altra, balla egregiamente il tango ed esibisce un guardaroba di gran lusso (che cambia tre volte al giorno).
Si presenta agli allenamenti in compagnia di una scimmietta, e quando lo obbligano a prendere lezioni di italiano affitta una suite alla maison di Madame Pauline: dove è affezionato cliente, e può coniugare l’utile al dilettevole.
Le ottomila mensili che gli passa Edoardo Agnelli sono una cifra favolosa, per l’epoca: un chilo di pane costa ottanta centesimi, lo stipendio di un operaio specializzato non raggiunge le trecento lire e la celeberrima canzonetta “mille lire al mese” arriverà dieci anni più tardi.
Ma il calcio è già diventato un mondo a sé: una specie di fiabesco Bengodi dove tutto fa brodo, pur di ammaliare la gente. Che dagli uomini in mutande pretende la stessa epica (e la stessa retorica) che hanno reso popolarissimi i ciclisti, e le loro imprese al Tour e al Giro.
E allora, sotto con Levratto, che “sfonda” le reti, e il Balilla Meazza, che segna il cosiddetto “gol a invito”. Le “Rondinelle” che battono i “Canarini”, Schiavio che segna un gol con la maglia azzurra e poi sviene per l’emozione: la leggenda dei “Leoni di Highbury”, e il Bologna, “che tremare il mondo fa”. E naturalmente Renato Cesarini, l’asso della Juventus che segna in “zona Cesarini” in una memorabile partita contro l’Ungheria, e fa nascere la leggenda dell’ultimo minuto…
E che diventerà, nei secoli, un luogo comune destinato ad entrare nel lessico quotidiano, nonostante la statistica ci riveli che (ohibò) i suoi gol in “Zona Cesarini” saranno alla fine non più di tre o quattro, tra gli oltre cento realizzati in tutta la carriera.
Ma così va il mondo: e i libri ci insegnano che anche la storiella di Maria Antonietta, e delle brioches, non era poi mica tanto vera… Ma era importante che potesse trovarla credibile la gente, che poi doveva fare la rivoluzione.
O, nel nostro caso, comprare il biglietto per andare allo stadio a vedere la partita.
Ma è proprio grazie a personaggi come Renato Cesarini, e a storie come questa, che il calcio prende il volo.
E con esso, straripa la Juve degli Agnelli e della Fiat: soprattutto nell’Italia di provincia, che la identifica come un simbolo unificante e trasversale, e non la mollerà mai più. Delegando al suo stile rigoroso, e ai suoi austeri calciatori, la vendetta verso i capoluoghi e i loro soprusi: In Emilia, contro la prepotente Bologna, o nelle valli Lombarde, in odio alla spocchiosa Milano.
E infine in Europa, dove la Juve del quinquennio sarà tra le protagoniste della favolosa Mitropa Cup, che mette di fronte le grandissime dell’epoca: l’Ujpest e il Ferencvaros, lo Slavia di Svoboda e lo Sparta Praga di Nejedly, il Rapid di Binder e l’Austria Vienna di Sindelar.
È la Champions League dell’epoca: e la Juve è già lì, con almeno trent’anni di anticipo rispetto a Real Madrid, Barcellona, Liverpool, Bayern e a tutta l’attuale nobiltà continentale del calcio.
Tornerà alla “sua” Juventus negli anni sessanta, da allenatore: voluto fortemente da Omar Sivori, che davanti a lui abbassa gli occhi e lo chiama teneramente “Maestro”.
È un Cesarini che ha ormai dimenticato le esuberanze e gli eccessi della gioventù, ed è diventato persino saggio.
Ma è anche entrato nella sua “Zona Cesarini”, e infatti morirà di lì a pochi anni, relativamente giovane, stroncato da un’embolia.
“È stato il nostro Charlie Chaplin… Perché anche Cesarini, come Chaplin, era un personaggio a volte comico e a volte tragico. Ed era capace, nell’arco di una sola partita, di farti ridere, e poi di farti piangere.”
Fu l’epitaffio che gli dedicò Vladimiro Caminiti.