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12 maggio 1974: il primo Scudetto della Lazio – prima parte-

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Il primo Scudetto della Lazio

La data in cui si compie l’evento della conquista matematica del primo scudetto da parte della Lazio è storica per gli italiani. È il 12 maggio 1974, è una domenica, e in quel giorno e nel successivo gli italiani votano per esprimere il loro “sì ” o il loro “no” al quesito referendario riguardante l’eventuale abrogazione della legge che nel 1970 ha dato la facoltà di poter richiedere la cessazione degli effetti civili del matrimonio.

Gli italiani, insomma, il 12 maggio 1974 decidono se poter divorziare o meno nel tempo a venire. Chi in quella giornata, invece, contrae matrimonio con lo scudetto per la prima volta nella  storia è la Lazio. Dopo 74 anni di attesa, di speranze, di illusioni e delusioni. Prima, qualche piazzamento  nell’arco di  una quarantina, più  o meno, di campionati a girone unico e una finale persa nei tempi eroici del calcio anteriore agli anni ‘30, per la quale ogni tanto si sono levate recriminazioni che hanno lasciato e che lasciano il tempo che trovano.

La Lazio nasce coeva con il ventesimo secolo, dopo 9 giorni esatti che questo è iniziato. Prima di questa data del 12 maggio, ormai mitica e scolpita nel cuore dei supporters biancocelesti, la Lazio aveva vinto un solo trofeo di un certo significato: la Coppa Italia del 1958, che, peraltro, veniva messa in competizione dopo 15 anni di interruzione. Tommaso Maestrelli, ex giocatore del Bari e della Roma, che negli anni ’40 aveva vestito pure la casacca della nazionale italiana, nel 1971 rilevava la Lazio discesa in “B” e la  conduceva subito in “A”. Egli aveva già acquisito una buona fama come tecnico, avendo anche ricevuto l’ambito premio di Seminatore d’oro grazie alle promozioni dalla “C” alla “B” con la Reggina e dalla “B” alla “A” con il Foggia.

Un uomo, dunque, di esperienza. Pur con lo spogliatoio diviso, anzi spaccato come non si sarebbe potuto immaginare, in due gruppi (uno, quello di Chinaglia e Wilson, l’altro, quello di Martini e Re Cecconi), la Lazio diventa un squadra solida grazie al lavoro, agli insegnamenti, agli influssi, in sintesi, mercé la presenza del medesimo tecnico, che per i giocatori diviene in poco tempo, e sarà per sempre, non  solo un allenatore, ma anche un amico, un fratello maggiore autorevole, senza essere autoritario, semmai carismatico, e un secondo padre. Egli la squadra romana la prende per mano e la rialza nello spazio nello spazio di una stagione, dopo che a metà maggio del 1971 sulla stessa era piombato, inesorabile e carico di promesse funeste o grame,  l’anno zero, l’ennesimo  anno zero di una società in quegli anni zavorrata da vari problemi e costretta a subire l’onta della retrocessione in “B”.

Eppure, nella Lazio che mestamente si cala nel baratro della cadetteria si annoverano ben 8 giocatori tra quelli che sarebbero stati scudettati appena 3 anni dopo. Del resto, la società romana annoverava per lo più di giocatori abituati soprattutto alle serie inferiori e quindi qualche timore reverenziale nei confronti della “A” era ammissibile e legittimo. Per esempio, il nuovo portiere Felice Pulici, proveniente dal Novara, non aveva calpestato ancora l’erba degli stadi di “A”. Il terzino destro Mario Facco aveva solo due campionati alle spalle nella massima serie. Il terzino sinistro Luigi Martini, prima di pervenire alla Lazio nella stagione 1971 – 72 in “B”, aveva giocato in squadre come Lucchese (serie “D”), Siena (in “C”) e Livorno (in “B”).

Il mediano Franco Nanni aveva all’attivo solo 7 partite in “A”, sempre con la Lazio. Lo stopper Giancarlo Oddi pure meno di Nanni: 3 presenze. Il libero Giuseppe Wilson poteva apparire, quindi, un veterano della massima serie con 2 campionati. Gli faceva da contraltare Renzo Garlaschelli, che veniva dal Como, dove aveva sperimentato solo la “B”. Solo il centrocampista Frustalupi (che, peraltro, era l’unico della rosa biancoceleste ad aver vinto qualcosa di importante, ovvero lo scudetto con l’Inter nella stagione 1970 – 71) poteva vantare diversi anni di militanza nella serie “A” con Sampdoria e Inter.

Il centravanti Giorgio Chinaglia come Wilson vantava due campionati in “A”, quelli del ’70 e del ’71, giocati da compagni di squadra. Luciano Re Cecconi la “A” l’aveva respirava con il Foggia nel campionato 1970 – 71 con in panchina Maestrelli (che, conoscendolo, lo volle fortissimamente in biancoceleste, mentre l’ala sinistra Pierpaolo Manservisi, con Pisa, Napoli e Lazio, qualcosa in più di Chinaglia o di Wilson in “A” aveva esperito.

Questo per suggerire l’idea di come la Lazio potesse vedere la massima serie che andava ad affrontare a partire dal 24 settembre 1972: probabilmente, come una difficile altura da scalare. Ma, d’altronde, questa “difficile altura” i dirigenti biancazzurri, e in particolare Sbardella, che curava il mercato, non volevano che divenisse proibitiva. La salvezza era un obiettivo che non doveva essere mancato, per cui la campagna acquisti-cessioni si era incentrata su un punto fondamentale: evitare di cedere Giorgio Chinaglia, che si era distinto in “B” per i suoi gol. Ma dato che la Lazio non era società eccessivamente “ricca” e come risorse finanziarie non poteva certamente entrare in competizioni con le grandi società del Nord, era necessario vendere qualche giocatore, la cui cessione fruttasse discrete quantità di denaro.

Per questo veniva “sacrificato” Giuseppe Massa, che andava all’Inter, ma, in compenso e grazie ai soldi ricavati da questa vendita, la squadra biancazzurra romana piazzava quattro “colpi” importanti: il portiere Pulici, l’ala destra Garlaschelli, l’interno Re Cecconi e il regista Frustalupi. Altro ritocco, rivelatosi poi cruciale, Sergio Petrelli, che proveniva dalla Roma, scambiandolo con Sulfaro. Manservisi rientrava dal Napoli dopo un anno di prestito. Così la Lazio poteva  schierare Pulici in porta, Facco e Oddi terzini marcatori, Martini terzino incursore, Wilson libero, Nanni regista arretrato, Frustalupi regista avanzato, Re Cecconi interno mobile, Manservisi tornante e Chinaglia e Garlaschelli punte. Ma, d’altro canto, come possibili, verosimili protagoniste della serie maggiore di quella stagione si potevano ragionevolmente individuare la Juve, campione uscente,  e il Milan, innanzitutto.

Però, capitava l’insperato, ovvero che la Lazio sin dalle prime giornate primeggiava con Milan e Juventus, vincendo certe partite già nel primo tempo: addirittura, il 19 novembre 1972 la Lazio, dopo la partita vittoriosa con il Palermo, svettata solitaria in classifica. Solo una volta tale evenienza si era prodotta in quasi 73 anni di vita della squadra. La Lazio, a fine campionato, sfiora lo scudetto; avrebbe potuto vincerlo, come lo potevano vincere Juve o Milan. Forse quest’ultimo lo ha buttato al vento, avendo qualcosina in più delle altre due (degne) concorrenti. Quanto alla Lazio, essa può rammaricarsi di qualche infortunio occorso dopo la partita di ritorno con il Milan, che può aver frenato la corsa, ma, in ogni caso, era una soddisfazione non da poco essere arrivati a 3 minuti dalla fine del campionato ancora nell’incertezza del risultato finale e con la buona chance di poterlo vincere.

Da notare come la Lazio avesse, comunque, conseguito un record stagionale: quello di subire meno reti di tutti. Solamente 16, grazie a una difesa attenta e a un portiere, Felice Pulici, dalla tecnica eccellente, scattante come una molla, uno dei migliori in Italia a quell’epoca, indubbiamente. Eppure, egli, in quella stagione 1972 – 73, era un esordiente nella massima serie. Prima, fra Lecco e Novara, tanta “B” e “C”, senza escludere periodi relegato in riserva. Veramente una grande sorpresa. Chiuso questo campionato, la Lazio resta se stessa ed evita di vendere i propri gioielli, benché richiestissimi. Soprattutto, evita di privarsi della propria punta di diamante (in fondo, è universalmente riconosciuto che la Lazio del primo titolo nazionale non avesse a disposizione grossi campioni, tranne uno), ovvero Giorgio Chinaglia. Eppure, quest’ultimo ha “rischiato” di essere ceduto al Bologna nelle ultime battute del calciomercato.

Il presidente laziale Lenzini era in procinto di scambiare Chinaglia con Novellini e Fausto Landini e 400 milioni di lire. Maestrelli si opponeva in maniera strenua e si scatenava una litigata. Il tecnico biancoceleste intuiva che espungere Chinaglia da quella squadra sarebbe stato come svuotare la stessa. Non solo tecnicamente, ma anche dal punto di vista della particolare “carica” agonistica che contraddistingueva la compagine, essendo il giocatore uno dei capi banda, e di quella principale, delle due contrapposte che componevano la Lazio.

Come è risaputo, lo spogliatoio della Lazio era ferocemente diviso: da una parte quello di Chinaglia, dall’altro quello di Re Cecconi e nelle partitelle infrasettimanali giù botte a non finire, autentiche battaglie tra due fazioni in lite, che spesso determinavano infortuni tali da non permettere alla vittima di turno di poter essere impiegato nel match da giocare la domenica.

Ma, riguardo a coloro che rimanevano “integri”, questi contrasti cessavano come per incanto appunto la domenica, quando il gruppo si compattava e diventava uno, senza distinzioni; le contrapposizioni degli altri giorni diventavano materia per eccitare ed elettrizzare la squadra durante le sfide contro gli avversari. Più le due parti in lotta si infuocavano tra di loro nei giorni feriali, più la squadra era unita, coesa e granitica la domenica, e per gli avversari toccare un laziale era automaticamente  come mettersi contro tutti gli altri. Un unicum nella storia del calcio italiano.

La peculiare foga nervosa facile a scintille che potevano dare liti, propria di un gruppo di giocatori i quali si sono sempre definiti “una banda di matti”, è servita per portare a casa uno scudetto. E Maestrelli, avendo verificato tale circostanza, non solo non l’ha compressa, ma l’ha opportunamente dosata e sostenuta, ed ha creato uno dei due componenti dell’alchimia dello scudetto laziale.

L’altro è stato il suo calcio totale, impartito ai suoi giocatori e assimilato dagli stessi attraverso il continuo movimento, il pressing e quello che veniva sintetizzato come “fare bagarre”, per definire e qualificare quella sorta di calcio all’olandese in salsa romana, che non dava riferimenti agli avversari e, anzi, li lasciava in balia dei laziali, che rovesciavano loro quella furia furibonda accumulata durante la settimana.

La tattica di gioco così favoriva gli effetti esplosivi di quel particolare modo di essere e di agire, tutto nervi e azione, dei calciatori in maglia biancoceleste. Nella tattica, quindi, si incanalava naturalmente lo speciale, unico spirito “particolaristico” dei biancocelesti: questo è il prodotto sublime dell’epopea di Maestrelli a Roma. Lo scudetto della Lazio sotto questo profilo è  veramente eccezionale, mai in nessun altro contesto ripetuto, o ripetibile. Non è clonabile, non può essere oggetto di imitazioni. Da un punto di vista del valori tecnici è unanimemente riconosciuto che la Lazio non fosse uno “squadrone” zeppo di fuoriclasse.

Per cui, si può ribadire e certificare che la particolare “essenza” della Lazio, con i giocatori che si preparavano per affrontare le partite con autentiche battaglie intestine o con duelli a pistolettate contro bersagli che potevano essere bottiglie o sagome (volendo essere sempre il primo o il migliore, Chinaglia non ha mancato di presentarsi con un fucile Winchester), che avevano lo scopo di rendere gli undici che poi scendevano in campo una sorta di masnada coriacea decisa a tutta, unito a una particolare tattica di gioco che risaltava ed esaltava l’essenza calcistico-belluina dei biancocelesti, ha costituito qualcosa di veramente e assolutamente diverso e originale.

E questo è merito di Maestrelli, che ha posto in essere dal nulla questo raro miracolo calcistico. E la mano miracolosa di Maestrelli si evidenzia ancor maggiormente se solo si fa una considerazione: nella squadra biancazzurra allenata dal tecnico argentino Juan Carlos Lorenzo che il 16 maggio 1971 finisce tristemente e senza speranza  in serie “B” vi giocano Wilson, Facco, Polentes, Ferruccio Mazzola, Chinaglia,  Moriggi e Manservisi, ovvero tutti elementi che militano nella Lazio scudettata.

Eppure, questi uomini nel ’71 non erano così determinati e determinanti, agonisticamente feroci e tatticamente eclettici come lo sarebbero stati 3 anni dopo, appena 3 anni dopo, con il nuovo allenatore. Quindi la figura di Maestrelli è fondamentale ai fini della creazione di una cornice assolutamente ribaltata e rivoluzionata rispetto ad alcuni anni prima. Importante, peraltro, in questo perimetro eccezionale è stata la figura di Mario Frustalupi, che nel contesto delle due bande in lotta ha agito da trait-d’union, da elemento di raccordo, di sintesi, stemperando quelle tensioni che rischiavano di travolgere tutto, per quanto eccessive o fuori luogo.

Il troppo non doveva “stroppiare” e Frustalupi era garanzia che non si superassero certi limiti. Così,  mantenendo intatta la compagine, viceversa, si sarebbe potuto ritentare la bella impresa della stagione appena trascorsa e magari sperare in qualcosa di più con opportune, mirate migliorie tattiche e strategiche. Nel calciomercato estivo la Lazio acquisisce due giocatori: uno è Inselvini, un mediano proveniente dal Brescia, l’altro è Vito Chimenti, che viene acquistato dal Matera per poi essere girato in autunno al Lecco. Nel mercato novembrino dal Brindisi viene preso Franzoni, di ruolo attaccante.

Aggiustamento di tiro in corsa; il campionato avrebbe rivelato la bontà della scelta, convalidandola con punti importanti. Comunque, Maestrelli stesso conferma che l’obiettivo era quello di confermare il parco giocatori utilizzato la stagione precedente; Inselvini, l’uomo in più, seppur giovane, avrebbe potuto offrire esperienza. Ma il vero colpo della Lazio della stagione dello scudetto è il recupero e la consacrazione successiva di Vincenzo D’Amico.

Un brutto infortunio, con lacerazione dei legamenti del ginocchio destro, a neanche 18 anni compiuti, stava rischiando di stroncargli la carriera quasi prima che iniziasse, e non solo a certi livelli. Nativo di Latina nel 1954, inizia a giocare nel Cos della predetta città sin dall’infanzia. Passa agli allievi dell’Almas Roma. Dopo aver tentato di entrare in varie squadre “maggiori”, tra cui la Roma (pare lo abbia “bocciato” Herrera, nel ’70), può accedere alla Lazio. Esordio in serie “B” il 21 maggio 1972 in un Lazio – Modena 2 a 1. Subisce l’incidente di gioco di cui si è accennato sopra il 5 ottobre 1972 in un’amichevole banale a Rieti.

Nel campionato 1972 – 73 è costretto a marcare visita (chissà se con la sua eventuale presenza in campo la Lazio non potesse ricavare quel quid pluris tale da poter vincere lo scudetto già quell’annata; quest’ipotesi non sarebbe da escludere astrattamente).

Così, per la stagione 1973 -74 la Lazio può schierare Pulici in porta (l’ottima prova della stagione precedente ne fa una garanzia); terzino destro Petrelli (che vanta esperienze anche riguardo al lato opposto del campo), mentre a sinistra opera l’ex mediano Martini; e ambedue, d’altronde, sono molto mobili e così non stazionano staticamente in difesa, aspettando l’avversario; sovente fungono da autentiche ali a supporto della parte avanzata della squadra.

Centrali sono Oddi e Wilson, che fanno rispettivamente da collaudati stopper e libero; a centrocampo si segnala Nanni con funzioni di mediano che fa da raccordo tra la difesa e il centrocampo; Re Cecconi è una mezzala che ha quasi il dono dell’ubiquità per quanto mobile; D’Amico è una mezzala di fantasia che crea di più di quanto sia legittimo aspettarsi (e pretendere) in rapporto alla sua età; Frustalupi è un grande regista, a tutto tondo, classico nel vero senso della parola, come da manuale calcistico universale e senza tempo; all’attacco Garlaschelli e Chinaglia.

Soprattutto si segnalano Vincenzo D’Amico, Mario Frustalupi, Giorgio Chinaglia e Renzo Garlaschelli.

Il primo è la rivelazione assoluta del campionato, anche in rapporto all’anagrafe, come accennato (non ancora ventenne). Un talento naturale, dalla classe innata, dalla fantasia eccezionale; un giocatore capace di inventare occasioni come pochi. Molti dei gol di Chinaglia passano dai suoi piedi. Peccato che simile fuoriclasse con il tempo si sia in un certo senso “perso”, un po’ risucchiato dal declino della squadra laziale, posteriormente alla morte di Maestrelli e alle successive vicissitudini post-retrocessione a seguito dello scandalo del calcio-scommesse del 1980. Mario Frustalupi è il timoniere della squadra, il direttore d’orchestra che ordina e dà equilibrio.

Eppure, dopo i lodevoli anni trascorsi alla Sampdoria, il suo approdo all’Inter non è fortunato. Fra i nerazzurri milanesi avrebbe dovuto cogliere il testimone di Suarez. Vince lo scudetto nel 1971, ma a Milano non ha la fortuna calcistica che meriterebbe e che si preventivava, forse perché “chiuso” da Corso, che proprio in quell’anno, forse perché “libero” dall’assillo di Helenio Herrera, con cui non andava d’accordo da una vita e una volta esonerato dalla panchina dell’Inter l’altro Herrera, Heriberto, che lo voleva giubilare, offre il meglio di sé. Così finisce, inopinatamente per l’Inter (che si priverà  pure di Corso nel 1973), alla Lazio nel 1972, dove risorge.

Giorgio Chinaglia nella stagione scudetto sperimenta e manifesta la definitiva e più alta realizzazione della propria classe calcistica. L’apoteosi che non avrà, purtroppo, seguito. Attaccante forte, anzi gigantesco, come stazza, inarrestabile, irruento, dal carattere focoso, da capo banda, si impone come uomo simbolo della Lazio. È figlio postumo della guerra, delle sofferenze, delle povertà e dei disagi dalla stessa arrecati a una o due generazioni di italiani, e conosce l’emigrazione. Da questo riceve un ulteriore pungolo per lottare ancora con più tenacia, al fine di emergere, sollevarsi e imporre. La famiglia è originaria di Massa Carrara; il padre, terminata la seconda guerra mondiale parte per la Gran Bretagna, poi seguito da altri familiari, tra cui il futuro giocatore laziale. Il padre prima lavora come operaio, poi come cuoco, finendo con l’acquisire un ristorante.

Il figlio Giorgio lo aiuta; contemporaneamente dà prova come calciatore e rivela grinta non disgiunta da agonistica “sfacciataggine”, il che lo pone all’attenzione. Lo Swansea lo prende nelle proprie giovanili ma a 18 anni nel 1965 in pratica lo boccia e gli sbarra la strada del calcio professionistico Inglese. Il padre faceva a quel punto in modo che potesse tentare in una delle squadre del proprio luogo di origine, la Massese, che all’epoca militava in serie “C”. Chinaglia si faceva valere e per la bellezza di 100 milioni di lire nel ’67 lo rilevava l’Internapoli, sempre in terza serie, dove giocava per due anni, incontrando Wilson.

Nel ‘69 lo comprava la Lazio; in due campionati di “A” segnava 21 reti complessivamente. A cui ne seguivano altri 21 in “B” nella stagione 1971 – 72 e 10 nel campionato appena trascorso in massima serie con il terzo posto. Forse in quest’ultimo sperava di poter segnare più gol, ma, comunque, si era anche reso utile alla squadra aiutando, talvolta, i centrocampisti.

Comunque, Maestrelli era convinto che con un anno in più di esperienza, sia personale che della squadra, avrebbe potuto fare meglio. Nella stagione dello scudetto, si può anticipare, va in rete 24 volte, sempre con la solita forza e con più elevata foga, ed è la consacrazione. Poi, purtroppo, non sarebbe stato più come prima. Garlaschelli dal “destino calcistico”, se così posso esprimermi, in quel contesto è stato “condannato” a  ruoli leggermente secondari, quasi di comprimario, se così si può dire. Ma la sua classe andava oltre. Comunque, nell’anno dello scudetto non manca di segnare gol decisivi.

E questa, per sommi capi, è la Lazio ai nastri di partenza del campionato 1973 – 74, nel contesto del quale la medesima ha piena consapevolezza delle proprie possibilità, valendo l’esperienza maturata durante l’annata appena passata, ma ha anche il possibile svantaggio di non essere la ”sorpresa” dell’anno appena trascorso. La squadra è tranquilla; Maestrelli indica come favorite per lo scudetto Juve e Milan. Il campionato inizia il 7 ottobre 1973, la Lazio inizia bene il campionato vincendo autorevolmente a Vicenza per 0 a 3, con gol di Chinaglia, Re Cecconi e Garlaschelli.

L’inizio è con i fiocchi, anche se la squadra non appare del tutto al meglio. Lazio sicuramente convincente; battere con tre gol di scarto un Vicenza mostratosi molto gagliardo non è cosa da tutti i giorni. La Lazio sarà molto regolare in tutta la stagione, e pur perdendo complessivamente 5 partite, non manifesta mai segni di cedimento, anzi gioca sempre bene e con intensità. Peraltro, qualche sconfitta, come quella contro il Torino in casa nel girone d’andata, è casuale e assolutamente immeritata. Qualcun’altra è stata casuale e basta, come quella contro la Sampdoria nel ritorno.

Forse solo quelle patite in casa Juve nel giro d’andata e quella in casa Inter nel ritorno si possono riconoscere come giuste, soprattutto la seconda, dato la squadra romana non riesce a tenere il campo quasi per niente. Valutando qualche partita essenziale dei biancocelesti, si veda, intanto, quella del 28 ottobre 1973. La Lazio è attesa dall’esame Juve a Torino. I bianconeri vogliono riscattarsi dopo la sconfitta a Napoli la settimana precedente.

L’ardore agonistico laziale ha ragione nel primo tempo e i romani passano allo scadere della prima frazione di gioco con Chinaglia. Prima, poco dopo la mezz’ora, a seguito di azione caparbia di Bettega, Cuccureddu centra l’incrocio dei pali. Al 45’ Chinaglia segna. L’attaccante prima serve Nanni, poi si libera di Morini e smarcato aspetta che il predetto Nanni chiuda la triangolazione: eseguita e confezionata la medesima, la mette dentro. Nella ripresa prevale, però, l’esperienza e l’intelligenza della Juve, che segna tre gol con Altafini, Bettega e Cuccureddu.

I bianconeri dimostrano quella coralità di squadra che non avevano manifestato il turno prima a Napoli. Questa volta il collettivo prevale sul singolo e tutti corrono per tutti. Bettega, Altafini e Causio, tuttavia, brillano su tutti. La Lazio, dal canto suo, soprattutto, nel primo tempo, con Chinaglia o Re Cecconi dà filo da torcere alla difesa Juventina. La Juve pareggia al 5’ della ripresa: punizione di Causio e Altafini segna di testa. La Juve alza la testa, Causio è in giornata di grazia, Longobucco ha un’occasione d’oro.

Al 17’ lancio di Capello, intervento di Altafini e Bettega di capo segna. La Lazio, dopo iniziativa di Chinaglia, che nel corso dell’incontro fa ammattire Morini, ordisce una bella azione, ma la difesa juventina evita guai maggiori. Sul finale ancora Altafini sulla cresta dell’onda e gol di Cuccureddu. Ma la sconfitta non scalfisce la convinzione dei laziali di poter condurre un ottimo campionato e non ne diminuisce la determinazione. Maestrelli sottolinea in sede di commenti come anche nel secondo tempo la propria squadra avesse creato problemi ai bianconeri. Un incidente di percorso, quindi, e basta.

La terza di ritorno, il successivo 17 febbraio 1974, è fondamentale per il campionato: a Roma si fronteggiano la Lazio, reduce dalla terza sconfitta di campionato, dopo il ko di Genova, e la Juve, distanziata al momento di due punti. Scontro delicato soprattutto per la Lazio: se la Juve dovesse prevalere, le due compagini si troverebbero appaiate in testa con la seconda che risulterebbe balzata al vertice in rimonta, quindi con una spinta psicologica molto carica e con la consapevolezza di una maggiore esperienza in fatto di gestione di lunghe “volate” scudetto. Vincesse la Lazio, questa spingerebbe i bianconeri a 4 punti, il che non sarebbe poco.

Anzi, sarebbe una buona ipoteca sul campionato. La Lazio è determinata e Maestrelli, già appena dopo la sconfitta nel campo della Sampdoria, non aveva mancato di significare che la propria squadra  doveva riscattare lo stop appena rimediato in terra genovese. E il tecnico biancoceleste ribadiva in settimana che i propri uomini avrebbero offerto una grande prova.

L’allenatore, avendo verificato che si era sopraggiunti al momento cruciale del campionato, al frangente che praticamente decideva tutto, faceva da buon psicologo, dava il meglio della propria sapienza calcistica, della propria esperienza di tante battaglie, facendo uso anche della propria convincente umanità, da autentico e riconosciuto pater familias (che, in fondo, questo era) della Lazio per mettere a proprio agio la propria armata, spronandola adeguatamente.

Lenzini non mancava di prevedere che i biancocelesti avrebbero vinto. Scese le squadre in campo in uno stadio Olimpico strapieno come rare volte, dopo 5 o 6 minuti i romani sono in vantaggio con un gol di Garlaschelli, originato da una serie di rimpalli, innescati da un cross di Inselvini, che non fa rimpiangere il titolare Re Cecconi.

La Lazio parte in quarta; nessuna remora di carattere psicologico attraversa i nervi dei romani, pur al cospetto della Juve, che da decenni ha (e avrebbe avuto in avvenire) l’arma non tanto segreta, la marcia in più nel saper e nel poter (quasi che la circostanza le riesca facilmente) intimorire l’avversario con il peso e la riverenza generati quasi naturalmente dal proprio blasone, dalla propria tradizione, dalla propria storia e dalla propria potenza economica; viceversa, si appalesano efficacemente a protezione dei padroni di casa lo scudo e il vaccino del proprio “essere” spregiudicati, della propria natura di masnada pronta a tutto, della propria essenza di banda composta da soggetti irriverenti, guasconi, senza paura.

Ma di una banda (anzi di due bande fuse in una la domenica) su cui ha agito la forza morale di Maestrelli, che per catechizzare ed esaltare i propri uomini non ha bisogno di parole, ma lo sguardo; e tutti rimangono infiammati di sacro ardore di vittoria. Petrelli potrebbe non molto dopo raddoppiare a seguito di passaggio di Nanni.

Il gioco “totale” della Lazio permette ai biancazzurri di piazzare frequentemente un uomo, o più uomini in posizione pericolosa, e sempre si trova qualcuno, come un perpetuum mobile e come un deus ex machina, che fa girare la squadra, in grado di lanciare questo o quel compagno a rete. Raramente queste dinamiche fluide subiscono ostacoli tali da impedirne  movimenti e mosse, che appaiono come frutto di logiche naturali. Chinaglia, che si rivela ancora una volta efficace cecchino sui calci piazzati, raddoppia due o tre minuti prima che scocchi la mezz’ora di gioco. La Lazio appare superiore.

La Lazio è naturalmente e realmente superiore. Nella ripresa dopo pochi minuti la Juventus potrebbe riaprire il match quando Gentile in percussione sfrutta un errore di Petrelli. Qualche ingranaggio, del resto, della macchina laziale può incepparsi. Non si dimentichi che si tratta di uomini; soprattutto, non si voglia obliare che si tratta di giocatori che, in linea di massima, dal punto di vista del tasso tecnico non sono migliori degli juventini.

Semmai al riguardo si può sostenere il contrario, ché il punto di forza dei laziali, quello che li rende eccezionali e li spinge sopra gli altri, sopra tutti gli altri, è il contesto particolare nel quale vivono, è il loro modo di essere, di agire e interagire in quella cornice nella quale Maestrelli li lascia fare sì, ma poi li inquadra e li eleva. Così, ritornando alla circostanza dell’errore di Petrelli, deve intervenire in fallo Wilson ed è rigore che Cuccureddu tira centralmente e che Pulici può ribattere. All’8’ della ripresa la Juve ottiene un secondo rigore: Anastasi, lanciato da Gentile mette al centro e Petrelli trattiene Altafini.

Anastasi segna dagli undici metri. Dopo il secondo rigore a favore degli ospiti la partita si accende anche negli spalti. Il capitano laziale Wilson fa presente all’arbitro Panzino che se qualcuno di quegli ottantamila spettatori “scende, io non lo fermo”. Wilson racconta che il direttore di gara lo guarda esterrefatto e lì per lì non ha la prontezza o la forza neanche di richiamarlo, potendolo benissimo ammonire. Successivamente è la Lazio a vedersi concesso un penalty per intervento di Morini a danno di Chinaglia. Questi trasforma. Poi l’arbitro, dopo aver elargito il rigore alla Lazio, proferisce a Wilson: “adesso non mi dici niente”.

Ma forse l’arbitro aveva accordato il rigore alla Lazio perché “toccato” dalle precedenti parole del medesimo capitano biancoceleste, molto più pregnanti, suggestive e significative delle proprie. In fondo, si tratta di un rigore “cercato” da Chinaglia, non sembrando l’intervento di Morini così falloso. Il contrasto oggettivamente c’è, è rilevabile, certo, ma probabilmente in un altro contesto l’arbitro (o un altro direttore di gara) non avrebbe fischiato la massima punizione (non escludendo l’ipotesi che avrebbe potuto sanzionare il laziale, magari). Poi Oddi salva su Anastasi. Con i due gol segnati Chinaglia balza alla testa della classifica dei cannonieri. Questa vittoria è unanimemente considerata uno spartiacque del campionato perché la Lazio acquista ancor più consapevolezza che avrebbe potuto farcela.

La stessa  poteva prendere ancor più orgogliosa coscienza di sé, poteva esaltarsi come identità, si poteva infondere, come per ideale “sacra” autocombustione, ancor più coraggio. L’essere stesso della Lazio era automatica energia. L’essere stesso della Lazio era la marcia in più del suo divenire. Il suo divenire era una splendida cavalcata attraverso un gioco nuovo e diverso dal solito. Questo contribuiva a rafforzare quanto di positivo quell’essere esprimeva. In due parole: le migliori virtù della Lazio in quell’anno d’oro si sono beneficamente ingravidate a vicenda, nel momento opportuno e nel contesto ideale. Si sussurra finalmente la parola scudetto, prima tabù.

La Lazio adesso ha le carte in regola per diventare più spregiudicata e feroce caratterialmente. Il che avrebbe avvampato ancor più gli animi di quella particolare squadra. Trentuno marzo 1974, ventitreesimo turno.  Roma – Lazio. Partita sentitissima forse più dalla Roma che non vuol cedere il “primato” cittadino ai biancocelesti. Stadio gremito e match da subito intenso. Segna per prima la squadra di casa con Spadoni. La rete è stata contestata perché non è apparso chiaro se la sfera avesse oltrepassato la linea di porta del tutto dopo l’intervento di Pulici.

Fine prima parte 

GLIEROIDELCALCIO.COM (Francesco Zagami)

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