GLIEROIDELCALCIO.COM (Matteo Fontana) – C’erano i suiveurs a chiamarli gli “Acchiappanuvole”. Come i cacciatori di sogni, quelli che li avvicinano e li toccano pure, un po’ poeti e un po’ maghi. Erano le estati degli anni ’80, e parevano non finire mai. Nel ricordo, diventano tempi del mito, senza una data, senza scadenze, solamente il mattino e di lì alla sera. Venne una primavera, e fu la più dolce delle stagioni. Era il 12 maggio e l’Italia andava ad elezioni, si rinnovavano i consigli comunali, e di qui i sindaci. Pioveva, sulla strada per Bergamo. Il posto in cui dover essere, per migliaia di veronesi. Chi non aveva potuto andarci, si radunò in Piazza Bra, con l’Arena a guardare e il Liston, la passeggiata signorile che l’osserva, inondato di gente, le orecchie tese agli altoparlanti che irradiavano la radiocronaca di Roberto Puliero, la voce gialloblù, con il suo grido “Reteee!” a scaldare le orecchie e ingigantire i cuori. Quel giorno, Verona si sentì felice come mai le era accaduto prima e mai sarebbe stata dopo. Era campione. Aveva vinto lo scudetto.
Due finali di Coppa Italia raggiunte e perse. Una qualificazione alla Coppa Uefa, il primo turno superato con il gusto inebriante di battere per 3-2 la Stella Rossa, a Belgrado. Dopo, l’eliminazione pur priva di sconfitte, 2-2 in casa e 0-0 fuori, con lo Sturm Graz, e un numero smisurato di tifosi a varcare il confine con l’Austria, inseguendo una speranza svanita. Un altro biglietto Uefa sfuggito per una manciata di punti e per l’unica sconfitta subita al Bentegodi in tutta la stagione, proprio nella partita decisiva, con l’Inter. Il Verona, quel Verona, era una delle squadre più belle d’Italia. Dal 1981 l’allenava Osvaldo Bagnoli, silenzioso uomo con le radici nella prima periferia milanese, nato e cresciuto nel popolare quartiere della Bovisa. Taciturno, con le parole contate sulle dita e i sorrisi anche, eppure con la passione “nascosta” per le barzellette – raccontate dagli altri – e l’ambizione di potersene andare in giro a far squillare i campanelli e poi scappare via, come un discolo di rione. Il naso calante, il cappello da operaio calato in testa appena scendeva il freddo, antipersonaggio che non sapeva cosa fossero i lustrini e vestiva con i pantaloni comodi e i maglioncini stretti. Il Verona che, pareggiando per 1-1 con l’Atalanta, il 12 maggio 1985, conquistò il titolo di campione d’Italia, resta la storia grande e unica di quella Serie A che era il magnete che attirava i più forti giocatori al mondo. L’elenco è uno scioglilingua, e a parlare di quella stagione è persino più schioccante: Michel Platini. Zibì Boniek, Paulo Roberto Falcão, Toninho Cerezo, Zico, Edinho, Daniel Bertoni, Kalle Rummenigge, Junior, Socrates, Liam Brady, Mark Hateley, Ray Colin Wilkins, Graeme Souness, Dirceu, Michael Laudrup, Daniel Passarella, Glenn Peter Strömberg. E dopo, l’ultima maestà, Diego Armando Maradona, ingaggiato tra furore di inaspettati fuochi dal Napoli, lui, il Pibe de Oro, il Pelusa, scappato dalla Spagna, dal Barcellona che gli aveva dato qualcosa e tanto gli aveva tolto. Questa è un’altra storia, e qui si dice giusto degli stranieri (due per squadra: o tempora, o mores), e si aggiungano i campioni italiani, tra gli eroi del Mondiale spagnolo – Paolo Rossi, Gaetano Scirea, Antonio Cabrini, Marco Tardelli, “Spillo” Altobelli, Bruno Conti – e i bagliori che fiorivano, e tra questi un giovane Roberto Mancini, accompagnato, proprio da quell’anno, da un arricciato di nera chioma con le gambe da quattrocentista e i calzettoni portati alla cacaiola, pagato un mezzo botto alla Cremonese: Gianluca Vialli.
Fu, numeri alla mano, il campionato più seguito di ogni tempo. La media spettatori a partita fu un record: 38871. Nessuno pensava che potesse vincerlo il Verona. E ci mancherebbe. Quello resta l’unico scudetto, da quando c’è il girone unico, colto dalla squadra di una città non capoluogo di regione. Non è necessario scivolare sul terreno ispido e banalotto della geopolitica per comprendere l’impresa. Tantomeno stuzzica, a distanza di trentacinque anni, il refrain di Davide che sconfigge Golia, richiamo biblico che ha fatto le “fortune” di una vetusta retorica. Il Verona vinse lo scudetto, nel 1984-85, perché era più forte di tutti. Perché aveva un allenatore che non doveva fingersi un incantatore di serpenti o un pifferaio per insegnare calcio. Gli bastava un’occhiata, ripetono, oggi come allora, i suoi allievi, “figli” accuditi sul campo dell’antistadio, di fronte al Bentegodi, un impianto di borgo, con le recinzioni di molle acciaio e una tribuna di legno che guardava la linea laterale opposta alle panchine. Non esistevano le porte chiuse. In centinaia erano i tifosi che, la mattina e al pomeriggio, arrivavano per vedere, per toccare con mano, per allungarsi verso il Miracolo. Era il Verona che, dopo l’Europeo di Francia, a giugno, si era preso Hans-Peter Briegel, il deutsch che, al debutto del campionato, Bagnoli incollò a Maradona, nella sfida dell’Hellas al Napoli, Diego all’esordio in Serie A. Risultato, Briegel segnò il primo gol, il Verona vince per 3-1, Maradona si vide poco, dimesso nella sua casacca bianca. E dopo era arrivato, all’Hellas, Preben Elkjaer, di cognome Larsen, in realtà, ma in Danimarca era come dire “Rossi” alle nostre latitudini, ed ecco la scelta di impiegare quello della mamma. Elkjaer, già, una specie di grido di battaglia. Quando la difesa della Juve fu mandata in frantumi da una sua avanzata, di quelle che neanche uno stuolo di cavalli di Frisia avrebbe potuto bloccare, gli presero uno scarpino, che schizzò via, lasciandolo a piede nudo e con il pallone. Tiro, gol: nacque così la favola di “Cenerentolo”.
Era già il Verona di Piero Fanna, tre scudetti vinti con la Juventus, un’intesa difficile e mai sbocciata con Giovanni Trapattoni, un’ala come non ne hanno fatte più, veloce al punto che quando scattava si sentiva soffiare il vento, vuole un racconto degno di Gabriel Garcia Marquez, talento mercuriale, Turbo per la gente, perché quando partiva non lo prendevi più. Antonio Di Gennaro, “ghibellin fuggiasco”, via da Firenze perché c’era Giancarlo Antognoni e scordarsi un posto da titolare, inventato regista finissimo da Bagnoli. Di Antognoni, Di Gennaro, fu il successore in nazionale, per il biennio che condusse alla (sventurata) spedizione mondiale in Messico del 1986. Giuseppe Galderisi, Nanu perché era un Pollicino che andava alla guerra di aree munite di armigeri dai modi spicci, attaccante coraggioso e acrobatico. In un Verona-Fiorentina, segnò con un tuffo a volo d’angelo, entrando in porta con il pallone e tutto. Roberto Tricella, il capitano, tanto giovane che, quando la squadra – era settembre del 1982 – fu ricevuta in Vaticano da Giovanni Paolo II, il Papa si stupì che a quell’età già avesse l’onore e l’onere della fascia. Domenico Volpati, che voleva smettere con il calcio per completare gli studi da dentista, dopo una lunga carriera che l’aveva condotto dalla C alla A. Era stato Bagnoli a dirgli di continuare. Aveva accettato: non solo divenne dentista, ma pure campione d’Italia e, in ritiro con il Verona, a Cavalese, incontrò la sua futura moglie. E poi Claudio Garella, il portiere che parava con ogni parte del corpo. Mauro Ferroni, terzino che teneva fede all’espressione-luogo comune anziché no del “mastino”, per dire del difensore mordente e ringhiante. Silvano Fontolan, lo stopper con i baffi, lo sguardo da cowboy che galoppa nelle praterie del vecchio West. Luciano “Piso” Bruni, la fantasia di un brasiliano con i piedi di una ballerina di danza classica, anche lui, come Di Gennaro, arrivato a Verona dopo i saluti a Firenze, e lo stesso era stato per Gigi Sacchetti, che un giornalista ispiratissimo chiamò “Singer”, replicando la marca di un ditta di macchine da cucire, cifra dei pregi del giocatore, spigliato in campo e pure fuori, al punto che proprio nell’annata-scudetto fece da conduttore – apprezzatissimo – di una trasmissione televisiva locale, ovviamente tutta in gialloblù. Luciano Marangon, che ai nostri giorni si direbbe “pendolino”, su e giù per la fascia sinistra, la fama invero meritata di tombeur de femmes, la notte sì oppure chissà, ma mai un allenamento saltato o un ritardo, polmoni a mantice e chi lo prende più.
Era il Verona di Sergio Spuri, di Dario Donà, di Fabio Marangon (niente omonimia: di Luciano era, ed è, il fratello), di Franco Turchetta, che Eugenio Fascetti, avendolo allenato a Varese, definisce il più forte dei calciatori che abbia avuto, al pari di Dragan Stojkovic e Antonio Cassano. Fosse stato meno introverso, dice e quasi giura Fascetti, avrebbe scritto un’altra storia. Con loro, che erano quelle che si dicevano “riserve”, in anni in cui il turnover non era nemmeno una parola, siamo arrivati a sedici: fu con questi che Osvaldo Bagnoli vinse il più fiabesco degli scudetti. E tutti, per un giorno e molto di più, vissero felici e contenti.