Le Penne della S.I.S.S.

4 Maggio 1949, ore 17.05: il tragico incidente del Grande Torino 

Published

on

4 Maggio 1949, ore 17.05: il tragico incidente del Grande Torino 

Era partito da Lisbona, con scalo a Barcellona, atteso nel pomeriggio all’aeroporto di Malpensa. Mai chiariti i motivi del cambio di rotta. Alle 17.03, l’ultimo contatto con il pilota del trimotore Fiat G 122. Due minuti, e lo schianto sul terrapieno di Superga. Morirono tutti. Trentuno caduti, giocatori, tecnici, dirigenti, giornalisti, equipaggio. Primi ad accorrere, un muratore e il priore della Basilica. Il Torino s’era recato a Lisbona per la partita d’addio di Francisco Ferreira, capitano della nazionale portoghese. Mancavano quattro partite alla fine del campionato italiano. Imitata dalle avversarie, la squadra granata mise in campo la formazione giovanile, vincendo il quinto scudetto consecutivo. Di quel giorno s’è scritto molto, con l’identica intensità con cui infinite volte s’è sottolineato come quello calciato nell’immediato dopoguerra sui campi di un’Italia avida d’attese fosse il pallone della speranza.

Quella speranza s’alimentò fino al 4 maggio 1949, quando s’aprì una cicatrice mai composta. Fu l’innocenza di un lutto sparso per l’intero territorio nazionale, spazio a un mito rimasto inviolato per il carico di sentimenti che quegli uomini suscitarono, con una squadra fedele alla lezione impartita da Vittorio Pozzo, che dettava come il comandante di una squadra dovesse cambiare mestiere ove pretendesse di sostituire la forza di una cultura agonistica fondata sul cuore e sulla semplice voglia di affermarsi con il calcolo dei milioni di ingaggio.

Quella squadra ebbe in Valentino Mazzola un indiscusso condottiero, di cui Gianni Brera ebbe a scrivere ‘atleticamente strabiliante, scattava da velocista, correva da fondista, tirava con i due piedi come uno specialista del goal, recuperava in difesa, impostava l’attacco, e spesso concludeva’. Fu tale all’epoca la sua celebrità che quando in Brasile crebbe la stella di José Altafini non trovarono di meglio che chiamarlo Mazzola.

Quando la radio dette notizia della sciagura, mezza Italia si ritrovò orfana. Il funerale collettivo, dopo l’angoscioso riconoscimento di resti straziati da fuochi e lamiere effettuato uno per uno da Pozzo, il padre di tutti, si svolse in un silenzio impressionante. L’educazione, il pudore, il rispetto dell’epoca impedirono che la sacralità del momento venisse intaccata dalla fastidiosa platealità dell’applauso. Tra le testimonianze, tra le più toccanti, su Tuttosport, quella di Carlo Bergoglio ‘Carlin’: ‘Li abbiamo visti venir giù dallo scalone del Juvarra nell’atrio di palazzo Madama… interminabile ci è parsa la fila… dall’alto dello scalone tutti ci segnammo trenta e una volta… trentuno anni ci parve quell’ora’.

Giorni dopo, volarono da Buenos Aires a Roma su un Douglas C-24 per l’omaggio al Grande Torino. Udienza in Vaticano da Pio XII, ricevimento in Quirinale dal Presidente Einaudi, trasferimento su due quadrimotori a Torino. Sul luogo del disastro, giocatori e dirigenti argentini del Club Atletico River Plate. Il 26 maggio, al Comunale di Corso Sebastopoli, alle diciassette, trentuno squadre, come i caduti di Superga, composte da bambini delle scuole elementari, aprirono il cerimoniale. Poi, presenti sul pulvinare Jules Rimet, ideatore venti anni prima dei campionati mondiali, e Giulio Onesti a nome dello sport italiano, ‘l’amichevole della fratellanza’.

Il Torino-simbolo fu costruito con una selezione del calcio nazionale, con sostituzioni tra un tempo e l’altro, Giuseppe Moro e Lucidio Sentimenti, quarto di cinque fratelli tutti calciatori, in porta, Sergio Manente, Zeffiro Furiassi, Carlo Annovazzi, Attilio Giovannini, Camillo Achilli, l’apolide d’origini ungheresi István Nyers famoso per il colpo d’esterno sinistro ad effetto, Ermes Muccinelli, Giampiero Boniperti da Barengo, anima della Juventus, Gunnar Nordahl, da poco sceso dalla Svezia con Niels Liedholm e Gunnar Gren, Benito Lorenzi, ‘veleno’ per intemperanza di carattere, generoso nei confronti degli orfani Sandro e Ferruccio Mazzola, John Hansen, Pietro Ferraris.

La partita, com’era giusto, finì in pareggio, due a due, Nyers, Angel Amadeo Labruna, figlio di napoletani, Annovazzi e Di Stefano, autori delle quattro segnature. In chiusura, nello scambio di ricordi, agli argentini fu donata la maglia numero 10 di Valentino Mazzola. Nella squadra sudamericana, campione tra campioni, figlio di Miguel e di Teresa Ciozza, originaria di Genova, Alfredo Di Stefano.

Anni dopo, passato l’Oceano con ingaggio al Real Madrid al termine di un’agitata disputa procedurale e finanziaria con il Barcellona, classe innata, visione totale del gioco, inesauribile mobilità, Di Stefano passerà alla storia come uno dei più grandi calciatori d’ogni tempo. Fra le tante definizioni, decisiva, probabilmente insuperata, sicuramente incontestabile, quella dettata un giorno da Helenio Herrera: ‘Pelé era il primo violino di un’orchestra, ma Di Stefano era l’orchestra’.

GLI EROI DEL CALCIO.COM (Augusto Frasca)

più letti

Exit mobile version