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Serie A 58/59: quando il Calcio italiano provò a dimenticare il “non Mondiale”

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WWW.IOGIOCOPULITO.IT (Matteo Latini) – La storia ormai l’abbiamo imparata a memoria: uscimmo contro l’Irlanda del Nord, con una Nazionale imbottita di oriundi e addio Mondiali, per la prima volta. Non fosse arrivata la notte di San Siro, in pochi la saprebbero, ma contingenze e disperazioni ci hanno portato a riaprire almanacchi ingialliti, quantomeno per condividere il dolore dell’assenza in Russia con chi una delusione di tale portata l’aveva già provata. Oggi come ieri, spettatori di una kermesse che sembra ancora più bella perché così lontana. Ma come andò dopo, nessuno lo racconta. E se la Serie A 2018/2019 dovesse ricalcare quella che all’epoca seguì la prima eliminazione, ci sarebbe da divertirsi. Anche se sarà decisamente difficile.

Nel settembre del ’58, si ripartì dal via con la Juventus campione d’Italia in carica e reduce da una stagione ancora più autoritaria di quella condotta fino a pochi mesi fa dall’attuale Signora di Allegri. Il punto di contatto bianconero accosta le due ere, tutti il resto sembra fantascienza. Il Milan infatti non aveva mandato giù l’essere stato detronizzato e senza fair play finanzieri di mezzo riconfermò Gipo Viani in panchina e iniziò a rimettersi in sesto. Al Mondiale non ci eravamo andati, ma il Brasile sì e lo aveva pure vinto. Soprattutto grazie a Pelè, ma anche per i gol di un altro gioiellino che nei piani iniziali sarebbe dovuto essere addirittura il titolare dell’attacco verdeoro. Si chiamava José Altafini, chiare origini italiana, estrazione borghese e piedi d’oro. In patria aveva brillato in maglia Palmeiras, segnando non ancora maggiorenne. Quando in preparazione del Mondiale passò per l’Italia, per una serie di amichevoli organizzate a scopo preparativo, il Milan non si fece sfuggire l’occasione di piazzare il colpo. Bisognava pur verificare, in fondo, se il nomignolo Mazzola fosse solamente legato a una somiglianza con il mai troppo compianto Valentino o esistessero anche barlumi di similitudine tecniche.

Non si sbagliavano i rossoneri, perché oltretutto sull’altra sponda meneghina alloggiava già da una stagione Antonio Angelillo, che a suon di gol aveva giustificato i soldi versati dai nerazzurri nelle casse del Boca Junior per assicurarsene le prestazioni. Si ripartiva con la Juventus designata battistrada, ma le previsioni non rispecchiarono la realtà. Riconfermato in panchina lo jugoslavo Ljubiša Broćić, i bianconeri si incepparono già alla prima giornata, con la Spal, alternando vittorie e passi falsi per tutto il girone di andata. Neanche Omar Sivori sembrava girare più come la stagione precedente e il solo John Charles non poteva bastare. Ma per il gallese non era stata un’estate di riposo. Se l’Italia era rimasta a guardare, il Galles invece al Mondiale ci era andato eccome, trascinato proprio da quel gigante che aveva trovato gol e affetto anche a Torino. Ne segnò 19 anche in quella stagione post Svezia, Charles, ma servì a poco. Con la ruota che continuava a non girare, Umberto Agnelli le provò tutte, esonerando Broćić e successivamente anche Teobaldo Depetrini, che intanto ne aveva preso il posto. Alla fine, le ultime fiches vennero investite su Renato Cesarini, che in extremis ne aveva segnati tanti di gol, ma dalla panchina per miracoli dell’ultimo minuto non era ancora riuscito ad attrezzarsi. Arrivò un anonimo quarto posto, lenito se non altro dalla Coppa Italia. Ma per la coccarda, all’epoca, si giocava in settembre e più che uno zuccherino di fine stagione poteva essere un bel tonico per il campionato che di lì a poco sarebbe iniziato.

Partito per fare corsa scudetto, invece, il Milan si era messo fin da subito a regime. E con un Altafini in più, Viani poteva ancora contare sull’esperienza di Nils Liedholm e su quello Schiaffino che nel ’50 aveva traumatizzato il Brasile e rovinato la vita del malcapitato Moacir Barbosa.

Ci misero poco i rossoneri a carburare. Subito un 2-0 alla Triestina, poi alla terza uscita anche Altafini si era sbloccato, ma quel campionato non sarebbe stato una passeggiata di salute. Il 26 ottobre, a Vicenza, nello stadio che portava il nome dello zio Romeo, Luigi Menti pensò bene di aggiungere un pizzico di pepe alla Serie A, di concerto con Renzo Cappellaro. Risultato: 2-0. E Milan detronizzato. Ma la vetta non spettò all’Inter. Neanche troppo a sorpresa, in testa vi balzò la Fiorentina, che ormai le alte sfere del campionato le conosceva discretamente bene. Nel 1956, infatti, in riva all’Arno era arrivato il primo storico scudetto, mentre la stagione successiva la cavalcata in Coppa dei Campioni si era arenata solamente in finale, dove d’altra parte il Real Madrid sembrava avere i connotati dell’imbattibilità. Reduce da un secondo posto dell’anno precedente, patron Befani aveva deciso di affidarsi nuovamente alla scuola magiara di Lajos Czeizler, ma in più si era andato a rinforzare sul mercato. In estate, infatti, era arrivato il colpo Kurt Hamrin, reduce dal secondo posto nei Mondiali in Svezia, ma soprattutto da una stagione da 20 gol col Padova. Per il talento scandinavo, l’annata con i biancoscudati era somigliata a qualcosa come una resurrezione. In Italia, infatti, Hamrin ce lo aveva portato la Juventus, ma un infortunio ne aveva abbondantemente limitato le fughe sulla fascia. In Veneto invece l’Uccellino si era rimesso in volo e dalla Toscana non ci avevano dovuto pensare più di tanto su chi fosse l’uomo giusto per sostituire l’estro brasiliano di Julinho, tornato in patria a fare le proprie fortune.

I gigliati erano partiti forte, senza lasciare scampo a Vicenza e Alessandria, ma la riprova della bontà dei propri investimenti arrivò in ottobre, contro l’Inter di Angelillo. L’argentino restò a secco, Hamrin e Segato no: una doppietta a testa e 4-0. Alle luci del capitombolo vicentino del Milan, la Fiorentina si ritrovò così al comando, ma la guerra di logoramento era appena iniziata. Lo scontro diretto in novembre avrebbe infatti premiato i rossoneri, che però finirono con lo sbattere sulla Spal subito dopo. Il duello così si protrasse per tutto il girone di ritorno, fino ad aprile, dove tutto poté decidersi. Il 12, nell’attuale Franchi, viola e Milan si ritrovarono faccia a faccia, ma il favore del pubblico non favorì i gigliati. Non ne aiutò le sorti neanche il gol del solito Hamrin (alla fine sarebbero stati 26 totali…), perché Altafini e Danova ribaltarono la questione. Ma per gioire, la banda Viani dovette aspettare nuovamente Ferrara. Se la Spal aveva fatto penare tutti, non risparmiò neanche la Fiorentina e per una propria coscienza di ammazza grandi fece suo anche lo scalpo toscano, consegnando al Milan uno scudetto che sarebbe arrivato con 52 punti: appena tre in più dei rivali. Ai Viola non bastò realizzare la cifra mostruosa di 95 gol. Ma le tante reti non erano bastate neanche all’Inter e soprattutto ad Angelillo, che di centri ne aveva realizzati 33: quasi la metà di tutta la compagine nerazzurra.

E le altre? Tutte a inseguire. A Napoli, Amedeo Amadei si era rivelato meno prezioso in panchina di quanto non fosse stato in campo, a Roma entrambe le compagini avevano stentato. In particolare la Lazio, che con Fulvio Bernardini al comando si era arenata nella seconda metà della classifica. I biancocelesti avevano potuto contare sull’estro brasiliano di Humberto Tozzi, ma neanche i suoi 13 gol erano riusciti a risollevare la sorti di Bob Lovati e compagni.

Non che la Roma avesse brillato. Il campionato dei giallorossi, infatti, era partito con il ratto di Selmosson, condotto da una sponda all’altra del Tevere. Ma il raggio di luna, non illuminò più di tanto i giallorossi. Il presidente Anacleto Gianni aveva infatti optato per una scelta interna, riproponendo in panchina quel Gunnar Nordahl che nella stagione precedente era velocemente passato dal campo alla sedia per rilevare l’ungherese György Sarosi. Le cose però finirono per mettersi male e fin troppo presto Nordahl pagò dazio, venendo rilevato proprio da quel magiaro di cui in precedenza ne aveva preso il posto. Per i giallorossi, la soddisfazione arrivò almeno dai derby: entrambi vinti, grazie soprattutto a chi ai Mondiali aveva quanto meno provato a portarci, Dino Da Costa.

Fece bene la Sampdoria di Tito Cucchiaroni, piazzatasi quinta, spinta anche dal futuro Ct della notti magiche Azeglio Vicini. Malissimo, invece, andò alle due retrocesse: Triestina e Torino. In particolare i granata, stretti dalla morsa della crisi economica e costretti a marchiarsi con lo sponsor Talamone nello strenuo tentativo di reperire liquidità. Non fu la mossa migliore e, senza neanche un presidente designato ma presieduto da un consiglio di emergenza, la squadra passò per le mani di quattro allenatori, prima di chiudere con la prima storia retrocessione in B. Neanche Enzo Bearzot aveva potuto qualcosa.

Gli alabardati, invece, si affidarono ad Oscar Massei, come faro del centrocampo. La stella argentina soffriva però ancora di quella rottura ai legamenti che ne aveva pregiudicato un futuro roseo all’Inter. La morale fu una discesa in B, con tre lunghezze in meno di quella Spal dove Massei sarebbe approdato giusto qualche mese dopo, per andare a dispensare calcio e forgiare giovani dal grande avvenire come Fabio Capello ed Edy Reja.

Intanto al Mondiale si poteva non pensare più, orami era andato. Restava solo l’eco di Pelé, contro cui ci saremmo scontrati un decennio dopo. La Serie A aveva risucchiato i dolori azzurri e regalato un grande campionato. Ora, chiudiamo gli occhi. Possiamo veramente aspettarci lo stesso per la prossima stagione?

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