GLIEROIDELCALCIO.COM (Eleonora D’Alessandri) – La “Grande Inter” aveva un vizio, vinceva sempre con le più forti. Dopo la Coppa Campioni vinta contro il Real Madrid nel 1964, la Coppa Intercontinentale contro l’Indipendiente, la storica semifinale contro il Liverpool, arriva lo stesso anno, la grande finale di San Siro contro il Benfica. È giovedì 27 maggio 1965 e l’Inter di Herrera è di nuovo sul tetto d’Europa per il secondo anno di fila.
In quel giorno, un violento nubifragio si abbatte su Milano, città nella quale di doveva giocare la finale contro un fortissimo Benfica alla quarta finale negli ultimi cinque anni e che, lungo il suo percorso, aveva rifilato dieci gol all’Aris Bonnevoie, sei allo Chaux de Fonds, cinque al Vasas e ai quarti aveva annientato il Real Madrid per 5-1.
La grande qualità di questa squadra era quasi tutta dovuta al mister ungherese Guttman che sosteneva un calcio collettivo basato sull’alternanza tra marcatura in fase di non possesso e smarcatura in quella di possesso, con passaggi lunghi se si era lontani dalla porta per prendere campo e passaggi più brevi quando si era in prossimità dell’area piccola, con lo scopo di sorprendere la difesa avversaria. Grazie alla sua esperienza Brasiliana Guttman portò innovazione anche nel modulo, usando un 4-2-4. Ovviamente il successo era dovuto anche all’ottimo centravanti Aguas e all’uomo gol Eusebio, detto “il Mago”.
L’Inter invece arriva alla finale di Milano dopo essere partita dagli ottavi in quanto detentrice della precedente coppa. I nerazzurri vincono contro la Dinamo Bucarest battuta 6-0 all’andata e 1-0 al ritorno, poi ai quarti di finale gli scozzesi del Rangers Glasgow (3-2), la storica semifinale con il Liverpool (3-1 in Inghilterra e rimonta a Milano per 3-0), fino al giorno della finale.
Il campo dello stadio milanese era al limite della praticabilità per la pioggia, ma questo non scoraggiò i tifosi, che si presentarono in ottantamila sugli spalti, registrando un record di incasso per il calcio italiano di oltre 176 milioni di lire.
Helenio Herrera fu il primo ad entrare, sotto la pioggia battente, incappucciato e zuppo, ma al calcio di inizio quasi non pioveva più e iniziò la storia.
Il prezioso tagliando della gara (Collezione Melodia)
La formazione è indimenticabile: Sarti; Burgnich, Facchetti; Bedin, Guarneri, Picchi; Jair, Mazzola, Peirò, Suarez, Corso.
Il primo tempo passa equilibrato e il Benfica gioca una partita intelligente, dimostrando la grande esperienza internazionale. L’Inter invece, non riesce a sfondare nonostante abbia il controllo del gioco. Inoltre il campo non aiuta, la palla schizza via o si ferma nelle pozzanghere ed è un peccato, perché una finale del genere avrebbe meritato di essere giocata in condizioni perfette e invece così rischiava di essere figlia di occasioni fortuite e non di vera qualità di gioco.
In una intervista qualche ora prima della partita, Herrera aveva appunto dichiarato: “Noi siamo veloci, loro no. Se il terreno è pesante, noi non saremo più veloci e loro conserveranno il loro passo. Non bisogna mettersi sul loro piano”.
Bisogna aspettare il 42’ del primo tempo perché arrivi la svolta: lancio di Facchetti, scambio Corso – Mazzola, Jair che si smarca sulla destra dell’area piccola dei portoghesi, tiro basso e non troppo violento che passa sotto le gambe del portiere Pereira, ed è gol. L’Inter è in vantaggio e l’urlo degli ottantamila di San Siro arriva fino in Portogallo.
Nel secondo tempo le condizioni ambientali puniscono Peirò, Mazzola e Jair, che nonostante tutto producono comunque azioni interessanti, senza però mai arrivare alla conclusione. L’Inter resiste con fatica fino alla fine, conquistando per la seconda volta la Coppa dei Campioni.
A Milano è festa fino a notte fonda in piazza del Duomo e il giorno dopo, il settimanale “MilanInter”, pubblicherà come titolo di prima pagina “Inter figlia di Dio”, a riprova della gioia e dell’entusiasmo di una Grande – e indimenticabile – Inter e di tutto il popolo neroazzurro.
Romana e romanista di nascita, trasferita in Friuli Venezia Giulia per sbaglio. Una laurea in scienze della comunicazione, un lavoro come responsabile marketing e un figlio portiere mi riempiono la vita. La mia grande passione è il calcio, la sua storia e tutto quello che ne fa parte.