Storie di Calcio
8 maggio 1983: la Roma vince il secondo Scudetto -prima parte-
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6 mesi agoon
Lo scudetto della Roma ottenuto l’8 maggio 1983
Lo si dica da subito: lo scudetto che la Roma conquista l’8 maggio 1983 è, innanzitutto, merito dell’allenatore Nils Liedholm. Infatti, mai nella sua storia la Roma vivette, sino al secondo avvento del tecnico svedese nella panchina giallorossa nel 1979, un periodo d’oro così lungo e vittorioso come quello che ha goduto fino al 1984. Sembrava finalmente essere terminata l’epoca della “Rometta” balbettante. Sovente discontinua e inconcludente, avara e nel contempo velleitaria, come la si era vista in ampi segmenti degli anni settanta, quando, frequentemente lamentosa e umiliata dagli squadroni del Nord, nonché dall’exploit dello scudetto laziale del ’74, la medesima squadra capitolina era lontanamente incapace di compiere le gesta di realtà come quelle che si erano rivelate con la Fiorentina nel ’69, con il Cagliari nel ’70 o con il Torino nel ’76 o nel ‘77.
A fine anni ’70, compilando un bilancio complessivo e globale degli anni trascorsi precedentemente, società e tifosi giallorossi masticavano amaro e ingoiavano bile, rischiando addirittura la “B”. Ma, qualche anno dopo, a inizio anni ’80 la Roma, invece, si imponeva come protagonista, suscitando consensi e simpatie anche in chi non tifava per la medesima, come chi scrive, che ha sempre parteggiato per il Cagliari. Quella Roma piaceva, perché era una realtà gagliarda e spettacolare, simpatica. Il tutto con pochi mezzi e tenendo degnamente testa a quella che era la squadra monstre, l’unica dell’epoca, cioè la Juventus (e che Juve, ovverosia quella che fece da “serbatoio” calcistico alla nazionale italiana migliore di sempre, la quale, scusate se è poco, fece faville negli splendidi mondiali d’Argentina del ‘78 e in quelli di Spagna ’82, conclusi questi ultimi con un formidabile successo).
Dall’anonima permanenza in A al dare del filo da torcere alla Juventus
Potenzialmente i bianconeri avrebbero potuto vincere lo scudetto ininterrottamente dal ’72 all’86, tanto erano forti. Ad alto livello, peraltro, a inizio anni ’80 era da citare anche l’Inter, una buona Inter, inferiore sì alla Juve, ma di valore non certo spregevole. Nell’”82 fu grande la Fiorentina, che contrastò sino all’ultimo la squadra degli Agnelli. Per qualche anno “cantò” anche il Napoli. Ci fu anche la gradevole sorpresa Verona. Il Milan all’epoca era in declino e nel ’82 retrocesse in “B” sul campo. La Roma, partendo dall’anonima stagione 1978 -79, in cui ebbe la certezza della permanenza in “A” all’ultima giornata, raggiunse e superò in gioco e in risultati anche l’Inter e dette filo da torcere per anni alla Juve (a rigore, però, bisogna riconoscere che l’organico bianconero è stato sulla carta quasi sempre migliore, il che non svaluta, ma accentua i meriti dei giallorossi).
E se non fosse stato per un paio di rigori sbagliati, essa sarebbe salita sul tetto d’Europa attraverso la porta principale della vittoria in Coppa dei Campioni nella stagione 1983-84.
Lo stile di Nils Liedholm
Il merito tecnico di questo autentico balzo in avanti, si potrebbe dire prodigioso, è innanzitutto e soprattutto di un uomo di poche parole e di tanti principi, di un ex calciatore svedese di ottima qualità, fra i migliori della sua epoca e di sempre, di origine contadina, che da ragazzo praticava molti sport (anche per diventare più forte fisicamente), che si era abituato a corse da mezzofondista (sicché da calciatore avrebbe avuto fiato e forza per ricoprire ogni ruolo – cosa che poi auspicava e desiderava dai calciatori che avrebbe nel tempo allenato), che non sbagliava un passaggio, che aveva un tiro potente, che conosceva benissimo il calcio e che era allenatore ancora da calciatore (in grado di polemizzare anche con Gipo Viani): un tecnico che era fondamentalmente padre di famiglia, razionale, di buon senso e coerente, oltre che serio e competente, ovvero Nils Erik Liedholm.
Quasi ieratico negli atteggiamenti, educato e gentile, compassato come tutti i nordici abituati a una severa moralità protestante, flemmatico e talvolta paradossale, tanto da suscitare stupore o riso, poteva sembrare pesce fuori d’acqua in un paese tanto diverso da quello di origine. Ma abitando in Italia, ha imparato a conoscerla profondamente: in un paese notoriamente verboso e chiassoso, con punte di pressapochismo, spesso condizione con la quale getta fumo negli occhi colui che non ha o non sa cosa dire, interveniva senza toni esagerati, senza alzare la voce, con consapevolezza e mestiere; gli erano sufficienti poche frasi taglienti e grondanti ironia.
A un soggetto di siffatta caratura e sagacia sarebbe difficile controbattere. Né lo stesso sarebbe potuto facilmente divenire oggetto di gratuite critiche. Imponeva la sostanza alla vuota forma. E poi cosa si poteva obiettare a una persona che con stile e calma serafica rispondeva con affermazioni che ora potevano sembrare banali nelle loro ovvietà benintenzionate, ora ironiche o sarcastiche? Finiva che lo si rispettava se non altro perché era o appariva più anziano e, quindi, saggio.
Uno svedese che era arrivato in Italia nel 1949 nel Milan con lo scopo di rimanerci 1 o 2 anni per poi ritornare in patria. In Svezia sarebbe sì rientrato, ma per brevi o quasi istantanei periodi; in Italia si sarebbe stabilito, avrebbe preso moglie e avuto un figlio; avrebbe allenato, oltre che giocato, avrebbe creato una tenuta agricola e nel 2007 sarebbe morto a 85 anni, venendone seppellito. Da giocatore era stato di ottimo livello, come detto; da trainer avrebbe fatto miracoli. Diventato nei primi anni sessanta allenatore delle Giovanili del Milan, nel ’64 sostituiva Carniglia in prima squadra e arrivava terzo in campionato.
Nel ’65 perdeva lo scudetto, a favore dell’Inter, per la cocciuta iniziativa della dirigenza milanista di imporre uno stanco Altafini in campo. Nel ’66 una malattia virale lo tenne fuori dai campi per mesi e il Milan letteralmente gli sfuggì di mano. L’Hellas Verona lo chiamò, nel ’67. Gli scaligeri, in quel periodo, militavano in “B” annaspando in cattive acque, se non prossimi a sprofondare in “C”. Non solo salvava i gialloblù, ma l’anno dopo li conduceva in “A”. Poi faceva tappa a Monza: compiva l’impresa disperata di evitare la “C” ai brianzoli operando in una situazione da si salvi chi può con giocatori non di esimio valore tecnico, o da copertina (in quella rosa tra i componenti che si sarebbero segnalati per una certa notorietà in futuro vi era solo il portiere Luciano Castellini).
Per Liedholm, peraltro, l’anno a Monza è stato sempre quello più degno di essere rammentato, tanto l’impresa si era rivelata grande. Successivamente con il Varese vinceva il campionato di “B” venendone promosso in “A”: nel contesto poteva porsi all’attenzione del grande calcio Roberto Bettega. A Firenze scopriva Antognoni e nel primo periodo romanista valorizzava Conti, Di Bartolomei e Rocca. Poi ricostruiva il Milan, che nel ’77 stava per essere risucchiato dalle sabbie mobili della lotta per non retrocedere in “B”.
Eppure, come hanno scritto vari addetti ai lavori ed esperti in materia, Liedholm non “inventò” nulla, calcisticamente parlando. La zona non la creò lui, né l’applicò per primo in Italia. Ma Liedholm non l’applicava perché ne era teorico, santone o guru: aveva giocato a calcio affrontando squadroni e campioni e l’esperienza acquisita lo conduceva a ritenere che la stessa fosse il metodo migliore per giocare, apparendogli questo sistema come il più redditizio e quello che più e meglio avrebbe potuto valorizzare i giocatori, usurandoli di meno, per cui ne poteva allungare la carriera regalando loro la possibilità di poter offrire prestazioni più elevate. La zona per lui non era poesia calcistica; rappresentava utilitaristicamente la via più facile per ottenere il massimo, sia del gioco, sia, per mezzo di quest’ultimo, del risultato.
E applicandola nella stagione 1979 – 80 nella Roma con l’esperimento del doppio libero Turone-Santarini, dava una prova pratica di questa capacità di saper trarre il massimo attraverso lo schema di gioco: i due calciatori or ora citati ormai o cominciavano a diventare “anziani” calcisticamente (Turone) o erano a fine carriera (Santarini), per cui sarebbe stato più dispendioso per loro andare a correre per inseguire e seguire un attaccante avversario, marcando a uomo, come si faceva di solito. Partiva dall’esperienza empirica, or dunque; questo non lo conduceva ai tatticismi da baro o da apprendista stregone che urla “venghino signori”, ma alla tecnica, alla geometria, che avrebbero assicurato divertimento ed estetica. Alla tattica vera, insomma, di cui si poteva annoverare tra i maestri.
Così fece della “Rometta” un piccolo Brasile. Una squadra capace di vincere, come avvenne con il Milan non eccelso dello scudetto del ’79. In quell’occasione anche i rossoneri, che avevano come attaccante il solo Chiodi, venivano trasformati in una squadra di prim’ordine, con Rivera rivitalizzato, sebbene a fine carriera, come pure il portiere Albertosi, con Maldera che da puro difensore veniva convertito anche in incursore capace di segnare gol a non finire, con Bigon che si imponeva come mezzapunta dal rendimento esplosivo.
Oltre, tutta una serie di mezzepunte trasformate in giocatori eclettici e una difesa contesto della quale valorizzava Collovati talmente da farlo arrivare in nazionale e lanciava Baresi. Allenando squadre non fortissime, otteneva risultati strepitosi (rifiutò negli anni settanta la Juventus e perché era in parola con la Fiorentina e perché – poteva sostenere – altrimenti avrebbe vinto facile). Così nel tempo fece assaporare vittorie con la “V” maiuscola ai giallorossi capitolini, con tanto di trofei finali, al di là delle singole partite, svecchiando e dando un “tono calcistico” a una piazza, per la quale la soddisfazione maggiore era (da sempre) battere la Lazio.
In questo senso sprovincializzò la Roma, cioè, ed è la stessa cosa, la fece uscire (finalmente) dallo status poco edificante di “Rometta”, perché questa desolante realtà era prima di tutto un fatto di mentalità poco preparata o avvezza a grandi traguardi, prima ancora di essere la conseguenza di una carenza di ottimi giocatori. Liedholm nelle squadre che ha allenato di calciatori dotati naturalmente di sopraffina levatura ne ha avuti sempre pochi, di fuoriclasse pochissimi (a occhio e croce, si possono annoverare solo Antognoni, Falcao, Conti, Maldini e Baresi).
I giocatori buoni, però, li sapeva tirare fuori, come la maieutica di Socrate era adatta a estrapolare i concetti. Perché, come ha anche testimoniato il figlio Carlo in varie interviste, Liedholm amava il calcio e il gioco del calcio sin da piccolo, quando andava a scuola e percorreva diversi chilometri per raggiungerla: per passare il tempo, camminando, calciava i sassi che gli capitavano davanti. Il pallone, quindi era qualcosa di sacro, con il quale operare magie: per questo insegnava la tecnica ai suoi giocatori, li allenava personalmente per farli migliorare.
E li voleva migliori anche o soprattutto come uomini: il calcio era per lui un modo per operare un’ascensione antropologica, prima ancora che sociale. In questo ha influito certamente la sua formazione nordico-protestante. Peraltro, allenava anche i portieri, come nel caso di Tancredi (durante l’annata dello scudetto alcuni prodigiosi interventi dello stesso sono frutti degli insegnamenti di Liedholm). Tutto questo perché la sua zona era basata sul possesso palla (finché la palla la teniamo noi, nessuno ci può fare gol, era un suo dogma); e per il possesso palla aveva bisogno di giocatori dai piedi buoni, dalla tecnica di un certo spessore.
La sua zona, inoltre, a differenza di quelle che seguiranno in Italia, con più pressing offensivo, non si distingueva per il ricorso a falli tattici.
Tra i motivi per cui Liedholm si impegnava ad accrescere il tasso tecnico dei suoi giocatori, c’era quello che le campagne acquisti e cessioni delle sue squadre non erano particolarmente sontuose (perché i soldi non c’erano, in linea di massima), ed egli non chiedeva nomi altisonanti e costosi, ma calciatori (che, magari erano stati “scartati” da altre squadre, i cui rispettivi allenatori prediligevano la velocità di rimessa, un esempio per tutti, Prohaska), di cui conosceva il bagaglio tecnico fondamentale, ritenendolo congeniale al proprio sistema, e su cui avrebbe lavorato per migliorare la resa di gioco, sia dal punto di vista fisico individuale che da quello tattico, in chiave collettiva, perché per Liedholm un giocatore doveva saper giocare sia palla al piede sia senza, posizionandosi in un certo posto piuttosto che in un altro.
Per questo Liedholm costruiva quasi sempre con pochi esborsi squadre facili da amalgamare (in fondo, la forza delle squadre di Liedholm era l’organizzazione), imprevedibili, efficaci e otteneva risultati eccellenti. E questo a parte la sua capacità di riconoscere i campioni sin da quando erano in erba: due per tutti, Antognoni e Maldini. Ma anche Bettega o Conti, come si diceva. Altro protagonista del lustro d’oro della Roma, intimamente legato da un punto di vista funzionale a Liedholm, è stato il presidente Viola.
In realtà, questi, nella qualità di presidente della Roma, è andato oltre i periodi inframezzati di Liedholm: dal 1979 fino al 1991, anno della sua morte, è stato alla testa del club capitolino, con un bottino complessivo di uno scudetto (che sarebbero potuti essere 3, contando i secondi posti del 1980 -81 – con l’episodio del gol annullato a Turone – e quello del 1985 – 86 – con il suicidio calcistico della partita persa all’Olimpico con il Lecce retrocesso, dopo aver rimontato la Juve), un altro secondo posto nel 1983 – 84, 2 terzi posti (tutti con Liedholm), nel 1981 -82 e nel 1987 -88, durante il terzo “periodo” romanista” di quest’ultimo, 5 Coppe Italia (1980, 1981, 1984, 1986, 1991), una finale di Coppa Campioni (1984) e una di Coppa Uefa (1991). Questo, a parte 2 scudetti Primavera.
Mai nessuno con questi numeri, mai nessuno con il suo carisma e la sua verve, oltre alla sua capacità di contestare il sistema e di porsi a testa alta di fronte agli squadroni del Nord. Viola, nato nel 1915 ad Aulla (MS), tifoso romanista sin da piccolo, ingegnere meccanico, amico di diversi giocatori della Roma degli anni ’30, ex giocatore a livello universitario, membro del consiglio direttivo della squadra dal ’66 e vicepresidente nel periodo di comando di Anzalone (in realtà, lo stesso sarebbe potuto diventare presidente nell’estate del ’68, quando il suo amico Franco Evangelisti cessò dalla carica apicale, ma fu battuto da Ranucci), prese in mano la Roma in uno dei momenti peggiori della sua storia.
Infatti, la stagione 1978 – 79, l’ultimo della presidenza Anzalone, per poco non si chiudeva con una clamorosa retrocessione. Eppure quell’anno erano stati acquistati Spinosi e Pruzzo per 3 miliardi di lire (offrendo, però, al Genoa, in compenso, Conti in prestito, oltre alla cessione definitiva di Musiello), ma la gestione tecnica di Giagnoni non aveva recato i risultati sperati. Peraltro, neanche l’anno precedente i dati statistici erano stati esaltanti, con un anonimo ottavo posto finale. Nell’anno 1978 – 79 Giagnoni, invero, venne licenziato a novembre ’78 (dopo le sconfitte con Milan, Napoli, Catanzaro e Torino, appena mitigate da una vittoria con il Bologna, dopo le prime due batoste), venendo sostituito da Ferruccio Valcareggi.
Il girone d’andata di quella stagione aveva permesso di totalizzare 12 punti, occupando il dodicesimo posto in classifica: dati da retrocessione, anche se era stata colta una non disprezzabile vittoria a scapito della Juve. Il ritorno fece assaggiare diversi bocconi amari, con scambi di accuse ed episodi da moti di piazza all’ordine del giorno. Dopo le prime 4 partite con risultati nel complesso sufficienti (vittorie con Verona e Bologna, pareggio con il Napoli e sconfitta con il Milan), la situazione degenerava con tre sconfitte, rispettivamente in casa con il Catanzaro, a Torino con i granata, e in casa nel derby.
La Roma si sarebbe salvata nelle ultime tre giornate, collezionando una miracolosa vittoria in casa dell’Inter, il discusso (e contestato dai bergamaschi) pareggio in casa con l’Atalanta e il poco onorevole pareggio ad Ascoli a base di non-gioco e meline reciproche, tanta era la convenienza di ambedue le compagini. Nell’ambito temporale che andava dalla sconfitta con il Catanzaro alla fine del campionato polemiche, recriminazioni e pesanti contestazioni erano quotidianità. I tifosi attaccavano, ritenendolo inadeguato, Anzalone, che dava la colpa di tutto all’ambiente romano, ritenuto estremamente mutevole e facilmente suggestionabile.
Dopo la sconfitta con il Torino i tifosi dettero l’assalto al centro allenamenti di Tre Fontane; la situazione peggiorava dopo la sconfitta nel derby. A fine campionato si parlava di cambio della guardia riguardo alla presidenza. Ormai l’epoca Anzalone, che pare avesse voluto lasciare a fine campionato 1977 – 78 per fare posto ad Albino Buticchi (ma non se ne fece nulla), era al capolinea. Egli rimase formalmente in carica sino a fine a luglio ’79, giusto per inaugurare il centro sportivo di Trigoria, fortemente voluto dallo stesso.
Ma, in fondo, gli otto anni di presidenza Anzalone non erano del tutto da buttare, se si considera che lasciò in eredità il predetto centro e che per primo iniziò a pensare a una gestione della società in termini aziendalistici, con forme di sponsorizzazione, di commercializzazione sportiva e introduzione di merchandising con il logo del lupetto stilizzato. Forse da un punto di vista calcistico qualche carenza si era avuta, con lo scriteriato cambio di ben 7 allenatori (nel tritacarne ci finirono tecnici già altrove scudettati, come Helenio Herrera e Manlio Scopigno), oltre allo stesso Liedholm, che aveva ottenuto il rilevante terzo posto nel ’75 e che fu incautamente lasciato andare via, interrompendo un interessante progetto.
E, comunque, Anzalone ci perse anche economicamente, quindi non è che non avesse a cuore le sorti della Roma (e anche se spesso lo contestavano, per i tifosi era “il presidente gentiluomo”). Non riuscì nei suoi propositi e la sola conquista della Coppa Anglo-Italiana del 1972 è ben magro bottino (si potrebbe, comunque porre fra i meriti calcistici di Anzalone l’aver fortissimamente voluto gente come Rocca o Pruzzo). Dunque, nel ’79 iniziava l’era Viola, che, in realtà, poteva diventare presidente della Roma nell’estate del ’78.
Ma la cessione in questo caso non avvenne per divergenze relative al futuro centro di Trigoria. Viola, presa in carico la presidenza della Roma, con l’assunzione delle opportune deleghe, di fatto nel mese di maggio ’79, e formalmente insediatosi nel medesimo ruolo nel successivo mese di luglio, aveva le idee chiare: rilancio tecnico e gestione manageriale, aziendale e commerciale, con un occhio rivolto al bilancio e uno scrutando il numero elevato dei tifosi romanisti, dalla passione roboante, capaci di correre in massa allo stadio anche nei periodi “bui” della stagione appena passata.
I dirigenti dovevano essere defilati e discreti, mentre la gestione tecnica doveva essere di pertinenza dell’allenatore, senza che il presidente ci mettesse bocca. Viola voleva assolutamente Liedholm come allenatore (il tecnico svedese si decise a ritornare a Roma, lasciando il Milan fresco campione d’Italia, poiché i rossoneri gli offrivano un rinnovo di un anno, mentre Viola gli metteva sul piatto un triennale di 450 milioni di lire a stagione), altrimenti non sarebbe diventato presidente. E il tandem Viola-Liedholm doveva funzionare nel rispetto dei rispettivi compiti.
Viola disse da subito che non voleva smembrare la squadra, ma anche di non voler fare spese pazze per grandi nomi, non mancando, tuttavia, di sforzarsi per ovviare alle carenze, ove occorresse. Non voleva follie, grandezzate e debiti. In tutte queste cose si trovava d’accordo con Liedholm, che sosteneva che la Roma poteva essere da subito competitiva grazie a qualche ritocco. E gli interventi non furono pochi. Ritornava Bruno Conti dal prestito al Genoa, si acquisiva in comproprietà Ancelotti, versando 750 milioni di lire al Parma, veniva preso dalla Juve l’esperto centrocampista Romeo Benetti. Dalla Fiorentina arrivava il difensore Mauro Amenta e dal Catanzaro Maurizio Turone.
Inoltre, veniva comprato il portiere Claudio Del Ciello dalla Sampdoria, il centrocampista Maurizio Raggi dal Banco di Roma e rientrava dal fine prestito dal Pescara Gesualdo Piacenti, il quale veniva ceduto alla Sampdoria. Partivano, inoltre, il portiere Fernando Orsi, destinazione Siena, Giacomo Chinellato e Loris Boni alla volta di Pescara, Paolo Borelli a Catanzaro, Walter Casaroli a Parma, Pietro Sbaccanti alla Cerretese. Faccini andava in prestito alla Nocerina e De Sisti chiudeva la carriera. Considerato che già la rosa romanista poteva annoverare gente come Paolo Conti, Tancredi, Peccenini, Rocca (sperando potesse risolvere i problemi fisici, iniziati nel ’76, ma purtroppo così non sarebbe stato), Spinosi, De Nadai, Di Bartolomei, Giovannelli, Maggiora, Scarnecchia e Ugolotti, la squadra non era da considerare scarsa, tutt’altro. Liedholm la valutava come una compagine competitiva, godendo il vantaggio di conoscere molti dei suoi futuri giocatori, alcuni dei quali erano entusiasti del suo arrivo.
Degli acquisti Liedholm era particolarmente soddisfatto, oltre che del rientro di Bruno Conti, anche dell’arrivo di Ancelotti, sottratto all’Inter. Liedholm ha straveduto sempre per questo giocatore, ritenuto un grande talento, con una buona progressione, ottimo sia in interdizione che come suggeritore: quindi ideale partner per Pruzzo. Riguardo a Di Bartolomei, a Liedholm già balenava l’idea di trasformarlo in libero, regista difensivo. Quindi come parco giocatori si poteva essere a posto. Per lo schema Liedholm, rientrato a Roma, analizzava come fosse ideale la zona, a cui avrebbe dovuto abituare una squadra del cui gioco degli ultimi anni era piuttosto critico, vedendo tanta confusione, poca organicità e fluidità, molto caso e poche idee ordinate.
Nel precampionato 1979 – 80 Liedholm faceva un buon lavoro (considerate le amichevoli di maggior peso e le partite di Coppa Italia, la Roma, escluso un pareggio, collezionava solo vittorie) e sembrava dare una buona ed efficace impronta in fatto di tattica alla propria squadra. Ma il campionato, almeno nella prima metà, pareva negare che la Roma in quella stagione avesse assimilato completamente e bene il gioco a zona. Poi la squadra inanellava buoni risultati e alla ventiquattresima giornata si ritrovava al secondo posto insieme con la Juve.
Successivamente, tre sconfitte consecutive la spingevano al sesto-settimo posto. Ma veniva conquistata la Coppa Italia. L’annata si poteva considerare senz’altro come positiva. E sebbene il campionato si fosse rivelato un po’ altalenante, quanto meno era apparsa un’idea, si era concepito un principio, si era formato un ordine su cui poter lavorare e sviluppare quelle dinamiche che erano state (malamente) tralasciate e abbandonate dopo la stagione 1974 -75 per avventurarsi nel ballo di San Vito dell’epilessia delle suggestioni, sempre nuove e sempre cangianti, gonfiate da una piazza che si esaltava con niente e si deprimeva con meno, mentre transitavano, quasi senza lasciare traccia, allenatori di grido, puntualmente e infallibilmente “bruciati”.
Avevano ragione i tifosi quando criticavano la presidenza Anzalone per inconsistenza della gestione tecnica, ma aveva ragione Anzalone quando diceva che la tifoseria contribuiva a gonfiare il vuoto nel quale vegetava la squadra. Invero, è da riconoscere che anche in questo campionato 1979-80 vi erano stati qua e là segmenti di inconsistenza, ma creandosi una base su cui poter trattare, senza capovolgere tutto come negli anni passati, per ripartire sempre da zero con un nuovo tecnico e sprecare risorse, con la fallace opinione di essere, come per incanto, di fronte a destini rosei, stavolta si poteva essere sì realisticamente speranzosi per il futuro.
Quanto al dettaglio tecnico, non era tanto l’idea della zona che non andava (anzi, quando la Roma l’applicava bene, la stessa appariva per certi tratti irresistibile): non erano stati capaci tutti gli uomini a disposizione di Liedholm (o, almeno, non lo erano stati del tutto e non sempre) ad attuarla, anche perché molti di loro erano abituati da sempre al gioco a uomo. In fondo, ha avuto pienamente ragione il figlio di Liedholm Carlo quando ha detto che con i nomi in circolazione a fine anni settanta nella compagine giallorossa non si poteva sperare di guardare la classifica dall’alto e che era come contrarre le nozze con i fichi secchi.
Detto questo e valutando qualche dettaglio, in porta Paolo Conti in un certo senso veniva “bruciato” da tutti i pericoli che venivano dalle maglie larghe di una non perfetta applicazione del fuorigioco da parte dei difensori. Tancredi era più reattivo; di fatto, esautorava il collega e diventava egli stesso il portiere titolare. In difesa il doppio libero Santarini-Turone non sempre garantiva gli automatismi necessari e i due terzini (fossero essi Maggiora e Rocca o De Nadai) non sempre fluidificavano per rendere veloce e imprevedibile la manovra (e, del resto, il centrocampo, piuttosto lento, non sempre copriva la linea arretrata).
E, purtroppo, da Rocca, causa problemi fisici, non si poteva ottenere di più (ma nelle giornate migliori ancora faceva la differenza). Di buono si prendeva atto che Di Bartolomei era un ottimo regista arretrato. In generale, però, il centrocampo dava il meglio di sé quando applicava la zona mista e non quella pura: e in quei casi l’apporto di Benetti era molto più sostanzioso. In attacco spesso Pruzzo rimaneva isolato; vero che segnava tanto, supportato come era da Ancelotti (che confermava il suo valore) e da Bruno Conti.
Ma ancora non era sufficiente per poter reggere nelle zone alte della classifica. Del resto, in attacco, a parte Pruzzo, a Ugolotti non si potevano chiedere miracoli. Dunque, il salto di qualità definitivo ancora non si apprezzava in maniera cristallina, ma il bicchiere era mezzo pieno e la Roma iniziava a diventare una realtà interessante. C’era da impegnarsi per riempirlo ancor più quel bicchiere, evidentemente. Andando alla stagione 1980 -81, la Roma si ritrovava ai nastri di partenza con una certa consistenza già acquisita, anche se il campionato appena trascorso, come segnalato, aveva indicato che diversi punti erano da rivedere. La Coppa Italia appena vinta apportava nuovi entusiasmi e faceva sorgere aspettative.
Il calciomercato veniva condotto di tal guisa da poter operare il salto di qualità. L’obiettivo era di migliorare, se possibile di tanto, il settimo (o sesto, se si vuole escludere il Milan classificatosi terzo e poi retrocesso per il calcio scommesse) posto conseguito nella stagione appena archiviata.
Per la prima piazza, indubbiamente arci-favorita era la Juve. Essa, sotto le mani esperte di Trapattoni, giocava il classico sistema all’italiana con le marcature a uomo. Zoff in porta, terzini Cuccureddu a destra (prevalentemente marcatore) e Cabrini a sinistra (fungeva anche da fluidificante di fascia), Gentile stopper, Scirea libero, Furino mediano arretrato davanti alla difesa, Tardelli ora con funzioni di interdizione, ora di rifinitore, Brady regista, mentre da ala destra prima operava Causio e poi Marocchino, e da ala sinistra Fanna, con Bettega centravanti (in realtà quest’ultimo avrebbe fatto anche da rifinitore al servizio della squadra, sopperendo alla partenza di Virdis a Cagliari e favorendo i 7 gol di Cabrini e Tardelli e i 5 di Fanna e Marocchino, segnando egli stesso “appena” 5 reti).
Ottima squadra, dunque, che con Brady compie un acquisto azzeccatissimo (addirittura, prima di tesserare l’irlandese, si era ipotizzato di portare a Torino Maradona, ma i prezzi erano considerati da Boniperti eccessivi). La Juve non parte benissimo, nelle prime partite tiene una media da metà classifica (dopo 8 partite, 8 punti e con un derby perso malamente alla sesta giornata, con la conseguenza di una lunga squalifica ai danni di Bettega), ma poi recupera.
A parte la Juve, i pronostici erano per l’Inter, in quanto campione uscente (la squadra milanese fino a due terzi del campionato tallona da vicino e qualche volta aggancia la Roma in testa, ma a un certo punto se ne allontana, a differenza di un sorprendente Napoli, con un Krol stratosferico; e se non fosse stato per le sconfitte in casa nel finale di campionato con il Perugia e la Juve, tutto sarebbe potuto succedere).
Alla Roma, certamente non si davano grosse chance per la vittoria finale. Al massimo si poteva pensare arrivasse tra le prime 5. Comunque, i giallorossi acquistarono i seguenti giocatori: Superchi, portiere dello scudetto viola nella stagione 1968 -69, dal Verona, in qualità di secondo di Tancredi (mentre ai gialloblù scaligeri cedettero Paolo Conti, così evitando ogni possibile dualismo con il titolare della maglia numero “1”. Dario Bonetti, giovane “torre” difensiva proveniente dal Brescia (mentre l’ormai anziana bandiera Franco Peccenini andava al Catanzaro). Vincenzo Romano dall’Avellino; il centrocampista Luca Birigozzi dalla Ternana; Attilio Sorbi, sempre dalla predetta compagine umbra; rientrava dal fine prestito dalla Nocerina il giovane di belle speranze Faccini; veniva riscattato definitivamente dal Parma Ancelotti (agli emiliani veniva ceduto Walter Allievi). Veniva acquistato Paulo Roberto Falcao dall’internacional di Porto Alegre per fare il salto di qualità al centrocampo.
Prima di riprendere il discorso su Falcao, si dica, a titolo di cronaca, che venivano ceduti il portiere Claudio Del Ciello al Pescara, il centrocampista Massimo Lattuca al Latina, il centrocampista Massimo Raggi al Banco di Roma, mentre in prestito all’Avellino andava Guido Ugolotti, nell’ambito dell’operazione che conduceva all’acquisto di Vincenzo Romano. La grande novità era Falcao.
È da premettere che nella stagione 1980 -81 alle squadre italiane veniva permesso l’acquisto di un calciatore straniero, dopo la “chiusura” più che decennale seguita all’eliminazione dell’Italia a opera della Corea del Nord nel mondiale inglese del ’66. La decisione veniva presa per dare ulteriore vitalità al calcio italiano, prevedendo anche un presumibile calo del tasso tecnico a seguito delle forzate retrocessioni di Milan e Lazio per causa del calcio scommesse. Del resto, la non felicissima esibizione della nazionale italiani agli Europei di casa nel 1980 deponeva per operare alcune aperture. In Italia nel 1980 sarebbero venuti, incontrando poi alterna fortuna, calciatori come Brady, Prohaska, Krol, Van de Korput, Eneas, Neumann, Juary, oltre che carneadi come Luis Silvio, accasatosi nella Pistoiese.
Alla Roma si trasferisce Falcao, dunque. All’epoca la squadra capitolina voleva fare il “colpaccio” con il desiderio di portare in Italia Zico, ovvero, il calciatore, insieme con il quasi ventenne Maradona, più conosciuto del Sud America. Ma “o galinho” costava troppo per la Roma. Presero Falcao, che, in Brasile era molto noto (anche se “atipico” come calciatore carioca), ma che in Italia non era molto conosciuto e forse non accendeva entusiasmi, anche se all’epoca poteva vantare 43 presenze nella nazionale brasiliana e per due volte era stato votato come il miglior calciatore del suo campionato. Il calciatore era costato un milione e settecentomila dollari e avrebbe avuto un ingaggio di mezzo miliardo di lire per 3 anni.
Probabilmente venne consigliato al presidente Viola dal giornalista del “Corriere dello Sport-Stadio” Ezio De Cesari; non è da escludere che a Liedholm fosse stato consigliato (anche) dal suo amico Pelé (se volete vincere le partite, prendete Zico, se volete vincere i campionati accaparratevi Falcao, fu, probabilmente, il succo del messaggio che “o rei” avrebbe trasmesso al barone svedese). Sta di fatto che Liedholm parlava di Falcao come di giocatore intelligente, con grande visione gioco ed elevato senso tattico, con forte predisposizione a porsi al servizio del collettivo e capace di usare i piedi come fossero mani.
Il che andava bene per la zona “lenta” di Liedholm, a base di ragnatele e di passaggi veloci (non doveva correre tanto il giocatore, quanto la palla), nel contesto di cui i piedi buoni erano come oro; poi che avesse grande capacità di impostazione di gioco non era qualità che potesse dispiacere, perché, così, il brasiliano si sarebbe completato con uomini come Ancelotti, Di Bartolomei, Benetti o Pruzzo. In realtà, Falcao era fondamentale per Liedholm.
Perché nell’Internacional di Porto Alegre fu scoperto da Dino Sani, che giocava con il 4 – 2 – 4, che era stato proprio del Brasile del ’58 (che Liedholm conosceva e ammirava), ovvero con i due liberi, che il tecnico svedese aveva utilizzato nella stagione precedente, con Falcao che assumeva la posizione di regista arretrato davanti alla difesa (Liedholm nella Roma sul punto avrebbe apportato un piccolo correttivo facendo assumere al giocatore una funzione di regista a tutto campo). L’unica cosa che poteva fare paura era che il nuovo arrivato potesse “soffrire” di saudade, ma Falcao è stato un brasiliano “diverso”, un gaucho della zona Sud del paese ed è sempre sembrato più tedesco che latino.
Così, la Roma della stagione 1980 -81, obiettivamente, poteva fare il gran salto di qualità; era una bella realtà calcistica con una formazione base con Tancredi in porta, Spinosi e Maggiora (poi Romano) terzini, Turone e Romano (poi Bonetti) centrali (questo significava la rinuncia al doppio libero, con la cessione di Santarini), Di Bartolomei e Falcao e Ancelotti a centrocampo (il primo è regista arretrato davanti alla difesa, e grazie alla presenza di Falcao, aumenta il proprio rendimento con una maggiore continuità, il secondo è regista più avanzato e agisce e illumina a tutto campo, il terzo ha funzioni di interdizione e di rifinitore a favore di Pruzzo), Conti e Scarnecchia ali in costante collegamento con Falcao, e Pruzzo centravanti. Così si prevedeva di eliminare quello iato registratosi nella stagione appena trascorsa tra centrocampo e attacco.
La Roma gioca un campionato da protagonista e, a parte alcune gare non perfette, ma che si riveleranno -purtroppo per la stessa- decisive, lotta sino in fondo per lo scudetto. Il 10 maggio 1981, si gioca il match-clou a tre turni dalla fine del campionato. La Juve ha solo un punto in più della Roma e a Torino si assiste a Juve – Roma. La vigilia è tesa. Addirittura la Juve impedisce il pass alla propria sede alla stampa romana. Viola va in ritiro con la squadra. Si registrano polemiche, si levano sospetti, si parla di arbitri e della loro presunta sudditanza psicologica nei confronti della Juve. La partita si disputa sotto una pioggia torrenziale, con il fango, e nel complesso risulta brutta e senza spettacolo. Arbitra Bergamo.
La Juve, a cui mancano Tardelli e Bettega (che commenterà che se la propria squadra fosse stata al completo, avrebbe vinto), parte all’attacco e la Roma, almeno nella prima parte, appare prudente. Si distingue subito Furino che dopo venti secondi interviene con decisione su Falcao facendo fallo. Il giocatore brasiliano se ne lamenterà, dicendo che non sono possibili simili falli dopo pochi secondi, se non pianificati appositamente. Al 17′ del secondo tempo ci fu l’espulsione di Furino per un altro takle su Maggiora. Rimediò il primo giallo al 16’ del primo tempo per fallo ai danni di Bruno Conti.
Partita, peraltro, con vari parapiglia a seguito di cattiverie reciproche, per cui Bergamo sedava gli animi con ben 8 ammonizioni. Emergevano in positivo, invece, da una parte Falcao e dall’altra Brady. Come accennavo, la Juve cercava di prendere l’iniziativa, ma non c’era mordente e la Roma controllava partendo al contrattacco. Qualche iniziativa di Marocchino, qualche sortita a seguito di calcio d’angolo. La Roma rispondeva, ma niente di che. Al 26’ un’azione corale della Roma, protagonisti Scarnecchia-Conti-Scarnecchia-Pruzzo-Falcao, ma risolveva Scirea.
Dopo rispondeva la Juve con Causio, che azionava per Fanna, il quale di testa suggeriva per Marocchino, il cui tiro veniva mandato in angolo. Nella ripresa la Roma si faceva vedere di più e al 5’ Zoff effettuava una parata su tiro di Ancelotti. Al 12’ Prandelli non sfruttava un ottimo cross di Cabrini. Al 26’ ancora Cabrini con un lancio creava un’altra buona palla gol, ma Fanna non arrivava. L’episodio clou, quello che è passato alla storia, rammentato ancor oggi, è quello del gol annullato a Turone al 29’ della ripresa.
Lancio di Conti, tocco di testa di Pruzzo. All’altezza del dischetto del rigore vi sono Falcao e Turone, che arriva da dietro e di testa insacca. Bergamo inizialmente convalida, ma il suo guardalinee Sancini (che ha sempre difeso il proprio operato) lo richiama tenendo la bandierina alzata per segnalare il presunto fuorigioco. Bergamo ebbe dei dubbi al riguardo, ma, probabilmente, non si sentì di sconfessare il proprio collaboratore. Il gol, pur tra molte discussioni e non pochi dubbi, in linea di massima, è da considerare valido (si è potuto appurare che Prandelli teneva in gioco Turone).
Poi qualche spunto di Brady, qualche tiro di Fanna, qualche incursione romanista. In sostanza, più Juve che Roma e il pareggio non sarebbe da considerare in sé e per sé iniquo, a essere onesti. Ma quel gol annullato è, in generale, da considerarsi buono e, probabilmente, nella corsa scudetto avrebbe fatto la differenza. Alla fine di quella giornata di campionato la Juve totalizzava 40 punti, la Roma 39 e il Napoli (che si era rilanciato vincendo a Como per 1 a 0) 38.
La Roma assorbì quel colpo che riteneva ingiusto con molto distacco. Viola parlava di questione di centimetri e Liedholm e la squadra sembravano ancora sicuri di poter recuperare quel punto che la Juve aveva in più, dato che nella giornata successiva i torinesi sarebbero andati a giocare a Napoli (mentre all’ultima giornata la sempre ostica Fiorentina avrebbe reso visita al Comunale di Torino), mentre i giallorossi avrebbero incontrato la retrocessa Pistoiese in casa (facile vittoria per 1 a 0) e il pericolante, ma non scarso Avellino (che, non si dimentichi, aveva recuperato quell’anno 5 punti di penalizzazione, quindi era, tutt’altro che debole) in Campania.
Come è noto la Juve avrebbe vinto a Napoli contro una squadra apparsa piuttosto arrendevole e poi battuto la Fiorentina (Liedholm sperava che la stessa potesse la fermare la Juve, almeno per disputare lo spareggio). Ma la Juve a queste situazioni di volata scudetto era abituata da decenni e ormai aveva immagazzinato esperienza e cinismo in quantità tali che difficilmente si sarebbe fatta trovare impreparata.
Il titolo sarebbe stato bianconero e nell’ultima giornata, peraltro, la Roma non avrebbe vinto ad Avellino, a cui serviva almeno in punto per salvarsi. Ma al di là della questione del gol annullato a Turone (a rigore di classifica, posto che la Roma avesse vinto a Torino e poi non avesse vinto ad Avellino, come è stato, si sarebbe pervenuti a uno spareggio), la Roma lo scudetto lo ha perso in tutta quella serie di partite che ha pareggiato in casa (tipo con il Como, il Catanzaro, con il Bologna o con l’Avellino per dirne qualcuna).
Ma, in generale, troppi pareggi tout court. Se facessimo un confronto con l’anno dello scudetto, nel 1982 – 83, come disse Liedholm in occasione delle prime giornate, dopo le fortuite vittorie contro Verona o Ascoli, match come questi or ora citati e vinti, negli anni precedenti sarebbero stati pareggiati. Appunto quello che successe nel 1980 – 81, in cui certe gare, sulla carta facili da concludere portando a casa l’intera posta in palio, si rivelarono ostiche per vari motivi e non vennero vinte. La stessa cosa non successe due anni dopo.
E Pruzzo in quegli anni con molta sagacia, ma anche con una punta di rassegnazione al riguardo, chiosava che le squadre avversarie all’Olimpico si chiudevano e non lasciavano giocare, mentre fuori, paradossalmente, era più facile esprimersi. In quella stagione 1980 – 81 sia la Roma che la Juve, rispettivamente in casa, avevano totalizzato lo stesso numero di punti: si potrebbe commentare che avevano dovuto affrontare lo stesso grado di difficoltà. La Juve, dunque aveva fatto meglio fuori, dove aveva potuto, in sostanza, imporre il proprio migliore tasso tecnico.
Ma la Roma sapeva che la Juve aveva un parco giocatori migliore e avrebbe dovuto – considerando a parte la questione del gol di Turone, che avrebbe potuto fare la differenza, ma che “fenomenicamente” era solo un “episodio” – rendere un po’ meglio in casa, come nel 1982 -83 (e questo al di là della migliore fortuna che nell’anno dello scudetto arrise ai giallorossi e che permise in qualche caso di trasformare in vittorie situazioni difficili, tortuose, nel contesto dei quali i medesimi non avevano reso al meglio, mentre anni prima le stesse non ottimali condizioni e cornici avrebbero consentito al massimo dei pareggi).
Al di là di questo discorso dei pareggi, colpisce anche il fatto che la Roma avesse una sorta di sindrome post-pausa da partite della nazionale (la domenica dopo che giocavano gli azzurri rarissimamente i giallorossi hanno vinto) come se gli uomini di Liedholm perdessero il ritmo o la concentrazione dopo i riposi. Forse in questo caso incideva anche il fatto che i capitolini non erano storicamente “abituati” al primo posto in classifica, risultandone problematica la gestione.
A parziale consolazione, Pruzzo si laureava capocannoniere, finalizzando il più delle volte ciò che la ragnatela di Liedholm creava verticalizzando. La Roma, comunque, pur ancora delusa per l’episodio del gol cancellato a Turone, avrebbe trasmesso i complimenti per la vittoria del tricolore alla Juve; ma da tutto quel quadro di tensione a base di rammarico, generatosi come per autocombustione, avrebbe tratto quel quid di rabbia in più per affrontare e superare la stessa avversaria in semifinale di Coppa Italia.
Trofeo che la Roma, come l’anno precedente, avrebbe vinto. La stagione 1981 -82 si apriva con un dispiacere: il 29 agosto 1981, nel contesto di un’amichevole giocata con l’Internacional di Porto Alegre, ormai divenuta da un anno ex squadra di Falcao, (questa partita rientrava nelle dinamiche contrattuali che avevano permesso il passaggio dell’asso brasiliano alla squadra giallorossa), Francesco Rocca era costretto a lasciare il calcio giocato a 27 anni. “Kawasaki”, come lo stesso veniva denominato, ovvero il giocatore più veloce del vento, doveva abbandonare, sopraffatto dagli infortuni al ginocchio sinistro. Un grande peccato che simile campione non si sia potuto esprimere per numerosi anni ai livelli elevati di cui era capace.
Grave perdita; in fondo, Liedholm, suo estimatore dalla prima ora, lo aveva sempre aspettato nella (fioca) speranza che rientrasse per giocare regolarmente e a lungo. Il campionato, da svolgersi in un’annata sui generis, dato che poi a giugno-luglio ’82 si sarebbero celebrati gli ormai indimenticabili mondiali di Spagna, si avviava ad iniziare; la Roma, vice campione uscente e vincitrice per la seconda volta di seguito della Coppa Italia, logicamente era ritenuta tra le cinque favorite per il successo finale.
Oltre alla Roma erano ben quotati la solita e solida Juve, la Fiorentina, che quell’anno aveva portato a termine una faraonica campagna acquisti (fra i “nuovi” viola, fra gli altri, Cuccureddu, Vierchowod, Graziani, Massaro, Monelli) nel tentativo di riportare lo scudetto a Firenze rispettando una sorta di legge dei “13 anni” (precedenti titoli vinti nel ’56 e nel ’69), l’Inter e, infine, anche il Napoli (fresco di terzo posto) e il Milan, seppur neopromosso dalla “B” ma rafforzato con Adelio Moro e Joe Jordan.
Si è detto di Vierchowod come nuovo difensore viola: egli in quegli anni era l’oggetto del desiderio di tante squadre, ma era diventato di proprietà della Sampdoria; Viola lo avrebbe voluto acquisire, come pure desiderava Graziani, ma i costi era elevati. Alla fine, la Roma prendeva Chierico (in comproprietà con l’Inter), Nela (in comproprietà con il Genoa) e Marangon. Nela era particolarmente gradito a Liedholm, che lo riteneva un difensore completo, capace di ricoprire ogni ruolo in retroguardia e di compiere inarrestabili galoppate lungo le fasce al fine di servire gli attaccanti, nonché ottimo colpitore di testa. Sarà determinante l’anno successivo in chiave scudetto e in forza alla Roma militerà per oltre 10 anni.
Chierico avrà principalmente il ruolo vice Conti e sarà discretamente e utilmente impiegato durante il campionato dello scudetto. Marangon, invece, sarà ceduto al Verona dopo un anno. Liedholm era fiducioso e credeva nello scudetto. E lo sognavano anche alcuni giocatori, considerando che la Roma aveva maturato l’esperienza dell’anno precedente e si era rafforzata alla luce delle indicazioni tecniche rivelatesi nella stagione appena trascorsa, al fine di ovviare a quelle che erano state le carenze del campionato appena archiviato. In quest’annata la Roma apparentemente faceva un passo indietro rispetto all’anno precedente: non più seconda ma terza, e nessun trofeo nuovo da vantare in bacheca.
Ma, in realtà, vedendo le cose alla luce della stagione successiva scudettata, aveva compiuto qualche passo avanti. Intanto, gli acquisti di Chierico e, soprattutto, quello, cruciale, di Nela, il che non sono cosa da poco. Ma poi aveva condotto a termine un altro anno utile per individuare altre e residue lacune di fondo che impedivano il grande salto. Con la stagione 1980 -81 la Roma aveva acquisito in Falcao un giocatore che aveva fatto crescere la squadra. Questo, evidentemente, non bastava. E perciò erano arrivati Nela, Chierico e Marangon. E neanche questo si era dimostrato sufficiente, anche per via dell’infortunio nell’ottobre ’81 di Ancelotti, che aveva aperto una falla in mezzo al campo, nella zona nevralgica.
Nella stagione 1981 – 82 la Roma è apparsa discontinua. Ha iniziato con tre pareggi nelle prime 4 partite, si è ripresa andando in testa per una giornata, ha racimolato altri pareggi quando qualche giocatore era sceso di forma (a parte l’infortunio di Ancelotti), ha avuto un calo a cavallo tra il girone d’andata e quello di ritorno, con due sconfitte pesanti quando era andato in affanno Falcao, perché questi, privato di Ancelotti e in quel frangente di Di Bartolomei, non poteva rendere al massimo.
L’apporto di Di Bartolomei era essenziale, ma era risaputo che lo stesso soffriva tratti di discontinuità: bisognava, dunque, ovviare al riguardo, perché, al di là dell’apporto di Ancelotti, una volta rientrato, Scarnecchia e Maggiora, specie il primo, non potevano garantire un adeguato ricambio (anche se il secondo come elemento jolly poteva ancora fare comodo, se non si fosse convinto ad andare via alla Samp, allettato da un contratto migliore). Presero Prohaska anche per questo motivo.
E per questo l’apporto di Vierchowod sarà essenziale. Permetterà, infatti, l’impiego di Di Bartolomei in fase più arretrata (ovviamente con licenza di avanzare quando del caso) facendolo usurare di meno. Torniamo al campionato 1981 -82,. Dopo i successi con Cagliari, Torino e Genoa, la Roma dovette alzare bandiera bianca per causa dell’infortunio di Falcao.
-Fine prima parte-
GLIEROIDELCALCIO.COM (Francesco Zagami)