Storie di Calcio
8 maggio 1983: il secondo scudetto della Roma -seconda parte-
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6 mesi agoon
8 maggio 1983: la storia del secondo scudetto della Roma – seconda parte-
Preso atto di ciò, bisognava essere pronti a mettere una pezza nell’eventualità di assenze del brasiliano. Per questo occorreva, in generale, rafforzare il centrocampo e con Prohaska la lacuna si sarebbe colmata, mentre, nello specifico, Valigi si sarebbe dimostrato un pregevole vice Falcao. Ma non solo: era d’uopo rinforzare anche l’attacco (peraltro, Falcao faceva anche da attaccante): Iorio sostituirà pregevolmente Scarnecchia, che non aveva mantenuto il rendimento della stagione 1980 -81, e sarà ottimo partner di Pruzzo (in avanti anche Faccini si sarebbe fatto trovare pronto). Come vice Conti ci sarà un ottimo Chierico: il che sarebbe stato un toccasana nelle giornate poco brillanti del futuro campione del mondo di Nettuno. E non era neanche eresia che si dovesse rafforzare pure la difesa: Marangon era stato bravissimo come fluidificante, ma meno in interdizione, Spinosi aveva avuto diverse giornate no. Turone nel complesso era stato meno brillante degli anni passati.
Con Vierchowod si prendeva una roccia difensiva (peccato sacrificare per un anno Bonetti), Maldera poteva coprire a sinistra (ed era utile anche in centrocampo come interditore) e fluidificare, permettendo il transito di Nela a destra in luogo di Spinosi. Nappi si sarebbe dimostrato utile rincalzo. Il tutto a prescindere dall’atteso rientro di Ancelotti. Così la Roma poteva fare fronte alle mancanze della stagione 1981 – 82. L’annata 1982 – 83 si apriva con le solite favorite, alla luce dei campionati immediatamente precedenti. Quindi, i soliti nomi: Juve, Inter, Fiorentina, Roma. Diverse chance scudetto venivano concesse al Napoli. Ma prima di parlare del Napoli o di altre squadre, sarebbe doveroso dire innanzitutto della Juve. In teoria, il campionato non avrebbe dovuto avere storia.
La Juventus, secondo i pronostici, era la favorita…
Semplicemente, la Juve era avanti in tutti i pronostici. Sei freschi campioni del mondo in Spagna (Zoff, Gentile, Cabrini, Scirea, Tardelli, Rossi), Bettega, che al Mundial spagnolo non ci era potuto andare solo per causa di infortunio, e come stranieri Platini e Boniek (per inciso il Consiglio federale il 10 marzo 1982 aveva concesso alle squadre di serie “A” la possibilità di acquisire due stranieri). Platini, che si rivelerà uno dei migliori stranieri che abbiano giocato nel campionato italiano, veniva acquistato per soli 148 milioni di lire dal Saint Etienne (mai prelevato per così pochi soldi un fuoriclasse di tanto valore), Boniek era costato 2 miliardi e mezzo. Altri titolari della Juve erano gente come Furino e Brio. Rincalzi Bonini, Marocchino, Galderisi o Storgato (non proprio gli ultimi della classe).
Con una formazione così la Juve non avrebbe dovuto avere rivali; solo essa avrebbe potuto buttare via lo scudetto. Ma la Juve non sarebbe stata continua (però nelle giornate di grazia sarebbe stata semplicemente irresistibile) e poi iniziava in maniera stentata il campionato, con un Platini per metà stagione alla stregua di “mezzo Platini”, salvo diventare “le roi” nell’ultimo terzo di campionato, fungendo sia da regista che da cannoniere, in maniera eccezionale, così da laurearsi capocannoniere. Ma, in generale, è da dire che la Juve non esprimeva per parte considerevole del campionato il proprio devastante potenziale: ed è stata bravura della Roma mantenere quella regolarità, mancatagli due anni prima, che le ha permesso di preservare il primato quando la Juve improvvisamente e prepotentemente è riemersa nell’ultima parte del campionato (salvo compromettere tutto con la sconfitta rocambolesca nel derby di ritorno, dopo non essere, peraltro, riuscita a vincere a Pisa).
Bisognava fare attenzione anche all’Inter
Poi l’Inter dei campioni del mondo Bordon, Bergomi, Oriali, Marini, Altobelli, cui si aggiungeva Collovati (dal Milan, in comproprietà). E a cui erano da sommare i nomi, fra gli altri, di Beccalossi, Bagni, Bini, Riccardo Ferri o degli stranieri Hansi Muller e Juary. L’Inter, per fortuna della Roma, commetteva l’errore di privarsi di Prohaska. Il terzo posto finale lascerà deluse alcune aspettative, ma obiettivamente è da ritenersi giusto. La Fiorentina era quella dell’anno precedente, con in più l’argentino Passarella, campione del mondo nel 1978, l’ormai ex cagliaritano Giuseppe Bellini, ma senza Casagrande e, soprattutto, senza Vierchowod. Il quinto posto finale non sarà piazzamento di grande prestigio, ma la squadra non ha fatto di più al fine di meritare risultati più prestigiosi. Poi anche il Napoli, che tra i suoi estimatori annoverava anche Bearzot; il CT campione del mondo valutava la squadra partenopea sufficientemente compatta per alti traguardi.
Potenzialmente la squadra avrebbe potuto dire la sua con autorevolezza. Nel mese di aprile dell’82 veniva acquistato Diaz dal River Plate (il giovane argentino era di belle speranze); rientrava dal prestito al Catanzaro Costanzo Celestini e veniva ingaggiato un mediano di una certa statura ed esperienza, ovvero Paolo Dal Fiume dal Perugia. Non vi era più in panchina Rino Marchesi, con cui gli azzurri nell’81 avevano raggiunto il terzo posto, ma Massimo Giacomini. La formazione campana non era da disprezzare, con Castellini in porta, Bruscolotti, Marino e Ferrario difensori, Krol regista arretrato, Celestini, Vinazzani e Dal Fiume in mediana, Criscimanni trequartista e Diaz e Pellegrini attaccanti. Forse mancava il secondo regista, quello avanzato.
Le difficoltà del Napoli
Ma il Napoli non ingranerà e sarà impegnato sino all’ultimo nella scivolosa lotta per non retrocedere, con una salvezza conseguita grazie a un buon girone di ritorno e alla cura di Pesaola, subentrato come allenatore. Adesso la Roma. Liedholm progetta una squadra che possa esprimere al meglio la propria idea di zona, valorizzando la propria ragnatela e il proprio possesso palla, non solo in fase difensiva, ma anche favorendo verticalizzazioni efficaci.
Vengono presi giocatori perfettamente inquadrabili nel puzzle tattico di Liedholm, che curerà ancor più l’aspetto tattico e quello agonistico dei propri giocatori al fine di farli rendere al massimo. Per questo viene definitivamente riscattato dal Genoa Nela, in cambio della seconda metà di Iachini, di Romano e di 100 milioni di lire, Viene fatto definitivamente proprio Chierico, versando all’Inter 1 miliardo e 250 milioni, viene preso in prestito il portentoso stopper Vierchowod dalla Sampdoria in cambio del prestito di Dario Bonetti e della cessione di Maggiora.
L’arrivo di Vierchowod è fondamentale. Egli era richiesto dalle maggiori squadre italiane, Juve e Inter in testa. In alcune partite farà difesa da solo e risulterà decisivo per garantire la vittoria o per strappare il pareggio in gare che si sarebbero potute perdere. La presenza di Vierchowod fa conseguire la “promozione” a libero a Di Bartolomei, che, essendo in difesa coperto dal predetto straripante stopper, potrà agire da primo regista e da centrocampista in un reparto che include Falcao, Prohaska e Ancelotti, cioè tanti piedi buoni, i quali potranno rendere concreta realtà i dettami di Liedholm, per cui i giocatori di talento difficilmente perdono palla e se la palla non l’hanno gli avversari, essi non possono fare male. La Roma, così, appare più compatta.
Il centrocampo di qualità della Roma
E, d’altronde, questi piedi d’oro sono una manna per gli avanti giallorossi. Allora da questo risalta ancor più il valore dell’acquisto di Prohaska, scartato dall’Inter perché non sufficientemente veloce per il classico gioco di rimessa dei nerazzurri, ma in realtà adeguatamente veloce palla al piede nel contesto del gioco romanista. In questo fior di centrocampo Ancelotti (il suo recupero avverrà il 17 ottobre 1982, dopo due gravi infortuni, ovvero la rottura del menisco destro il 25 ottobre 1981 durante la partita con la Fiorentina, a seguito di un fortuito scontro con Casagrande, e la rottura dei legamenti crociati il 4 gennaio 1982 in allenamento), in un certo senso rappresenta il miglior acquisto della Roma, con un suo peso specifico in fase costruttiva decisivo grazie al suo azzeccato senso della posizione, alle sue stupefacenti verticalizzazioni e ai suoi precisi rilanci.
In questo centrocampo ancor più ricco degli anni precedenti Falcao potrà accrescere la sua inventiva inesauribile; i suoi spunti, spesso di rara bellezza, aumenteranno di numero, mentre Di Bartolomei brillerà con i suoi lanci smarcanti, facilitati dal non essere costretto ad agire in maniera forsennatamente continua.
Importante la presenza di Chierico, che sarà il dodicesimo uomo, sovente indispensabile in funzione di ala o di centrale. Apprezzabili anche gli acquisti di Maldera e di Iorio, considerati da certa critica come di poco conto, ritenendo l’ex milanista come ormai quasi finito e l’ex barese come carente di esperienza. Maldera, che Liedholm conosce bene per averlo avuto nel Milan dello scudetto della stella, sarà terzino sinistro, facendo sì che l’altro mancino Nela possa agire da destra e sfruttare il proprio piede più congeniale per traversoni millimetrici e conclusioni da cecchino. Ambedue possono avanzare e creare occasioni. Iorio, da parte sua, sarà necessario perché molto mobile e capace di creare profondità.
L’importanza degli acquisti in difesa
Come non di poco conto è l’acquisto del difensore Nappi, velocissimo quasi come Vierchowod: sarà un rincalzo di pregio per tutta la difesa. Poi Conti ala tornante e Pruzzo, che da un lato si sacrifica al servizio della squadra, quando serve, e dall’altro segna, anche se meno rispetto agli altri anni, aiutato dal nuovo arrivato Iorio (altro acquisto azzeccato), che in un certo senso lo “completa” con la sua velocità.
Un incastro perfetto, con terzini trasformati in ali, con registi capaci di difendere e un attacco che non dipende più da una sola persona, ma amalgama il meglio dei suoi attori, la creatività di Conti, la forza di Pruzzo e la corsa di Iorio: così migliorerà sia il settore difensivo che quello offensivo, sul perno rassicurante di un centrocampo perfetto, facendo della Roma una squadra regolare nei risultati: il segreto dello scudetto. Detto questo, bisogna dire che la Roma era molto consapevole dei propri mezzi e nutriva parecchia fiducia anche in chiave scudetto.
Nelle partite precampionato si segnala Valigi per visione di gioco, inventiva e precisi lanci: sarà, come già accennato, un ottimo vice Falcao e in alcune partite il suo apporto non sarà da poco. Il campionato della Roma è contraddistinto da molta regolarità; l’esperienza acquisita in quegli con Liedholm, l’apporto dei nuovi giocatori e un po’ di fortuna consentono di vincere quelle partite che in altri anni si sarebbero perse o pareggiate.
Altre, come quella a Cesena, vengono salvate da un grande Tancredi, addestrato a tiri impossibili dallo stesso Liedholm, ancora parecchio “verde” e pimpante, sebbene ormai sessantenne. Alcune partite, per esempio quelle casalinghe contro Fiorentina e Napoli sono da antologia tanta la perfezione nell’applicazione degli schemi dettati dal tecnico. Decisive sarebbero diventate alcune partite. Ventiduesima giornata. 06 marzo 1983. Roma -Juventus. Se la Roma vince, campionato finito.
Il campionato che si riapre…
E sino a sette minuti dal fischio di chiusura dell’arbitro, il campionato è di fatto archiviato. La Roma conduce e i punti di vantaggio sono 7, ovvero sufficientemente gestibili nelle restanti 9 partite. Ma quando i ventidue vanno a farsi la doccia, il distacco si riduce a 3 punti. Il campionato è pericolosamente riaperto. La Roma per 80 minuti ha, in linea di massima, meritato il vantaggio, ma la Juve è la Juve, almeno in Italia.
E quella partita, che poteva finire con un comodo 0 a 0, negli ultimi minuti si è trasformata in un colpo di scena dagli esiti imprevedibili. E, alla fine, quello che da tempo Liedholm temeva, ovvero un certo declino fisico da mese di marzo, almeno in parte si appalesava. Si aggiunga che Liedholm non ha schierato la formazione tipo, mancando Maldera e Prohaska (problemi fisici) e, per quasi un’ora, Iorio, poi fatto entrare al posto di Pruzzo (infortunatosi) con lo scopo di dare una certa vivacità in avanti.
E tutto questo, probabilmente, è stato originato da pregressa stanchezza. Già le precedenti partite ad Ascoli e a Cesena, per non andare oltre, erano state contraddistinti da campanelli d’allarme in tema di tenuta fisica giallorossa. Ma in quei casi i Tancredi, gli Ancelotti e i Pruzzo di turno avevano mascherato qualche debito d’ossigeno o qualche carenza di lucidità. Ma qui c’è la Juve in ballo, ovvero la squadra con i singoli migliori del campionato. Liedholm, preso atto che qualche tossina zavorrava i propri uomini, cerca di cambiare, sempre nel contesto dello schema a zona. Ma, in fondo, è da analizzare un altro aspetto.
La paura del calo fisico della Roma
Liedholm, in realtà, oltre al timore del calo fisico della Roma, una paura questa di lungo corso, a cui lo stesso tecnico da settimane indirettamente aveva alluso, quando era rimasto scontento di alcune mancate vittorie (come dire, mettiamo più punti in cascina, in attesa di tempi inevitabilmente peggiori), poteva aver maturato inquietudini di più recente cronologia.
Queste risalivano a 3 giorni prima, quando la Roma aveva perso in casa in Coppa Uefa contro il Benefica, mettendo a nudo certi limiti, mentre la Juve a Birmingham aveva sontuosamente suonato l’Aston Villa con dei contropiedi micidiali. E siccome Liedholm riconosceva e sapeva che la Juve aveva un organico superiore al proprio, non poteva fare altro che rafforzare il centrocampo. Per cui, Nappi a destra, Nela a sinistra, Righetti e Vierchowod centrali, Valigi ala, Di Bartolomei centrocampista di supporto e Falcao teoricamente mezzapunta, ma di fatto centravanti.
A cui Trapattoni rispondeva con Brio su Pruzzo, Gentile su Conti e Bonini su Falcao. Quest’ultimo, messo in avanti serviva di fatto al barone svedese per attirare appunto Bonini, che a Birmingham era stato l’anima dei contropiedi juventini, al fine di evitargli di fare danni pure a Roma. Il piano di Liedholm era razionale, e, forse, di meglio non ci si poteva ingegnare, sparigliando le carte.
Era il miglior modo per avere sicuro almeno un pari che avrebbe potuto lasciare immutato il distacco e far scivolare una partita nel calendario. Era l’unico modo per ingannare una squadra, che, come aveva previsto il tecnico svedese, sarebbe stata in salute per la primavera (per dire la verità, la Juve nelle settimane immediatamente successive avrebbe steccato in campionato per pensare alla Coppa dei Campioni, ma questo è altro discorso e non era pensabile la sera del 6 marzo ’83, quando si poteva immaginare tutt’altro).
Nel big match la Juve stava meglio…
Ritornando al big match, finché la Roma ha retto, bene. Disgraziatamente per i giallorossi in quel 6 marzo i giocatori della Juve scoppiavano di salute (ha giocato non bene solo Boniek, sostituito da Marocchino) e nell’ultimo quarto facevano sfracelli. E la stanchezza della Roma, il suo appannamento tattico costringevano a pagare dazio. Per quanto riguarda la partita, a parte un primo tempo tutto sommato poco interessante, in cui il gioco a zona alta e di taglio difensivo assopiva l’incontro, la Roma si è portata in vantaggio al 62’ con il centravanti di giornata Falcao, che di testa ha corretto in rete una punizione di Conti, il quale aveva subito fallo per mano di Gentile.
Ma la Juve non si faceva impressionare, a parte qualche attimo di défaillance. Ma, a onor del vero, qualche occasione per portarsi sul 2 a 0 la Roma l’ha avuta, ma i difensori juventini non hanno fatto complimenti, senza venire, peraltro, sanzionati. E poi pesa un’azione di Iorio in contropiede, quando non ha servito Falcao smarcato, tirando a fil di palo. Così i bianconeri, sfruttando le loro capacità tecniche individuali superiori, hanno macinato gioco e creato occasioni sulle quali Tancredi ha rimediato da par suo.
Alla fine vinsero i bianconeri
Era da vedere, a quel punto, se gli juventini la mettevano dentro (in queste partite conta spesso la fortuna o le circostanze casuali e non sarebbe stato strano se la Juve fosse rimasta a secco di gol, per un fatto o per un altro). Però all’83’ una punizione concessa ai bianconeri per fallo subito da Platini offre allo stesso francese la possibilità di una punizione. Tiro a effetto che aggira la barriera (sistemata male) ed è pareggio.
Dopo due minuti Platini (non si capisce se fosse in fuorigioco o meno, ma le proteste romaniste sono state quasi ininterrotte) fa un traversone, testa di Brio e gol, con la difesa della Roma che ha le sue responsabilità. La Juve da -7 passava a -3.
Le settimane cruciali per lo Scudetto della Roma
Sarebbero state le settimane cruciali per la Roma, sempre a patto che la Juve infilasse vittorie su vittorie (quello che poi non è avvenuto, per fortuna della banda Liedholm, perché, se facciamo due conti, avendo i capitolini mantenuto la media inglese quasi perfettamente (43 punti, con un meno 2 sui 45 teorici), la Juve avrebbe dovute vincerle tutte per superarli – ipoteticamente sarebbe potuto finire con 44 punti la Juve e 43 la Roma). Ora c’era da vedere se la Roma avesse risentito del contraccolpo psicologico.
Per dare una spinta all’ambiente e non cadere in vecchie abulie “da Rometta”, Falcao il 9 marzo era ospite nella trasmissione “Mixer” di Giovanni Minoli e diceva che in Italia aveva assistito a due errori arbitrali, ovvero quello concluso con l’annullamento del gol di Turone quasi due anni prima e quello anteriore di appena 3 giorni, in occasione del gol di Brio. Diceva che se la Juve era sicura del fatto suo, la Roma lo era di più.
E se la Juve aveva fame di vittorie, la Roma ne aveva maggiormente. Continuava Falcao che se la Roma giocava a quei livelli, i tre punti di vantaggio potevano essere sufficienti. Forse quell’intervista fu una mossa azzeccata. In fondo, una sconfitta ci poteva scappare, considerando che in quegli anni la Juve aveva in qualche occasione prevalso a Roma. E allora i giallorossi dovevano entrare nell’ordine di idee che bisognava vincere il campionato e non necessariamente la partita con la Juve.
E in campionato i due punti in palio a Pisa sono uguali ai due punti in palio nella partita contro la Juve. Ventitreesima giornata.
13 marzo 1983, Pisa – Roma: la partita della verità
Il Pisa non può regalare nulla, tutt’altro, dato che deve salvarsi. Il momento è delicato: la Roma deve imporsi. Una sconfitta in Toscana significherebbe probabilmente il tracollo psichico prima che fisico. Bisogna vincere. Nella Roma assente per problemi fisici Pruzzo. Gioca Chierico, per dare spinta lungo le fasce. Per fortuna della magica, un’altra prova magistrale di Falcao, sempre più decisivo, come ai livelli del Mundial ’82, e sempre più deciso a prendersi il trofeo di campione d’Italia, a mo’ di risarcimento della Coppa mancata l’anno prima in Spagna con il Brasile.
Per il resto, confermata la squadra titolare, malgrado le fatiche accumulate. Con essa si deve superare quella che è diventata una partita fondamentale: rimescolare le carte non avrebbe avuto senso e sarebbe stata mancanza di fiducia nei confronti dei titolari “storici” stagionali, con tutte le conseguenze che sarebbero potuto derivarne in caso fosse andata storta.
Ma la Roma vista a Pisa per larghi tratti è uno spettacolo e Falcao il suo profeta, il suo banditore, il suo trascinatore e ispiratore, oltre che goleador, da qualche settimana a quella parte. Il Pisa ha cercato di bloccare la Roma con ferree marcature a uomo (Secondini e poi Garuti su Iorio, Massimi su Conti, Pozza su Chierico, Occhipinti su Ancelotti e Mariani su Falcao).
Quest’ultimo segna al 13’ di testa (ma 2 o 3 minuti prima si era fatto notare sempre di testa e sempre pericolosamente, dopo punizione di Conti): Prohaska (la cui assenza nella partita precedente con la Juve è stata per certi versi decisiva e mai sufficientemente valutata nella sua importanza) si impossessa di un pallone, scambia a destra con Chierico, che salta un pisano (dalle immagini televisive sembra Vianello) e lancia al centro, dove Falcao, dopo essere sbucato dalle retrovie, segna un gran gol di potenza e precisione.
I tocchi fatati di Prohaska
Dicevo di Prohaska: il centrocampo gira come nelle belle giornate e l’austriaco è sempre presente con i suoi tocchi fatati. La Roma convince. Al 60’ raddoppia con una punizione a due, missile di Di Bartolomei. Fallo su Ancelotti, tocco di Conti. Ma il Pisa non era stato a guardare e non sarebbe rimasto a osservare. Ne è prova la grande esibizione di Vierchowod. Al 64’ un grande Bergreen accorcia al volo dopo cross di Sordi, che Prohaska non ha potuto controllare.
E qui, in un certo senso si apre un’altra partita, perché il Pisa le ha tentate tutte per pareggiare e ne è venuta fuori una partita combattuta. Già l’undici toscano poteva segnare nel primo tempo con Casale e qualche minuto prima del secondo gol romanista aveva chiesto un rigore, che non credo ci fosse, su Occhipinti, dopo intervento di Ancelotti. Ovviamente, i pisani si espongono e la Roma potrebbe fare il terzo gol, specie con Di Bartolomei, che con le sue punizioni è un pericolo pubblico calcistico.
Ma la Roma stringe i denti; la stanchezza poi si manifesta e prende il sopravvento e questo è un problema anche in prospettiva, dato che la Juve sembra lanciata e coglie la quarta vittoria consecutiva con l’Avellino in modo netto, apparendo nettamente più in forma. Ma a ogni giornata la sua fatica e i suoi responsi; importante per la Roma era vincere a Pisa. Liedholm può essere soddisfatto della circostanza che la propria squadra avesse reagito alla battuta d’arresto con la Juve con determinazione ed efficacia. Non ha visto grandi pericoli per la propria compagine (tutto sommato, ciò è vero), segno che la difesa ha retto.
L’importanza, per Liedholm, di esprimersi tatticamente
Per il barone è fondamentale che la Roma si esprima anche tatticamente ai livelli delle migliori partite passate e per questo è necessario riprendere la forma fisica. Sicché per il ritorno di Coppa Uefa a Lisbona, ritenendo difficile recuperare la sconfitta patita in casa, decide di operare un ricambio, con l’impiego di Valigi, Nappi e Faccini. È vero che Liedholm voleva vincere quella Coppa Uefa, ma le circostanze consigliavano intanto di pensare alla salvaguardia del primato in campionato. I giocatori della Roma si dimostravano anche loro contenti e questo era essenziale. Ventiquattresima giornata. 20 marzo 1983. Roma -Udinese. Evidentemente la Roma all’Olimpico ha il mal del bianconero. E per fortuna che il Pisa impone il pari alla Juve, altrimenti sarebbero stati patemi d’animo.
Finisce 0 a 0: per la prima volta in campionato i capitolini non segnano in casa, per la prima volta pareggiano (portando a -2 la media inglese; la stessa rimarrà tale sino alla fine del torneo; dalla successiva gara i romanisti conquisteranno tutte le poste in palio tra le mura amiche e impatteranno fuori). In antecedenza la Roma in casa, escludendo la sconfitta con la Juve, aveva sempre vinto.
La partita è di quelle strane. La Roma è sicuramente stanca a causa della partita di Coppa a Lisbona, terminata con un inutile pareggio. Peccato non poter inseguire ancora il sogno Coppa Uefa (visti gli organici delle quattro semifinaliste dell’epoca (Universitatea di Craiova, Benfica, Anderlecht e Bohemians CKD Praga): la Roma poteva anche vincere il trofeo (a mio avviso mancava solo un pizzico di esperienza e uno o due veterani in più che permettessero accettabili ricambi, senza che si patissero eccessivi affaticamenti).
L’ostacolo Udinese
L’Udinese, d’altronde, ha giocato allo spasimo. Per questo qualche romanista ha lamentato che la squadra friulana avesse voluto concedere un favore alla Juve. Per Tancredi è stato come se i friulani stessero facendo la finale di Coppa dei Campioni: agonismo esasperato, perdite di tempo, palloni in tribuna, tanto – ha aggiunto Nela – che non si erano giocati più di 50 minuti effettivi di partita. E anche Falcao ha deplorato quest’andazzo ostruzionistico, ritenendolo antisportivo. Per Maldera vi era stata troppa cattiveria nel contesto della gagliardia udinese e mostrava i punti che gli avevano applicato in fronte. Infine Liedholm, tra il serio e il faceto, come nel suo stile, alludeva a possibili simpatie o debolezze per la Juventus per una sorta di solidarietà a base cromatica bianconera comune. Qualche tifoso, molto più prosaicamente, inveiva contro i rapporti societari tra le due squadre. Naturalmente, queste erano chiacchiere da bar e lì rimanevano confinate.
A parte questo, Liedholm, non senza avere qualche ragione, diceva che partite come queste agevolmente si sarebbero potute vincere, ma altrettanto facilmente si sarebbero potute perdere. Ma dato il pareggio della Juve, al barone andava bene. Tecnico svedese che, alla vigilia della partita, ritenuta sagacemente non facile, temeva tre elementi: stanchezza post partita europea (il che ci stava), la giornata calda da incipiente primavera romana, che avrebbe potuto rendere più pesante e faticosa la stanchezza di cui sopra (il che non era follia pensarlo) e le punizioni di Edinho.
E a proposito di queste ultime nasceva una querelle tutta brasiliana tra il predetto e Falcao, quando il romanista, con un piede dentro la linea di porta, al 32’ del primo tempo, respingeva alla disperata con un piattone destro alla viva il parroco un pallone che aveva superato Tancredi e che stava finendo in rete dopo un colpo di testa del connazionale.
Per questi era gol; Falcao, elegantemente, dirà di non aver visto perché concentrato solo sul pallone. A proposito, invece, del proprio brasiliano, il Barone aveva dovuto fare del medesimo un centravanti: circostanza già registrata contro la Juve e contro il Pisa, quindi non nuova, bensì ragionata, sia pure partendo da presupposti diversi. Perché se con la Juve, come visto, la scelta era figlia della tattica, che richiedeva Falcao attaccante per attirare su di sé Bonini, altrimenti ben più vispo e pericoloso, contro il Pisa e l’Udinese non si poteva parlare di scelta o libero arbitrio, ma di servo arbitro in quanto mancava Pruzzo per infortunio. E questo dovrebbe indurre a considerare quanto Pruzzo fosse fondamentale in quella Roma, anche se non in versione di cannoniere (anzi, soprattutto, di “non cannoniere”).
Tanto è vero che Liedholm prese tremendamente sul serio, e forse non aveva torto, l’allenatore Ferrari dell’Udinese, quando in tono canzonatorio, dichiarava che Liedholm aveva fatto un favore alla propria squadra togliendo Falcao dal centrocampo così da lasciare più spazi ai terribili cursori udinesi. Liedholm, però, non avrebbe voluto fare cortesie: semplicemente aveva la necessità di trovare qualcuno al posto di Pruzzo per dare più peso all’attacco, perché il trio Chierico-Iorio-Conti (su cui stazionavano crudamente rispettivamente Chiarenza, Cattaneo e Galparoli) era troppo leggero, ancorché potenzialmente velocissimo (ma, purtroppo, la velocità diveniva relativa con la stanchezza, per cui la potenza non diventava atto), e Falcao faceva al caso suo.
Così, di fronte a una Roma che davanti era o stanca o leggera, per cui non poteva esercitare la propria abituale pressione autorevole, il più che dignitoso, anzi l’abbastanza significativo (tecnicamente e non) centrocampo udinese, con Edinho, Mauro, Causio, Miano e Tesser, ha spesso messo in crisi i giallorossi, controllandoli con una zona mista dai meccanismi molto dinamici, con giocatori che si sono alternati efficacemente e che hanno creato rilevanti occasioni di pericolo.
Oltre al “gol-non gol”, se così si può dire, di Edinho, poco dopo al 37’ vi è stata una traversa di Mauro, che lanciava un siluro di destro, dopo un non preciso controllo di Di Bartolomei. Ciò non significa che la Roma fosse assente; tutt’altro.
Per ben tre volte la stessa ha invocato il rigore (all’8’ minuto per intervento di Cattaneo su Falcao, due minuti dopo per la spinta di Tesser su Prohaska e all’80’ per azione da parte di Cattaneo ai danni di Iorio, e le “vittime” romaniste hanno giurato che i falli ci sono stati e forse in qualche caso avevano ragione) e per tratti del secondo tempo ha attaccato in maniera gagliarda e allo stremo, ma alla fine ha creato solo un’occasione degna di nota al 56’ con un grande Corti che ha dovuto sbrogliare la matassa dopo gran colpo di testa di Falcao, sfuggito a Miano, successivamente a un cross di Nela.
Ma non si dimentichi, da parte udinese, che Virdis ha avuto una buona occasione ma è stato chiuso miracolosamente da Maldera e che nel finale Galparoli, ancora una volta innescato opportunamente da Causio poteva segnare. Il pareggio nel complesso era giusto e qualche romanista riconosceva che non era la solita Roma di alcuni mesi prima e qualche timore della Juve veniva avvertito con la concessione di 30 possibilità su 100 a testa in chiave scudetto.
A questo punto bisognerebbe fare una riflessione. In alcune partite del girone d’andata e in qualcuna nel ritorno, almeno sino al match con il Napoli, la Roma aveva offerto esibizioni fantastiche. Zona applicata alla perfezione, singoli che correvano innescando ingranaggi automatici e che davano sostanza e peso in un contesto di un gioco collettivo armonioso e proficuo. E alcune partite vinte con un gol di scarto in realtà presentavano risultati bugiardi perché la Roma aveva sprecato dopo aver tanto costruito.
Nelle giornate in cui non tutto era riuscito alla perfezione, vuoi per una appena precedente partita di Coppa Italia o di Coppa Uefa, con conseguente stanchezza (in quegli anni non c’era la cultura della “panchina lunga” e, comunque, obiettivamente, se la sarebbe potuta permettere solo la Juve – non si dimentichi che la Roma ha vinto lo scudetto con non più di 13 massimo 14 giocatori), vuoi perché si incontrava l’Avellino, l’Ascoli o il Catanzaro di turno che si chiudevano, vuoi perché il campo era pesante e la zona non poteva essere applicata a dovere, o vuoi perché più giocatori non erano in giornata, comunque vi era stato il Pruzzo o l’Ancelotti o il Falcao di turno che l’aveva messa dentro e il Franco Tancredi che aveva fatto miracoli. Nelle ultime 3 giornate, viceversa, sembrava che tutti (o quasi tutti) i possibili citati “inconvenienti” si fossero contemporaneamente manifestati.
E la squadra stanca di sei mesi intensi, e gli avversari sempre più “rognosi” (d’altronde le esigenze di classifica si facevano sempre più impellenti e di “prove di appello” ve ne sarebbero state sempre meno, cosicché nessuno avrebbe regalato nulla), e l’infortunio di Pruzzo, e le amnesie tattiche: il rischio di un crollo o di un cammino futuro zoppicante apparivano come incubi.
Vero è che sinora la Roma aveva avuto l’abilità e la forza di non ricadere in certi psico-melodrammi “da Rometta” degli anni passati (e qua si vedeva la mano sia dell’uomo che del tecnico, ma soprattutto dell’uomo Nils Erik Liedholm), vero che, comunque, anche negli attimi di calo, la squadra non aveva smarrito quell’autorevolezza che contraddistingue i forti, vero che contro l’Udinese quando era andata in difficoltà la Roma non si era disunita e, non potendo rispondere con le proprie migliori armi, comunque si era affidata al volontarismo commovente dell’impegno personale oltre ogni limite: ma quanto si poteva ancora resistere senza il rischio che saltassero i nervi? Bisognava stoppare questo periodo grigio.
La vittoria a Pisa era stata ottima risposta e toccasana, ma non era stata netta, seppur meritata; però la partita contro l’Udinese aveva seminato nuovamente fastidiosi dubbi. Importante era non perdere la testa; essenziale era non subire una sconfitta a Firenze la domenica dopo. Intanto, per altro verso, una buona notizia sarebbe venuta col rientro di Pruzzo. Poi non ci sarebbero state più le Coppe europee e si sarebbe potuto rifiatare. Una buona notizia certamente era stato il pari della Juve a Pisa: ciò significava che i bianconeri in pratica avrebbero dovuto vincere tutte le partite. E gli juventini avrebbero continuato con le Coppe europee.
Perché non pensare che anche loro si sarebbero potuto stancare? Venticinquesima giornata. 27 marzo 1983. Fiorentina – Roma. La giornata decisiva. Alla fine la Roma di fatto si cuce lo scudetto sulle maglie. Ma in qualche frangente la Juve si era portata a meno 1, a un passo dall’aggancio. La Roma a Firenze passava in svantaggio, mentre la Juve vinceva. Ma i giallorossi non si smarrivano, anche se paure e qualche “balbettio” non mancavano: il gran gol di sinistro al 10’ di Massaro, dopo spunto di Antognoni, facilitato da un non felice intervento di tacco di Righetti (che sostituiva in funzione di libero lo squalificato Di Bartolomei), poteva tagliare le gambe da un punto di vista psicologico. Probabilmente sarebbe stato così l’anno prima o due o tre anni addietro. Ma i romanisti nel loro élan vitale resistevano.
Un’occasione così difficilmente sarebbe ricapitata
Nell’occasione la certezza di essere la squadra che aveva espresso, nel complesso, il miglior calcio, la constatazione di essere la squadra più regolare e, quindi, più solida, la consapevolezza che un’occasione così non sarebbe ricapitata, oltre ai 15.000 tifosi accorsi da Roma a sostenere la Causa, dovevano concorrere a trovare quella riserva di energia nascosta per tenere testa e, eventualmente, rimediare a tutto.
Certo il timore c’era. Ma c’era anche la fortuna che la Fiorentina, a parte Antognoni, Cuccureddu e Massaro (uscito dopo la mezz’ora per infortunio) non era in gran spolvero. Graziani e Bertoni non facevano grandi cose e la difesa evidenziava lacune. E c’era anche un ritrovato Pruzzo (anche se al 50%), che 8 o 9 minuti dopo il punto fiorentino segnava un gran gol dopo lancio di Bruno Conti che scavalcava Cuccureddu. Pruzzo si beveva Pin e gol. A quel punto la partita un po’ si addormentava e si può dire che l’occasione più ghiotta l’avrebbe avuta Iorio a 7 o 8 minuti dalla fine del primo tempo, fallendola.
Nel secondo tempo la partita continuava al piccolo trotto e la Roma, complessivamente sufficiente, seppur con delle amnesie, e, comunque bastevole in rapporto a quanto espresso dall’avversaria, faceva una buona partita, con un centrocampo ritornato a livelli accettabili. E questo malgrado l’inopinata circostanza, dopo quasi venti minuti dall’inizio del secondo tempo, dell’uscita dal rettangolo di gioco di Pruzzo, che, dopo essere stato “toccato” e “ritoccato”, sentiva il riacutizzarsi di vecchie infiammazioni e non ne poteva più . Al 64’ la Roma, usufruiva di un calcio di rigore poiché Chierico, il sostituto di Pruzzo, dopo un suggerimento da parte di Nela, veniva spinto da Contratto in area.
Il successo della Roma a Firenze e la vittoria del Torino con la Juventus
Tirava Prohaska, mancando Di Bartolomei e Pruzzo. L’austriaco, calmo, spiazzava Galli e i 15.000 tifosi giallorossi tripudiavano. Intanto a Torino, dopo che la Juve si era portata sullo 0 a 2 (si badi che si giocava in “casa” granata, quindi i bianconeri vincevano), succedeva l’impensabile e l’impossibile: in poco più di 5 minuti il Torino segnava e risegnava, mentre l’allenatore torinista Bersellini faceva segno ai suoi che gli juventini apparivano stanchi (quindi le tossine della stagione si facevano sentire non solo in casa giallorossa), per cui era il momento di osare.
Il Torino segnava ancora e si era sul 3 a 2. Il Torino confezionava la partita che non faceva dal ’49 o dal ’76 e la Juve pativa il desiderio di rivalsa dei concittadini. Impossibile descrivere l’esplosione del tifo giallorosso al sopraggiungere delle notizie da Torino. In realtà, gioivano anche i tifosi della Fiorentina e il clima nello stadio di Firenze era surreale. La festa della Roma veniva guastata da un’incredibile autorete di Ancelotti che fissava il pareggio sul 2 a 2.
Dopo un bel pallonetto di Antognoni, la palla stava per finire a Graziani (qualcuno dice in fuorigioco, ma forse nemmeno). Ancelotti, sicuro dell’off-side dell’attaccante viola campione del mondo e ritenendo rischioso tentare di rimediare in angolo, preferiva “allungare” verso la propria porta, sicuro che Tancredi avrebbe controllato quello che poteva sembrare un classico disimpegno con retropassaggio innocuo. Purtroppo Tancredi era uscito e nulla poteva, con la palla inesorabilmente rotolata in rete. Così, la Fiorentina, che non ha regalato nulla, che dopo lo svantaggio si è messa ad attaccare con lena (ma per tutta la partita ha cercato di punzecchiare di rimessa, approfittando di un centrocampo della Roma sufficiente magari sì, ma non eccezionale), pareggiava nel modo più banale e fortunoso possibile.
Scudetto Roma 1983: la stanchezza dell’ultimo periodo
Quanto alla Roma, se è vero che a tratti rispolverava certi meccanismi già ben collaudati nella costruzione del gioco, nell’applicazione della zona e nella fluidità di alcuni automatismi, tuttavia una certa fatica e delle mancanze di forza le denunciava ancora. Se è stato da più parti ritenuto migliore in campo Vierchowod, ovvero la roccia difensiva, seguito da Falcao, sempre più uomo scudetto, un motivo ci sarà stato. A parte questo, la Roma mancava ancora “del colpo di grazia”, di quella concretezza cinica al fine di chiudere le partite che è stata sempre propria della Juve.
Certo, la stanchezza toglieva lucidità, ma anche nei mesi di miglior forma la Roma era stata talvolta “carente” dell’istinto del killer calcistico. Ma i bianconeri avevano perso e 4 punti di distacco su dieci ancora a disposizione erano oggettivamente tanti (in fondo alla Roma sarebbero bastati 7 punti, godendo del vantaggio, per giunta, di giocare 3 partite in casa). Tuttavia, alla luce di quanto successo a Torino meglio non fidarsi, anche se era da considerare che la Juve era in corsa per la Coppa Campioni e per la Coppa Italia. Inseguire tutti quei trofei sarebbe stato grosso dispendio e la fatica faceva capolino (traduzione era plausibile a quel punto immaginare che la Juve non avrebbe vinto i suoi 5 rimanenti match).
E a fine partita i telecronisti avvicinavano Gentile (non l’ultimo arrivato): colui che nel Mundial spagnolo aveva cancellato a Barcellona Maradona e Zico, rassegnato, ammetteva che ormai il campionato era compromesso; se non era alzata di bandiera bianca, poco ci mancava. In ogni caso Liedholm predicava prudenza; riteneva che la Roma avesse davanti 5 partite terribili da affrontare (o il barone usava iperboli per tenere desto il gruppo o i suoi erano più affaticati e fiacchi di quanto non sembrasse).
Le difficoltà delle sfide
Tre le considerava addirittura proibitive: quella in casa dell’Inter, perché ancora teoricamente in corsa per lo scudetto, quella in casa del Genoa, perché pericolante, quella a Roma, l’ultima del torneo, con il Torino, perché non è bene chiedere troppo all’ultima giornata. Poi c’erano quelle con il Catanzaro e con l’Avellino, ma a Roma. In realtà, l’unica partita difficoltosa – non proibitiva – sarebbe stata a Milano con l’Inter due giornate dopo (e, onestamente, considerare tormentose le partite in casa nell’ordine contro Catanzaro, Avellino, e Torino sarebbe stato solo gentile concessione e riverente omaggio, quasi timorosa e rispettosa genuflessione alla gran dea della scaramanzia a che tutto andasse bene).
Per il resto lo svedese poteva dissertare dicendo, con qualche ragione, che la Roma non gli era piaciuta soprattutto quando era in vantaggio, e perché non trovava la determinazione di chiudere e perché, come era capitato altre 5 o 6 volte in passato mentre conduceva, divagava e non era quella che doveva essere, come già soddisfatta e sicura, sprecando palloni ancora spendibili e non giocando. Forse qualche mese prima quest’ultima analisi poteva essere spietatamente vera, almeno in parte.
Nelle ultime partite contava anche l’usura. Ma ormai era fatta, e la matematica avrebbe dato il suo conforto e avrebbe posto il suo sigillo con l’1 a 1 a Genova al cospetto dei rossoblù. Questo era uno scudetto costruito attraversi vari anni da Liedholm, un po’ come Scopigno una decina di anni prima aveva edificato quello del Cagliari, ma diversamente da quello della Lazio del ’74, figlio della capacità di Maestrelli di rendere dinamite pura quello che era uno spogliatoio spaccato in due clan in un anno in cui la Juve non dava il meglio di sé.
Fine seconda parte
GLIEROIDELCALCIO.COM (Francesco Zagami)