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15 maggio 1988: il primo Scudetto del Milan dell’era Berlusconi
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15 maggio 1988: il primo Scudetto del Milan dell’era Berlusconi
Prima ancora del Milan, si dovrebbe dire del Napoli. I partenopei nel campionato 1987 – 88 partono subito a ritmi sostenuti e confermano il trend già avuto nella stagione precedente. Gli azzurri si laureano Campioni d’inverno con una giornata d’anticipo. La squadra di Bianchi sembra non conoscere ostacoli verso lo scudetto-bis. Qualcosa di incredibile avviene, però, fra marzo e maggio 1988. Un dato per tutti. Alla ventesima giornata gli azzurri hanno 35 punti. Continuando con la media tenuta sino ai due terzi del campionato, potrebbero pervenire a quota 52-53 lunghezze e battere il record della Juve dell’esordiente Trapattoni nel 1977. Mai nel dopoguerra, nel campionato a 16 squadre, a due terzi del cammino, una compagine aveva accumulato tanti punti. Neanche la Vecchia Signora dei 51 punti del 1976-77. In quella stagione i bianconeri si erano ritrovati dopo venti giornate a quota 34, come anche nel campionato precedente.
In quest’ultimo, stagione 1975-76, la Juve aveva 34 punti a fronte dei 29 del Torino. I granata uscirono vincitori al traguardo nella volata finale per lo Scudetto. Situazione pressoché analoga quella che si registra nella stagione 1987-88. L’unica differenza è che le due contendenti per lo scudetto si ritrovano con un punto in più rispetto a quelle in corsa per il tricolore dodici anni prima (Napoli 35 punti e Milan 30.) Il distacco, quindi, era di 5 lunghezze e sarebbe potuto essere di 3 se al Milan non fossero stati tolti due punti a tavolino, per causa di un petardo che colpiva Tancredi durante la partita contro la Roma).
Il titolo sarà rossonero. Mentre nel 1976 il Torino finisce scudettato con 45 punti e la Juve seconda con 43. Nel 1988 Milan termina sempre con 45, mentre il Napoli totalizza alla fine 42 punti (casualmente gli stessi punti dell’anno dello scudetto 1987). Segno che il crollo avuto dal Napoli è risultato ancor più pesante e verticale di quello della Juve (i partenopei nelle ultime 10 partite totalizzano 7 punti con una media in pratica da retrocessione, i bianconeri 9). È, dunque, possibile che nell’ambito di quanto accaduto nel caso che ha visto protagonista suo malgrado il Napoli nella fase cruciale della stagione 1987-88 si siano create e sviluppate dinamiche non molto dissimili da quelle che avevano caratterizzato il percorso della Juve del 1976.
Ora, tuttavia, proprio per corroborare con dati oggettivi e precisi il tracollo azzurro di primavera e l’addio allo scudetto-bis, appare giusto e opportuno ripercorrere con maggiore attenzione il cammino del Napoli nelle ultime dieci fatidiche giornate della stagione 1987-88. Si scopre che, al di là dei possibili contrasti tra alcuni giocatori e il tecnico Ottavio Bianchi, tanti singoli fattori, piccoli o grandi che fossero, hanno contribuito alla caduta verticale del Napoli. Il declino partenopeo inizia alla ventunesima giornata, 6 marzo 1988, quando al San Paolo va in scena il derby del centro-sud con la Roma. Reduce dalla cocente eliminazione dalla Coppa Italia, patita appena tre giorni prima a opera del Torino, la formazione partenopea è chiamata ad affrontare un avversario storicamente complicato, in virtù della circostanza che i capitolini negli ultimi cinque anni – a partire dalla vittoria conquistata nella stagione 1982-83 – hanno sempre lasciato da imbattuti Fuorigrotta.
Liedholm è ben consapevole che se si chiude in difesa rischia di soccombere di fronte alla giostra Ma.Gi.Ca. (che sta Maradona-Giordano-Carnevale, a cui si è aggiunto quell’anno Careca) del reparto offensivo napoletano, ragione per la quale opta per una gara più spigliata e graffiante. Allora per annullare il vantaggio dell’uomo in più in difesa del Napoli, il barone svedese schiera il terzino sinistro Policano in posizione più avanzata e il talentuoso Giannini nell’insolito ruolo di esterno di attacco. Scacco matto a Bianchi. Il Principe diviene praticamente incontrollabile per i giocatori napoletani e segna al 21’.
Il tecnico bresciano cerca di contenere il fantasista giallorosso incollandogli letteralmente addosso Ferrario. Forse non fa la mossa giusta a tenere in campo un Bagni non al meglio della sua condizione fisica (da questa come da altre vicende simili potrebbero essersi create le condizioni per il guasto, l’aggravamento o la rottura dei rapporti tra l’allenatore e i giocatori o alcuni di essi).
Dopo un primo tempo piuttosto contratto, nella seconda frazione di gioco il Napoli ci prova in tutte le maniere a ristabilire la parità, ma le parate di Tancredi e la mira dei partenopei, oltre a una buona dose di sfortuna come in occasione del palo colpito da Carnevale a portiere avversario ormai battuto, non consentono a Maradona e compagni di impattare. Nel migliore momento del Napoli arriva il raddoppio della Roma grazie a Oddi che al 70’, in seguito a un contropiede ben orchestrato dall’indiavolato Giannini e favorito da un fortuito scontro tra Ferrario e Bigliardi, beffa Garella con un gran diagonale. I partenopei si catapultano nuovamente nella metà campo capitolina nel tentativo di riaprire la contesa e ci riescono a 10’ dal termine con una meravigliosa rete messa a segno da Careca.
La torcida azzurra riprende coraggio e crede nella rimonta, ma il risultato non cambia fino al triplice fischio finale di Agnolin. Proprio un altro 6 marzo, quello del 1983, la Roma, sempre con Liedholm in panca, perdeva in casa con la Juve, riaprendo un campionato che poi avrebbe vinto. In questo 6 marzo 1988 la Roma vince e riapre un campionato che poi il Napoli avrebbe perso. Corsi e ricorsi storici non sempre con esiti uguali. Il momento è complicato, la formazione campana ha perso l’imbattibilità casalinga dopo ben due anni ed è incappata nella seconda sconfitta consecutiva in appena tre giorni, considerata anche quella in Coppa Italia con il Torino, dopo mesi trionfali e senza passi falsi. Del tonfo casalingo napoletano il Milan approfitta soltanto a metà, visto che il diavolo non va oltre il pari con il Verona.
Il gap tra la capolista e i rossoneri è di 4 lunghezze. La domenica successiva, il 13 marzo, il Napoli pareggia a Empoli per 0-0. Match anche questo a dir la verità non particolarmente fortunato per la compagine di Bianchi. Drago si erge a muro invalicabile e salva i toscani in cinque occasioni con parate prodigiose. In termini di prestazione i partenopei non sembrano in crisi, ma gli episodi non li favoriscono certamente. Un vero peccato per Maradona e compagni, considerato che il Milan in quella giornata pareggia 1-1 sul campo del Torino: un successo avrebbe consentito agli azzurri di riportarsi a +5 e “annullare” la sconfitta casalinga con la Roma, ma soprattutto sarebbe stata un’iniezione di fiducia dal punto di vista psicologico in vista del rush finale.
Alla ventitreesima giornata, domenica 20 marzo, il Napoli batte nettamente il Como per 3-0, ma vince anche il Milan per 2-0 sul Pescara e tutto resta invariato in classifica. I partenopei appaiono in salute, la gara persa contro la Roma a quel punto sembra assumere le sembianze di un semplice incidente di percorso. Alla ventiquattresima giornata, il 27 marzo, mentre il Milan non riesce a passare al Partenio di Avellino (campo sul quale i rossoneri, tra l’altro, non hanno mai vinto), il Napoli dal canto suo non va oltre lo 0-0 nell’insidiosa trasferta al Comunale di Torino. Gli azzurri si presentano al cospetto dei granata senza Giordano e Carnevale, Garella è febbricitante e altri giocatori non sono in perfetta forma.
Tutto è caricato sulle spalle di Maradona e Careca. La partita è un’autentica battaglia, con le due contendenti che si fronteggiano soprattutto a centrocampo, Bagni è come suo solito un autentico gladiatore e ne esce acciaccato. A tal proposito una considerazione va rimarcata. Partite toste come queste, anche se concluse con un pari tutto sommato positivo per la graduatoria, costano molto al Napoli in termini di dispendio di energie fisiche e nervose, circostanza poi destinata a incidere notevolmente sullo sprint finale. Il vantaggio sul Milan rimane intatto, ma nonostante ciò i rossoneri ostentano una condizione atletica invidiabile, anche in virtù di una panchina più lunga, con un organico capace di permettere a Sacchi di ruotare i giocatori a sua disposizione.
Il 10 aprile, venticinquesima giornata, va in scena al San Paolo un interessante Napoli-Inter, che Maradona risolve con una delle sue prodezze. Rientra Giordano, che in qualche occasione si rende particolarmente pericoloso dalle parti di Zenga. La partita è a due facce: nel primo tempo il Pibe de oro, dato per infortunato alla vigilia, giganteggia e trascina i padroni di casa, mentre invece nella ripresa gli ospiti costruiscono 3 o 4 occasioni molto pericolose per pareggiare, senza, tuttavia, che il risultato finale cambi. Quello del secondo tempo è, comunque, un campanello d’allarme per il Napoli, apparso sulle gambe e privo di energie. Si arriva dunque alla ventiseiesima giornata di campionato con il team partenopeo che può vantare ancora quattro punti di vantaggio sull’indomito Milan.
Ma da qui ha inizio il crollo verticale degli azzurri: d’ora in avanti, in cinque partite il Napoli racimolerà un solo punto. Neanche nel 1981, dopo la sconfitta in casa con il Perugia, si era registrata una caduta di tali dimensioni ed entità. La prima sconfitta della lunga serie negativa arriva il 17 aprile sul campo della Juventus, che s’impone con un 3-1 che non ammette repliche. Letteralmente indiavolati i bianconeri, che si dimostrano superiori in ogni zona del campo e si avvantaggiano della saggia scelta tecnica di presentarsi con De Agostini nel ruolo di terzino sinistro e Cabrini in quello di ala, ruolo non nuovo al campione mondiale di Spagna ‘82. Per la verità il Napoli non manca di impegnare Tacconi in più di una circostanza, ma con esiti non positivi.
Volta le spalle alla compagine azzurra anche la dea bendata, in maniera particolare quando Carnevale, subentrato a Giordano nel corso della gara, colpisce una traversa sul punteggio di 1-0 in favore della Vecchia Signora. Napoli sfortunato e anche inquieto, con Bagni che pare non gradire la sostituzione con Filardi. Il gol di Careca, arrivato, peraltro, alla fine di un’azione sublime di Maradona, non serve agli azzurri per evitare una sconfitta che brucia e, soprattutto, consente al Milan, vittorioso con un netto 0-2 contro la Roma, di accorciare a sole due lunghezze il distacco dalla testa della graduatoria. Sette giorni più tardi, il 24 aprile, in occasione della ventisettesima giornata il Napoli è chiamato ad affrontare la seconda trasferta consecutiva e rendere visita al Verona.
In un discreto primo tempo il solito Maradona veste i panni del trascinatore e porta in vantaggio gli azzurri con un fulmineo sinistro dal limite dell’area di rigore. I partenopei hanno il torto di non riuscire a trovare la forza per raddoppiare e così, nella seconda frazione di gioco, gli scaligeri salgono in cattedra e mettono a dura prova Garella e l’intera retroguardia ospite, fino a giungere al gol del pareggio, messo a segno da Galia. Il risultato non cambia più, nonostante i tentativi del Napoli di riportarsi in vantaggio, su tutti un colpo di testa ravvicinato di Ferrara respinto da un Giuliani miracoloso. La contemporanea vittoria del Milan nel derby con l’Inter (2-0) conduce i rossoneri a un solo punto dal Napoli. Arriva il momento dello scontro diretto.
Il primo maggio il San Paolo è un’autentica bolgia. La torcida azzurra prova a trascinare i propri beniamini verso un successo che avrebbe potuto mettere una seria ipoteca sulla vittoria dello scudetto. Ma il Milan è più fresco e brillante, la prova d’orgoglio non basta a un Napoli apparso in notevole sofferenza dal punto di vista fisico. Dopo qualche buona occasione per i partenopei con Maradona e Careca, il diavolo si affaccia con maggiore insistenza nella metà campo avversaria e trova il vantaggio con Virdis, che sfrutta una dormita della retroguardia partenopea sugli sviluppi di un calcio piazzato e trova lo spiraglio giusto per infilare Garella in uscita.
Gli azzurri accusano il colpo, ma come sempre ci pensa capitan Maradona a tenere alte le speranze del popolo napoletano quando, sul finire della prima frazione di gioco, con una magistrale punizione mancina non lascia scampo a Galli e manda la sfera all’incrocio dei pali, riportando in parità la contesa a un passo dell’intervallo. Nella ripresa i rossoneri prendono il sopravvento e si riportano nuovamente avanti con il cecchino infallibile Virdis, che sigla la propria doppietta personale, per poi allungare ulteriormente e in maniera decisiva con la terze rete a opera di Van Basten. Nel finale la rete di Careca sembra ravvivare il Napoli, ma è troppo tardi.
Gli azzurri soccombono: avrebbero potuto pareggiare, perché Carnevale coglie una traversa. Ma il Milan espugna il San Paolo, che sportivamente applaude gli avversari riconoscendone i meriti e la superiorità. Ora sono i partenopei a dover inseguire la compagine rossonera a una lunghezza di distanza, quando mancano ancora due giornate al termine del campionato. Le possibilità di riappropriarsi della vetta ci sono tutte, anche perché il calendario mette subito a dura prova i lombardi, chiamati a ospitare tra le mura amiche un avversario tutt’altro che semplice come la Juventus, mentre il Napoli sarà di scena in quel di Firenze. Le speranze ci sono tutte, ma la compagine guidata da Bianchi è sulle gambe, non ha la forza fisica né quella mentale per poter rientrare in corsa.
La luce è ormai spenta, un’altra prestazione volenterosa ma sottotono degli azzurri li conduce a un’altra sconfitta contro la compagine viola (3-2), ulteriore passo falso che non consente loro di approfittare del contemporaneo pareggio a reti inviolate del Milan con la Vecchia Signora. La crisi è talmente profonda che per la formazione napoletana il congedo dal pubblico amico assume contorni sportivamente drammatici, tanto che è costretta a incassare una nuova sconfitta per opera della Sampdoria (1-2). Il Milan pareggia a Como (1-1) e festeggia il tricolore, mentre Napoli piange per essersi visto sfuggire uno scudetto-bis che sembrava ormai cosa fatta. E forse quello della stagione 1987 – 88 era il miglior Napoli di quegli anni.
Per adesso, per un utile confronto con cammino del Napoli nelle ultime 10 giornate del campionato in analisi, proviamo a ripercorrere cosa concretamente sia accaduto sia nella Juve della stagione 1975-76 La compagine piemontese, quell’anno rafforzata dall’arrivo di Marco Tardelli dal Como e di Sergio Gori dal Cagliari, anche se delusa dal mancato ingaggio di Giancarlo Antognoni, subisce la “ribellione” di Anastasi, ormai in rotta da parecchio tempo con l’allenatore Carlo Parola. Il 23 marzo 1976, mentre la Juve precedeva il Toro di 3 punti in un infinito derby della Mole giocato a distanza, il giocatore siciliano sfogava tutta la sua delusione e la sua rabbia alla stampa senza mezze misure. Nella Juventus di Boniperti l’episodio ebbe l’effetto della deflagrazione di una bomba atomica.
La Juventus, evidentemente scossa da turbolenze interne di tale portata, avrebbe perso il derby e la partita con l’Inter e poi lo scudetto senza che Parola potesse far nulla, neanche parlare, a dispetto del cognome portato. E alla fine Boniperti, con una proverbiale “piazza pulita”, avrebbe fatto a meno sia dell’allenatore, scommettendo sulla carta Trapattoni, che di Anastasi, mandato all’Inter nell’ambito dello scambio con Boninsegna.
Probabilmente le cause dei tonfi della Juve nel 1976 e del Napoli nel 1988 sono analoghe o, almeno in parte, sovrapponibili, anche se a Napoli le dinamiche e le conseguenze risulteranno più laceranti. Valutando comparativamente queste situazioni, si possono trarre delle conclusioni molto simili. Tutto ciò assumendo che è da respingere l’ipotesi, mai provata giudiziariamente, di pressioni della malavita a che il Napoli perdesse lo scudetto in quanto una sua vittoria avrebbe significato la “rovina” o, comunque, la perdita di un’ingente quantità di denaro negli ambienti delle scommesse clandestine.
È pur vero che già con lo scudetto del 1987 la camorra ci aveva rimesso non pochi soldi, dato il notevole aumento del volume di giocate clandestine registrate sul Napoli vincente, a tal punto che in occasione del campionato successivo le puntate sullo scudetto-bis degli azzurri si erano addirittura triplicate. E ciò avrebbe indotto la malavita organizzata a entrare a gamba tesa per frenare una fuoriuscita di soldi ben più pesante di quella accusata l’anno prima. Ad alimentare quest’ipotesi le dichiarazioni di un pentito di camorra, tal Pugliese, mai confermate da riscontri oggettivi o da propalazioni provenienti da altri personaggi coinvolti nella vicenda né da prove consacrate secondo i crismi di un processo penale a carico di chicchessia. Non si ha alcuna prova che alcunché di losco tale da influenzare i giocatori del Napoli si sia verificato nella vicenda de quo.
Un’asserzione del genere non è neanche seriamente proponibile, rimanendo rinchiusa nel perimetro delle classiche chiacchiere da bar, dove si possono immaginare complotti ed elaborare dietrologie per quanto se ne voglia. La realtà storica dei fatti è stata ricostruita attraverso le testimonianze dei diretti interessati e le inchieste condotte dalla Procura di Napoli e dagli organi inquirenti della Figc. Ad avviare l’indagine sul fronte della giustizia ordinaria, con l’apertura di un fascicolo sulla vicenda, è il giudice istruttore Bruno D’Urso, magistrato estremamente esperto e navigato, già conoscitore delle dinamiche del malaffare locale oltre che grande intenditore di calcio.
Egli non perde tempo, vuole vederci chiaro nella vicenda. Interroga coloro che vengono individuati come i protagonisti della stessa. E lo fa nelle abitazioni private dei calciatori, in quel periodo sottoposti a uno stress senza precedenti anche per un clamoroso ammutinamento sorto all’interno dello spogliatoio azzurro nei confronti dell’allenatore Ottavio Bianchi. Sente naturalmente il capitano della squadra, Diego Armando Maradona, così come i senatori Bagni e Garella, due dei firmatari della storica lettera di “sfiducia” indirizzata al tecnico bresciano, ma anche Beppe Bruscolotti, memoria storica della compagine partenopea.
Dalle conversazioni non emerge alcun elemento degno di nota, nessun profilo di rilievo penalistico viene fuori dalle deposizioni dei calciatori. Anzi il compianto e indimenticato Garella spazza il campo da qualsivoglia equivoco, affermando categoricamente che, se avesse subito pressioni dalla camorra, il giorno dopo avrebbe preso i suoi familiari e se ne sarebbe tornato al suo “paesello”. Parole chiare e inequivocabili quelle del portierone azzurro: “Non sono venuto qui a fare l’eroe”.
Ma la domanda sorge comunque spontanea. Com’è stato possibile allora che gli azzurri abbiano perso quello scudetto apparso ormai già vinto? Nel Napoli dello scudetto mancato del 1988 una certa frattura fra qualche giocatore e Bianchi deve con ogni probabilità essersi prodotta e già ben prima della primavera del medesimo anno, se è vero che dopo la partita disputata ad Ascoli del 17 maggio 1987, l’ultima del campionato precedente, per giunta in un clima di grande euforia collettiva per la conquista del primo scudetto, proprio l’allenatore era stato accolto al ritorno negli spogliatoi con un eloquente “Te ne vai o no, te ne vai, sì o no”.
Una sorta di presagio rispetto a quello che sarebbe accaduto qualche tempo dopo, ma sicuramente anche una spia di iniziale malcontento manifestato dalla squadra nei riguardi della gestione del tecnico bresciano. Sta di fatto che quattro giorni dopo la sconfitta patita a Firenze l’8 maggio 1988, arrivata dopo quella cocente nello scontro diretto con il Milan al San Paolo, Garella legge un comunicato sottoscritto da tutti i giocatori, fatta eccezione di Maradona, che pare fosse in quel frangente a godersi la splendida isola di Capri e il suo meraviglioso mare: “Premesso che siamo professionisti seri e che nessuno questo può negarlo – recita la missiva che motiva l’ammutinamento – A seguito a seguito della situazione che si è venuta a creare, noi riteniamo giusto chiarire la nostra posizione.
La squadra è sempre stata unita e l’unico problema è il rapporto mai esistito con l’allenatore, soprattutto nei momenti complicati in cui la squadra ne aveva bisogno. Nonostante questo gravissimo problema, la squadra ha risposto sul campo sempre con la massima professionalità. Di questo problema la società era stata preventivamente avvertita”. Quel documento letto prima nell’intimità dell’antico spogliatoio e subito dopo – urbi et orbi – davanti alle telecamere dei cronisti nasceva dall’esigenza, sacrosanta e inviolabile, di respingere accuse ingiuste e infamanti, ma a qualcuno è sembrato un maldestro tentativo di scaricare sull’allenatore tutte le colpe d’uno scudetto praticamente già vinto e poi, invece, regalato allo spettacolare Milan di Sacchi a tre giornate dalla fine.
Poi a cosa si voleva fa riferimento con l’espressione “…”nei momenti complicati”?…: Erano, forse, quelli delle accuse, degli improperi, delle minacce, della paura, persino, di andare al bar a prendere un caffè? Le solite proverbiali voci di popolo avevano ormai preso il sopravvento: “Hanno venduto lo scudetto alla camorra che gestisce le scommesse clandestine. L’avesse vinto il Napoli, infatti, sarebbe inevitabilmente saltato il banco della malavita organizzata, per questo dopo un campionato dominato si sono fatti battere dalla Samp, dalla Fiorentina e soprattutto dal Milan a Fuorigrotta”. Questa l’accusa, l‘infamia, la bugia che metteva anche fisicamente in pericolo una squadra fino a quel momento osannata. Perché Napoli è così, vive di eccessi e poco di equilibrio, è notoriamente umorale.
Per lei oggi sei il migliore di tutti e diventi un mito, domani il peggiore se la fai sentire tradita. Nel giro di una o due settimane, infatti, gli eroi azzurri del pallone si erano ritrovati di colpo a non poter uscire più di casa. Perché, si sa, la bugia impiega niente a diventare verità. E anche se non era vero niente, quella squadra restò isolata nelle proprie paure, nella propria impotenza rispetto a quell’onda sportivo-giustizialista che la stava travolgendo così come una barca in balìa delle onde del mare in tempesta. Da qui, secondo qualche esperto di “cose napoletane” dell’epoca, il possibile errore di provare a scaricare sull’allenatore e solo su di lui tutte le responsabilità di quello scudetto smarrito appena dopo la cavalcata da campioni dell’anno precedente. Quello del primo, storico scudetto.
Bianchi tace, ma le polemiche in città e sui giornali impazzano. Mai si era vista una mozione di sfiducia nei confronti di un allenatore in maniera così plateale. La società risponde a sua volta con una presa di posizione ufficiale altrettanto dura che così suona: “La SSC Napoli, innanzi al comunicato firmato dai calciatori, non può che rammaricarsi di fronte all’inopportunità di quanto affermato, ricordando che il campionato non è ancora concluso e va condotto fino in fondo con professionalità e agonismo nel rispetto del proprio pubblico e della maglia di campioni d’Italia. Il Napoli invita i propri calciatori, protagonisti comunque di una stagione prestigiosa, a una serena riflessione, mentre ribadisce la fiducia nel proprio allenatore”. A Soccavo i tifosi contestano con forza i giocatori.
Due giorni più tardi De Napoli legge un altro comunicato: “Dopo un’attenta e concorde riflessione, ci siamo resi conto di aver espresso in maniera non chiara e in modi e in tempi non giusti l’amarezza per gli ultimi risultati conseguiti in campionato. Di ciò chiediamo scusa alla società e ai tifosi”. Il club non gradisce affatto, per Ferlaino e Moggi i giocatori si sono arrogati diritti a loro non spettanti, a maggior ragione con riferimento alla questione riguardante l’adeguatezza o meno dell’allenatore in carica a guidare la squadra, tema sul quale solo e soltanto la dirigenza è ritenuta avere voce in capitolo. E il presidente ritiene che Bianchi sia tecnico competente e persona seria, tanto che il 22 maggio lo conferma con un nuovo contratto biennale (avrebbe allenato i partenopei ancora per un solo anno).
Vengono identificati in Garella, Ferrario, Bagni e Giordano i capi e animatori della fronda, tanto che vengono messi fuori rosa e venduti. Per la società “i ribelli” hanno sbagliato, e come tali sono soggetti a punizione. Alla fine a pagare per tutti sono soltanto loro quattro. Una soluzione di comodo, per certi aspetti, perché la firma apposta in calce a quel famoso documento in fondo l’avevano apposta dal primo all’ultimo uomo dello spogliatoio azzurro. L’ammutinamento aveva coinvolto tutti, senza alcuna eccezione, a quanto pare. La sensazione è che i vertici dirigenziali del club partenopeo avessero voluto colpire in quella circostanza chi fosse “più vulnerabile”, magari secondo criteri legati all’età dei giocatori e, perché no, anche in virtù di considerazioni legate ad aspetti più squisitamente economici e contrattuali.
Del resto, lo stesso Bagni aveva accusato costanti e fastidiosi problemi al ginocchio nel corso della stagione, acuitisi poi in maniera esponenziale nel frangente decisivo per le sorti del campionato. E, d’altronde, su questo aspetto l’ex mediano azzurro era apparso piuttosto intransigente già all’indomani dell’epurazione, in un’intervista rilasciata al giornale La Repubblica il 17 maggio 1988: “Certo non abbiamo sbagliato. L’errore mio è di giocare fino alla fine con dodici infiltrazioni; l’errore di Ferrario è stato di fare il suo dovere per 11 anni; l’errore di Giordano è stato quello di fare un grande campionato; quello di Garella di aver disputato il miglior campionato della sua carriera”. Bagni ribadisce l’assoluta partecipazione di tutto il gruppo squadra e la sua indiscutibile compattezza anche in una situazione così complessa.
Bagni prova a spiegare ancora una volta le ragioni del crollo vertiginoso accusato nella parte finale del campionato: “La realtà è che siamo scoppiati ed è questa l’unica giustificazione del perché abbiamo perso lo scudetto. Abbiamo fatto 42 punti come l’anno scorso: con il Verona, il Milan, la Fiorentina siamo sempre crollati alla distanza. E lo stesso è accaduto con la Sampdoria, eppure noi quattro non c’eravamo. Non abbiamo mai avuto paura di perdere lo scudetto, neanche quando avevamo un punto solo di vantaggio, tanto, pensavamo al fatto che il Milan dovesse venire da noi. A Firenze abbiamo preso due gol in contropiede, questa è la prova che ci credevamo ancora”. Ritorna poi sul suo rapporto personale con l’allenatore: “Hanno detto che prima di Napoli-Milan mi sarei scagliato su Bianchi perché non mi voleva far giocare.
La prova che è tutto falso è che il mister mi ha messo su Evani, il più veloce di loro. E quando nell’intervallo ho chiesto di uscire, Bianchi mi ha detto: “Non possiamo dare questo vantaggio all’avversario”. Con lui il rapporto, nei tre anni, è andato sempre più deteriorandosi, all’inizio non era così, poi ci siamo conosciuti. Di noi si dicevano certe cose prima del comunicato; nessuno ci ha difeso quando Bianchi, dopo la partita con il Verona, ha detto di avere ormai solo un grande Maradona, ma non un grande Napoli. Un’offesa gravissima per chi ha lavorato sempre: c’è chi poteva dare zero, chi uno e chi niente.
E siamo rimasti solo noi, quattro Masaniello, prima leader e poi ammazzati. Adesso andremo via in tanti, si torna ai tempi quando il Napoli cambiava sei-sette giocatori a stagione. È andato via Krol, figuratevi noi”. Il mediano di Correggio rivendica ciò che ha fatto in carriera e racconta alcuni retroscena sulle ultime vicende, con un certo disappunto e una palpabile e in quel momento comprensibile delusione per il trattamento subito a opera di parte della tifoseria: “Domenica è stata la prima volta che in 13 anni non sono andato in campo per squalifica o per infortunio: sono andato a pranzo con Giordano e con Ferrario, la gente ci guardava male, ma non hanno detto niente, il coraggio non è di molti. Poi però ci hanno sfregiato la macchina. La società giovedì ha fatto le consultazioni in maniera tale da indicarci alla folla: poi Moggi si è scusato.
Ma nessuno ha trascinato nessuno a fare cose che non voleva fare. La cosa più incredibile è che adesso Bianchi è diventato un martire. Qui da signori siamo venuti e da signori ce ne andremo. Il calcio non è certo finito a Napoli”. A questo punto, per cercare di tirare fuori la verità non vi è strada migliore che tener conto di quanto raccontato a distanza di anni dai diretti protagonisti di quel grande Napoli, magari a bocce ferme e a mente fredda, lontano dall’emotività del momento. Ebbene, l’ex mediano del Napoli, in alcune interviste rilasciate dopo oltre 30 anni dai fatti in questione, ha sempre confermato come tutto fosse riconducibile al difficile rapporto del gruppo-squadra con l’allenatore e, soprattutto, alla precaria condizione atletica di giocatori arrivati praticamente scoppiati e privi di energie psico-fisiche nella parte decisiva del campionato.
Lo fa anche nel libro autobiografico “Il guerriero”, scritto a quattro mani insieme al suo amico psichiatra partenopeo Ignazio Senatore e presentato presso il PAN il 16 maggio 2019, nel quale ritorna sui retroscena relativi allo scudetto perso nel 1988: “La camorra non fece pressioni affinché il Napoli perdesse lo scudetto evitando di rovinare gli affari del totonero. Molti napoletani hanno un’idea fissa su quello scudetto perso. Sono convinti che la camorra non avesse ritenuto possibile che il Napoli vincesse per il secondo anno consecutivo e si fosse comportata di conseguenza nella gestione delle scommesse clandestine.
Molti pensano che alla camorra sarebbe saltato il banco se il Napoli fosse arrivato nuovamente primo. Dicevano che non avrebbero mai fatto vincere quel campionato al Napoli. La realtà è che abbiamo commesso un errore, abbiamo pensato troppo a Ottavio Bianchi. Eravamo una squadra molto unita e nelle ultime gare ci siamo ritrovati a corto di energie. Eravamo morti, non stavamo più in piedi”. A distanza di tempo anche il patron dell’epoca, Corrado Ferlaino, in un’intervista rilasciata al Corriere dello Sport il 15 gennaio 2019 si è soffermato su quella vicenda: “Si dicevano tante cose in quei mesi, e il Milan non c’entra. Il fenomeno delle scommesse clandestine era napoletano, gestito da una famiglia che circuiva alcuni calciatori, tra cui Diego, fotografato nella vasca di casa, mi pare, di uno degli esponenti di quel clan”.
L’ingegnere partenopeo evita di fare nomi, ma rivela anche alcuni interessanti retroscena in ordine alle azioni preventive escogitate dalla società per ostacolare e stroncare sul nascere qualsiasi tipo di movimento ambiguo: “L’anno dopo andai alla Polizia, mi venne suggerita un’agenzia di investigazioni, li interpellai, mi avvisavano sulle dinamiche delle quote, sulle gare in cui improvvisamente si verificavano strane impennate. E io per prevenire e fronteggiare queste situazioni triplicavo i premi partita”. Ferlaino giura sull’assoluta buona fede e sulla professionalità dei suoi giocatori, non nascondendo ancora tutta la propria amarezza e i rimpianti per essersi visto sfuggire il secondo tricolore consecutivo: “… Sulla onestà dei ragazzi non ho dubbi, però sapesse il dolore per aver lasciato quello scudetto al Milan”.
Così come sulla vicenda è tornato più di recente su un’emittente televisiva partenopea, a distanza di quasi 35 anni dai fatti ed alla vigilia di quello che sarebbe stato il terzo scudetto della storia del Napoli, anche il bomber Antonio Careca. E proprio come chi l’ha preceduto davanti ai taccuini l’indimenticato bomber brasiliano, 73 reti in maglia azzurra, ha confermato le ragioni della disfatta partenopea della primavera del 1988: “Si sono dette tantissime cose su questa storia, ma anche tante cavolate. La verità è che siamo letteralmente crollati dal punto di vista fisico. Non avendo una panchina lunga, abbiamo pagato a caro prezzo il tremendo sforzo fatto nei mesi precedenti, in cui abbiamo tenuto una media punti incredibile”.
Il centravanti di Campina si sofferma sul duello con il Milan: “Nel momento cruciale del campionato i rossoneri andavano forte come un treno, correvano a una velocità doppia rispetto alla nostra. E’ stato un vero peccato non portare a termine la nostra missione a un passo dal traguardo, ancora oggi sono profondamente dispiaciuto per quanto accaduto in quella fase. Ma, ripeto, si è trattato soltanto di un crollo fisico, nulla di ciò che si è detto in giro”.
Sulla stessa lunghezza d’onda delle parole del bomber brasiliano, le ultime in ordine temporale sono state quelle di Massimo Filardi su quella vicenda: “Quel comunicato letto pubblicamente contro Bianchi fu un errore clamoroso da parte nostra, tant’è che alla fine facemmo un solo punto in cinque partite. In quel momento di bufera, però, ci mancava il supporto della società, nonostante le nostre sollecitazioni”.
Un apprezzabile mea culpa quello dell’ex terzino del Napoli, ma anche un doveroso slancio rabbioso per il mancato intervento tempestivo e risolutore da parte dei vertici del club, che con una gestione diversa della vicenda, in un momento cruciale del campionato, forse avrebbero potuto determinare un epilogo diverso in quella stagione. Ebbene, dopo oltre trent’anni la ricostruzione può finalmente essere fedele e può restituire l’onore a quella squadra che sbagliò, certo, a firmare quell’atto d’accusa contro Bianchi, ma che tutt’era tranne che imbrogliona o peggio ancora.
Del resto, il calo si era palesato in maniera piuttosto evidente proprio nello scontro diretto con il Milan, con Van Basten e compagni giunti all’appuntamento decisivo del campionato in condizione atletica smagliante e con una situazione psicologica certamente migliore di quella degli azzurri, arrivati sfiniti al termine di una stagione fino a quel punto praticamente dominata, a tal punto che la proiezione della media punti raccolti fino alla ventesima giornata li avrebbe condotti a battere il record assoluto nella storia del campionato italiano. Sotto accusa la scelta societaria di non aver rimpinguato la rosa con un numero di giocatori tale da poter consentire ai titolari di tirare il fiato nei momenti di appannamento sotto il profilo fisico.
Ci si potrebbe chiedere, a questo punto, per quale ragione, dopo aver vinto lo scudetto nel 1987, la dirigenza partenopea avesse deciso di rinunciare al prezioso apporto di giocatori partenopei doc come Carannante, Caffarelli, Volpecina o Celestini, risultati invece fondamentali nelle dinamiche di spogliatoio e di campo caratterizzanti la stagione del primo titolo. Così come forse avrebbe potuto fare comodo anche un difensore esperto e attaccato alla piazza napoletana come Raimondo Marino, tra l’altro andato via l’anno prima in quanto non proprio in sintonia con Bianchi.
A condizionare la dirigenza azzurra in queste scelte, ovviamente, motivi di carattere finanziario, dato il già rilevante livello complessivo di ingaggi raggiunto per rafforzare l’undici titolare. Quindi, da un lato si può che il Napoli a un certo punto non è più riuscito ha difendere lo scudetto conquistato l’anno prima. Il titolo, però, non lo si dimentichi o non se ne sminuisca il valore, soffermandosi sulle incredibili vicissitudini dei partenopei, lo vince il Milan. I rossoneri hanno grandi meriti “contingenti”. In più hanno iniziato la scalata al fine di divenire non solo una grande squadra in Italia, ma anche quella più capace di brillare di luce pura nel firmamento calcistico mondiale, dettando legge.
Perché il suo ambiziosissimo patron Berlusconi vuole condurre la squadra per cui tifa sulla vetta del mondo calcistico. Vuole riuscirci nel giro di pochi anni dall’acquisizione della medesima: per questo ha condotto una campagna acquisti favolosa. Ai piedi della Madonnina sono arrivati calciatori di enorme spessore internazionale come Gullit e Van Basten. I rossoneri presero anche l’ottimo Ancelotti dalla Roma, che abbisogna di soldi. L’eccellente Colombo dall’Udinese. L’emergente Costacurta dal Monza oltre a Mussi e Bortolazzi, con questi ultimi che seguono il tecnico Sacchi dal Parma. I primi due sono primi attori della fortissima nazionale olandese, che l’anno dopo vincerà, peraltro, il campionato europeo di Germania ’88.
Gullit proviene dal PSV Eindhoven per la cifra di 11 miliardi di lire a seguito di una serrata trattativa sapientemente condotta dalla dirigenza milanista. Il “cigno di Amsterdam”, invece, approda in casacca rossonera non a seguito di una vera e propria negoziazione con l’Ajax. I rossoneri pagarono un miliardo e 750 milioni di lire, importo fissato in base a parametri UEFA.
Van Basten ha fama di attaccante eccezionale e per lui parla il curriculum. L’olandese può vantare già tre campionati e altrettante Coppe nazionali vinte con i lancieri. Con l’Ajax conquistò anche la Coppa delle Coppe. Quindi, non gli ultimi arrivati. Ancelotti, dato da qualcuno in declino per i troppi infortuni patiti alla Roma. Un giudizio forse frettoloso e la sua cessione fu inopportuna visto che stupirà per anni e anni ancora. Colombo che correva a non finire per i compagni. Sacchi lo definiva, in proporzione alle esigenze tattiche della squadra, addirittura più importante di quanto lo fosse Maradona per il Napoli.
A parte questi arrivi, quel Milan già disponeva di: Giovanni Galli, Tassotti, Franco Baresi. L’unico ad aver vinto il precedente scudetto rossonero nove anni prima con Liedholm e Rivera. In più c’erano Filippo Galli, Maldini, Evani, Virdis, Donadoni. Il Milan è una bomba a orologeria ad alto potenziale. Una squadra atomica e lo dimostrerà una volta passate le prime giornate di assestamento. C’erano stati dei passaggi a vuoto ma necessari per metabolizzare i rivoluzionari principi di gioco e la nuova zona di Arrigo Sacchi. Quest’ultima più aggressiva rispetto a quella di Liedholm. Sacchi in Italia rivoluziona il calcio. E una volta ingranata la marcia giusta, il Milan diventa quasi inarrestabile e dà spettacolo. Per giunta per sei mesi non può disporre di Van Basten, infortunato.
Lo scudetto è una logica conclusione di una programmazione forse mai pensata in Italia in termini così alti e dettagliati. Si potrebbe dire anche “scientifici” in senso lato (per certi versi.) Il Milan di Berlusconi ha fatto anche “scuola” nella storia del calcio italiano. I rossoneri avevano assunto stigmate sempre più “aziendalistiche”, con l’abbandono definitivo, almeno riguardo alle squadre di vertice, di vecchie consuetudini ancora di altri tempi. La capacità finanziarie non mancavano. Da sole, però, non avrebbero creato simile meraviglia. Erano necessarie anche razionalità, creatività, e un pizzico di buona “follia” nell’immaginare traguardi sempre più lontani e prestigiosi. Quel Milan non mancava di nulla.
GLIEROIDELCALCIO.COM (Francesco Zagami)