Storie di Calcio
28 maggio 1989: lo scudetto dei record dell’Inter di Trapattoni
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Lo Scudetto dei record dell’Inter di Trapattoni
Tre anni aveva impiegato Herrera per raggiungere la meta dello scudetto con l’Inter. E sempre tre stagioni ha dovuto attendere Giovanni Trapattoni per assaporare la medesima gioia con i nerazzurri milanesi, dopo i 6 allori nazionali collezionati in 10 anni di guida della Juventus. Dopo che gli anni ottanta si erano aperti con la conquista di un titolo (non eccezionale, vero, ma ben costruito, ineccepibile e meritato), i nerazzurri sarebbero andati incontro ad anni dalle dinamiche e dagli esiti altalenanti, ma il più delle volte con l’amaro in bocca e con tanti rimpianti e qualche recriminazione. L’Inter mancava di continuità e non di rado fra la diciottesima e la ventitreesima giornata, grosso modo, abbandona i sogni scudetto.
Viene finalmente assunto, per la stagione 1986 – 87, Giovanni Trapattoni come allenatore con cui il presidente interista Pellegrini ha costruito un buon feeling umano a Villar Perosa, dove antecedentemente la Juve, per anni sotto la guida del Trap, andava in ritiro e dove l’albergo che ospitava i bianconeri era di proprietà di una società del patron nerazzurro che con il tecnico pluri-scudettato di Cusano Milanino poteva intendersi in milanese. E dopo dieci anni e sei scudetti, di cui 4 posteriormente a estenuante volata, vinti con la Juve, Trapattoni passa all’Inter. Lo stesso programma una vittoria di un trofeo importante nel giro di tre anni.
Il parco giocatori interista viene ritoccato fondamentalmente con 4 innesti: Matteoli dal Como (acquisto azzeccatissimo, il calciatore nuorese sarà basilare nel corso della stagione dello scudetto), il libero Passerella, l’attaccante Garlini e il mediano Piraccini. La formazione è di alto livello, ma anche le altre si sono rafforzate, in particolare il Napoli e il Milan, che da febbraio 1986 è nelle mani di Berlusconi. Riguardo al primo, Allodi l’anno prima aveva detto che il Napoli voleva vincere il titolo entro 3 anni, per quel che afferisce il secondo, l’ambizione del nuovo patron rossonero è quella di issare il Milan sul tetto del mondo.
Il Napoli indovina la campagna acquisti con De Napoli, Carnevale e Romano, che si uniscono ai vari Maradona, Giordano, Ferrara, Renica, Garella ecc. . Il Milan acquistando gente come Donadoni, Galli e Massaro, fra gli altri, fa notevoli passi avanti in fatto di valore tecnico. Il campionato vedrà il duello scudetto fra Napoli e Inter, che si concluderà a favore del primo. La squadra partenopea è premiata dalla propria regolarità. L’Inter paga gli infortuni di Rummenigge e 3 sconfitte consecutive fra la diciannovesima e la ventunesima giornata con Roma nella capitale, nel derby casalingo (per questo la battuta d’arresto brucia di più) e in casa Samp. Ma le squadre di Trapattoni notoriamente non si arrendono e l’Inter si rilancia battendo Juve e Napoli. Approfittando della sconfitta dei partenopei, a 4 giornate dal termine l’Inter è a due soli punti dagli stessi.
A quel punto aspettative e speranze in casa interista erano tante: si poteva fare aggio sulla circostanza che il Napoli aveva, dati storico-calcistici alla mano, meno esperienza dei milanesi in fatto di sprint scudetto, materia nella quale, viceversa il Trap personalmente poteva assumere la cattedra universitaria. Ma poi era proprio la truppa di Trapattoni che pagava gli sforzi di una stagione tesa, perdendo ad Ascoli. L’Inter alla fine si appoggia anche al giovane Ciocci per cercare di non gettare la spugna, oltre non si può andare e i nerazzurri finiscono terzi con 38 punti (gli stessi dei terzi posti del 1983 e del 1985) preceduti di un punto dalla Juve, come 4 anni prima. Ma la stagione non è da considerare negativa. Con queste premesse e con qualche ritocco, si pensava che la stagione 1987 – 88 potesse essere quella buona per lo scudetto. E i ritocchi vi erano.
Uno era Salvatore Nobile, che veniva dal Lecce, terzino sinistro. Forse Trapattoni lo riteneva il nuovo Cabrini, come probabilmente stimava che Ciocci potesse diventare il nuovo Paolo Rossi. L’altra novità, questa unanimemente valutata più pregiata rispetto alle precedenti poc’anzi accennate, è Vincenzo Scifo, belga di origine italiana. Segnalatosi nel corso degli Europei del 1984, viene additato come il nuovo Rivera. Infine, viene riacquistato Aldo Serena, che prende il posto di Rummenigge, che chiude la sua avventura italiana. Probabilmente “Kalle” è arrivato nel nostro Paese in un frangente nel quale era già iniziata la sua parabola discendente, benché ancora “non anziano”, per causa di vari problemi fisici, e non ha potuto esprimere tutte le sue potenzialità devastanti. Ma chi si rafforza in maniera sontuosa è il Milan, che rileva Gullit, Van Basten, Ancelotti e Colombo, costituendo una delle migliori formazioni in assoluto di sempre.
L’ottimo Napoli scudettato aggiunge alla sua bella squadra Careca e Francini. Si avrà un duello tra Napoli e Milan. Fino a due terzi di campionato si impone il primo che viaggia a una media superiore anche a quella della Juventus dei record del ’77. Poi il Napoli per varie ragioni non riesce a tenere il ritmo e per certi versi implode.
Ne approfitta un gran Milan che vince il titolo. Per l’Inter la stagione è negativa. Perde la prima di campionato in casa contro il Pescara per 0 a 2, perde tutte i due i derby, Scifo e Matteoli sono incompatibili a centrocampo come lo erano a loro tempo Beccalossi e Muller. I nerazzurri finiscono quinti a 32 punti, esattamente quanti ne avevano accumulato nell’altrettanta deludente stagione 1985 – 86. Si alza qualche mugugno nei confronti di Trapattoni. A questo punto non ci sono alternative: il prossimo campionato egli è chiamato a gran voce a vincerlo, altrimenti rischia di saltare.
Difficilmente Pellegrini avrebbe confermato il Trap se alla terza stagione in nerazzurro non avesse vinto qualcosa di rilevante. Nell’estate 1988 si studiano attentamente le soluzioni migliori per rendere l’Inter realmente competitiva. Intanto, è da dire che il livello del confronto fra le squadre di “A” si andava elevando in quegli ultimi anni in maniera vertiginosa, e questo a partire dall’entrata nel mondo del calcio di Berlusconi, grazie al quale il Milan diventava sempre più forte.
Quello italiano era diventato il campionato più bello del mondo e lo sarebbe rimasto per diversi anni. I rossoneri in quegli anni, volendo tacere calciatori comunque di una certa levatura, ma i cui anni in rossonero non sarebbero stati i loro migliori – si considerino per esempio Galderisi o Bonetti – avevano ingaggiato gente che portavano i nomi di Donadoni, Giovanni Galli, Gullit, Van Basten, Ancelotti, Angelo Colombo, Rijkaard, per dirne alcuni, i quali si aggiungevano a Franco Baresi, Maldini, Tassotti, Costacurta, Evani, Filippo Galli o Virdis.
Questi giocatori venivano particolarmente valorizzati dal gioco a zona di Sacchi, che rendeva il Milan devastante. Oltre al Milan, vi era il Napoli, che poteva contare, riferendosi alla stagione 1988 – 89, su Giuliani, Ferrara, Francini, Corradini Alemao, Renica, Fusi, Crippa, De Napoli, Carnevale, Careca, Francesco Romano o Maradona. In quegli anni era sulla cresta dell’onda anche la Sampdoria di Vialli e Mancini. La squadra blucerchiata ogni anno che passava diveniva sempre migliore e poteva contare su elementi come Pagliuca, Mannini, Pari, Vierchowod, Cerezo, Dossena, Lanna o Salsano. Da tenere d’occhio anche la Roma, rivitalizzata nella stagione precedente da Liedholm, per la terza volta nella panchina giallorossa, e terza nella classifica finale.
Una squadra che annoverava Tancredi, Tempestilli, Nela, Manfredonia, Oddi, Conti, Desideri, Giannini, Gerolin, Voeller a cui si aggiungevano Massaro (che sarebbe dovuto andare alla Lazio, ma che optava per la Roma), in prestito dal Milan, ma il cui rendimento non sarebbe stato elevato per una serie di problemi fisici, Rizzitelli in arrivo dal Cesena, preso per una somma equivalente, tra cash sborsato e giocatori dati in comproprietà o in prestito, a 12 miliardi di lire, battendo la concorrenza di Juventus e Napoli, disposte anch’esse a svenarsi per assicurarsi le prestazioni del giocatore, lo stopper Ferrario, proveniente dal Napoli, che lo aveva messo fuori rosa dopo la questione del comunicato stampa dei giocatori azzurri contro l’allenatore Bianchi nelle ultime settimane del campionato precedente, e i brasiliani Renato Portaluppi e Andrade.
Per il primo il presidente Viola stravede, considerandolo un fenomeno che avrebbe potuto recare al gioco dei giallorossi fantasia e bellezza; riguardo al secondo Liedholm vorrebbe farne un nuovo Falcao, ovvero un regista a tutto campo. Si dovranno ricredere ambedue, perché Renato, seppur dotato di dribbling ubriacante e sebbene in alcune giornate irresistibile, dimostra problemi tattici e non manca di dimostrare predilezione per il divertimento fuori dal campo. Così il tridente con Rizzitelli e Voeller, che il presidente, indovinando, si rifiuta di cedere dopo il primo anno tribolato del tedesco, per causa di problemi fisici, non riesce.
Peraltro, Portaluppi non sarebbe dovuto arrivare a Roma; la stessa nel 1987 aveva “prenotato” Caniggia, che poi non vestì giallorosso perché la società capitolina pagò in ritardo la prima rata del pagamento previsto e saltò tutto. Andrade non appare adatto al calcio italiano e per giunta, per fargli posto, bisogna sacrificare Berggreen. Ma Renato è molto individualista e si impelaga, è il caso di dirlo, spesso in serie di dribbling magari belli da vedere, se decontestualizzati dal tutto, ma che nella cornice del campionato italiano, con i difensori italiani (i quali non sono quelli brasiliani, come sappiamo) che con i loro arcigni e decisi interventi prima o poi mandano all’aria tutto, e con i giallorossi che, in definitiva, perdono occasioni su occasioni che, con atteggiamenti più altruistici e di buon senso da parte dell’attaccante brasiliano, si sarebbero potuti trasformare in gol, se il compagno di turno smarcato fosse stato servito.
Per di più Renato, con una certa impertinenza, giudica i propri compagni e compila pagelle che poi, inopportunamente, presenta a Viola: la squadra ne risulta minata, quando non sfilacciata o a pezzi. Chiaro che il tridente a queste condizioni non è proponibile, con la Roma che gioca meglio con altri giocatori. E, come se tutto il resto non bastasse, la Roma difetta nella difesa centrale con Collovati e Signorini che vengono considerati “lenti”.
Così, a inizio girone di ritorno Liedholm viene mandato via, per essere riassunto alcune settimane dopo. Da non sottovalutare, d’altronde, la Juve, affidata a Dino Zoff.
I bianconeri confermano Tacconi, Favero, Brio, Tricella, Laudrup, Bruno, Cabrini, Mauro o Buso, a cui aggiungono Galia (ancora un altro giocatore del Verona viene “saccheggiato” dalle “grandi” del calcio italiano, e, malgrado tutto, la società gialloblù si conferma sempre in “A” e si regala quando capita, grosse soddisfazioni, come in occasione del quarto posto nel 1987, grazie alla capacità di Bagnoli di trovare nuovi giocatori o “scarti” di altre compagini e farli giostrare, valorizzandoli particolarmente e opportunamente, nel contesto del suo gioco all’italiana misto a zona, con un difensivismo d’attacco sempre originale e sempre produttivo e fonte di soddisfazioni), Marocchi, transitato dal Bologna, e Altobelli, che, dopo 11 anni di Inter, preferisce cambiare casacca, avendo avuto screzi con Trapattoni, a fronte di cui la società nerazzurra non riesce più a ricucire il rapporto, nonostante la promessa di Pellegrini a “Spillo” di farne prossimo dirigente societario.
Infatti, la società milanese aveva in programma, alla lunga, di mantenere nell’alveo societario Altobelli, però questi forse non tollerava alcune scelte di Trapattoni, disposto, ormai, a concedere spazio a giovani come Ciocci. Oltre, i due stranieri nuovi: Rui Barros, portoghese, e Zavarov, russo, da cui la dirigenza bianconera auspica fantasia e gol. Una menzione anche per Fiorentina, con Baggio e Borgonovo, e per la neopromossa Atalanta con Stromberg, Evair, Madonna.
E ora l’Inter che, preso atto che sulla propria strada le pietre d’inciampo della diretta concorrenza si erano fatti macigni massicci, doveva valutare attentamente quali fossero le certezze e quali le carenze o i vuoti da riempire. Ma la volontà di cambiare pagina e di costituire una grande squadra era certa, specie dopo la sconfitta, pesante e umiliante, nell’ultimo derby della stagione 1987 – 88. Certo, gente come Zenga, Bergomi, Ferri, Baresi (unico giocatore della che aveva vinto l’ultimo scudetto interista, risalente al 1981) si potevano considerare intoccabili, come una certezza acquisita era ormai Mandorlini: se il nome poteva non deliziare certi palati fini, la sostanza era a prova di bomba e l’esperienza ormai era tanta. Semmai, quello su cui si poteva discettare era il ruolo da affidare al giocatore. Felice sarà l’intuizione di Trapattoni di farne un libero.
Il giocatore era adattabile e negli anni precedenti aveva dato prova di una certa poliedricità nel contesto difensivo. In attacco come ala sinistra Serena non dava adito a discussioni: al più, il dubbio poteva nascere circa chi potesse essere il suo partner più congeniale. Matteoli era stato confermato, ma inizialmente non gli era data per scontata la maglia da titolare, alla luce di quanto successo l’anno precedente, su cui il giocatore poteva dire e ribadire che se non si erano ottenuti certi riscontri, ciò non era stato per causa sua, avendoci, peraltro, perso il posto in nazionale.
Oltre, bisognava andare alla ricerca. Era necessario trovare gli interni di centrocampo, era d’uopo trovare l’ala destra (Fanna non era ritenuto titolare come nel Verona di Bagnoli, semmai avrebbe fatto da rincalzo come nelle Juve trapattoniane di inizio anni ’80), stringeva trovare il regista, se si fosse ipotizzato che Matteoli non potesse sostenere quella funzione.
Trapattoni richiese alcuni nomi e la dirigenza lo assecondava. Anche seguendo il consiglio di Rummenigge, per il centrocampo veniva preso Lothar Matthaeus dal Bayern Monaco. Un giocatore devastante per forza e prodigioso per tecnica. Piccolo, ma compatto come Maradona e muscoloso come Rummenigge, era capace di scatti e di percussioni che lasciavano il segno. Un gran giocatore, carismatico: già faceva parte, a meno di 20 anni, della comitiva tedesca che vinse l’Europeo in Italia nel 1980. Questo scritto tratta l’Inter del record 1988 – 89. E Matthaeus è un giocatore da record. In Germania stabilirà il record degli scudetti vinti in terra teutonica con 7 vittorie; egli è uno dei tre o quattro giocatori che in carriera ha giocato 5 fasi finali dei mondiali, nelle cui competizioni ha giocato complessivamente 25 volte (altro primato).
Scoperto dal Borussia Mönchengladbach, nella stessa compagine gioca 5 anni, prima di approdare nel Bayern. Trapattoni lo avrebbe voluto alla Juve anni prima, nel 1986 Maradona lo invoca al Napoli, e pare che qualche abboccamento in quest’ultimo caso ci fosse stato, anche se poi non si è concluso nulla. Nel 1988 Trapattoni riesce ad averlo in una sua squadra: dice che è fondamentale per vincere lo scudetto. Ha un verbo calcistico fondamentale: la vittoria; e quando vuole vincere, sovente lo fa da solo, trascinando la squadra o imponendosi di persona e risolvendo la gara. Fosse per lui, l’Inter attaccherebbe sempre. Trapattoni talvolta lo deve frenare per non squilibrare ed esporre la squadra. Del resto, il tecnico interista considera l’equilibrio la componente principale della compagine che sta per costruire: per il resto, non gli mancava certamente esperienza nel compattare, nel motivare e nello stimolare partita dopo partita la medesima.
Con Matthaeus il Trap trova il giocatore cardine che cercava da anni, “risolvendo” una parte importante delle carenze o dei problemi prima lungamente denunciati tra centrocampo e attacco, per i quali si era sperato potesse intervenire Scifo. L’altro interno di centrocampo che viene acquistato è Nicola Berti della Fiorentina. Giocatore forse non tecnicamente elevatissimo, ma capace di progressioni pazzesche. Un incursore nato. In un certo senso con lui Trapattoni trova il Tardelli della sua vecchia Juve. Un panzer italiano tra quelli tedeschi. E con Berti e Matthaeus il nuovo centrocampo dell’Inter era fatto.
Mancava un regista che innescasse questa coppia di interni di centrocampo, che potenzialmente era una bomba. E qua verrà indirettamente incontro il consiglio di Matthaeus. Questi indica il proprio compagno del Bayern Andreas Brehme, purtroppo morto da qualche mese, un gran giocatore, forte sia di destro che di sinistro, eclettico, già con esperienze come terzino destro e come mediano, e una bella persona, compianta da tutti i suoi compagni per il suo carattere e la sua indole. E con questo nuovo giocatore tedesco succede un miracolo: Brehme non una volta sola si dimostra indispensabile alla causa, ma si potrebbe dire due.
Ambientatosi da subito e con facilità nel campionato italiano, viene inizialmente impiegato da mediano (questo si registra nelle partite in fase precampionato e in quelle di Coppa Italia, il cui cammino si conclude a fine settembre con l’eliminazione da parte della Fiorentina, che supera i nerazzurri per 3 a 4, oltre che nelle prime due partite di campionato con Ascoli e Pisa), finché Trapattoni non quadra il cerchio con una mossa decisiva.
L’eliminazione in Coppa Italia segna uno spartiacque nella stagione, sebbene il campionato non avesse ancora avuto principio per via delle Olimpiadi di Seul. Questo particolare non è da poco ed è stato un grande aiuto per l’Inter (diversi giocatori della stessa hanno riconosciuto che è stata una fortuna cominciare a ottobre perché così il rodaggio iniziale non ha interessato le prime partite di campionato (che avrebbero potuto presentare rischi qualora si fosse incrociata una compagine più in forma), per cui già prima del suo inizio certe dinamiche che in altri tempi sarebbero potuti costare punti importanti si erano dipanate.
Così dopo l’uscita dalla Coppa Italia Trapattoni rischia anche di essere mandato via; si verifica un confronto giocatori-allenatore a cui consegue un patto, con i primi che fanno quadrato in difesa del secondo, il quale prende atto della realtà e intuisce che la soluzione migliore sia quella di inserire Matteoli in regia e Brehme in qualità di terzino sinistro. E mentre il centrocampista nuorese si rifà delle critiche subite l’anno precedente, quando aveva subito tante rampogne per non essersi amalgamato con Scifo, apparendo gli stessi dei doppioni, il biondo tedesco si dimostra una freccia in nel nuovo ruolo assegnatogli, con licenza di galoppare lungo la fascia e suggerire palloni all’attacco.
L’Inter non aveva visto un terzino sinistro così abile negli sganciamenti offensivi, senza venire, tuttavia, meno, agli obblighi di contenimento, controllo e neutralizzazione dell’attaccante avversario in fase di ripiego, dai tempi di Facchetti. Con una sola mossa due ruoli cruciali del gioco interista trovano la loro perfetta soluzione. E come l’Inter con Brehme elimina ogni problema alla fascia sinistra, con Alessandro Bianchi fa passi da gigante nel lato destro del campo.
Giocatore rilevato dopo un’eccezionale annata a Cesena, ottima rivelazione di quel periodo, sotto la guida di Bigon, l’ala di Cervia è stato calciatore molto mobile e veloce, di gran tecnica, nonché dotato di ottimo senso tattico e con esperienze che spaziavano dal gioco a uomo a quello a zona, assorbito nelle giovanili del Cesena sotto la guida di Sacchi, per cui sapeva dare il “la” alle soluzioni offensive con precisi passaggi smarcanti, ma non mancava, altresì, di ripiegare per dare una mano alla difesa.
A questo punto arrivati, mancava il rinforzo decisivo in attacco: era necessario trovare il partner ideale per Serena, al fine di costituire una potente coppia di sfondamento, che, in fondo, all’Inter mancava da decenni. Originariamente si era pensato Rabat Madjer, giocatore algerino di buon valore, a suo tempo Pallone d’oro africano, accompagnato da una buona fama soprattutto da quando, nel maggio del 1987, aveva vinto con il Porto la Coppa dei Campioni contro il Bayern, segnando nella finale un gol di tacco.
L’Inter lo acquista dal Valencia, compagine dove nel frattempo era andato a giocare. Dopo lo presenta alla stampa il 6 giugno 1988. Ma il successivo 23 dello stesso mese i nerazzurri fanno presente di poter rescindere il contratto con il giocatore per causa di una patologia muscolare. Alla fine non se ne fa nulla.
E Trapattoni punta, azzeccando in pieno, su Diaz della Fiorentina, che viene preso in prestito. Nell’anno nel quale gioca all’Inter Diaz va in campo 35 volte su 36, segno che Trapattoni lo riteneva quasi indispensabile. La Fiorentina da due stagioni ha in squadra l’attaccante argentino, ma non stravede per il medesimo ed è quasi felice di poter girarlo all’Inter, liberandosene dell’ingaggio. Prima, nella sua avventura calcistica italiana iniziata nella stagione 1982 – 83, Diaz aveva giocato un anno a Napoli, purtroppo in una stagione problematica per i partenopei, che si salvarono nelle ultimissime giornate il che non lo aiutò, tre stagioni ad Avellino e, come riferito, due stagioni a Firenze, dove ebbe compagno Roberto Baggio.
I tre anni ad Avellino sono stati fondamentali per Diaz; in Irpinia ha avuto modo di rifarsi della stagione deludente nel club napoletano, ha avuto possibilità di ambientarsi al calcio italiano, ha potuto giocare con continuità e con un pubblico che lo sosteneva, ha saputo segnare gol importanti al fine di contribuire al conseguimento di 3 salvezze a favore della compagine vestita di verde. Trapattoni doveva aver notato tutto questo, vedendo, dunque, in Diaz il naturale compagno di attacco di Serena.
Nei movimenti offensivi si trovavano a meraviglia, e quando stava bene Diaz era capace non solo di offrire quantità con una presenza continua in attacco, ma anche qualità con un sinistro molto preciso. E poi, per quel che si sa, era molto “compagnone” e faceva gruppo. Il duo Serena-Diaz per il Trap, per certi aspetti, era come il duo Bettega-Boninsegna della stagione 1976 – 77 nella Juventus dei 51 punti. Altro acquisto, questa volta, con tutto rispetto parlando, di giocatore “di contorno”, destinato alla riserva, è quella di Verdelli, che proviene dal Monza.
Ma i fatti, ovvero il campo, diranno che il medesimo calciatore, evidentemente, è una riserva pregiata, dai molteplici usi, e scenderà in campo in 20 partite (seppur il più delle volte partendo dalla panchina), il che non è proprio male per un esordiente in “A”. Nell’Inter dei record gli esordienti sono 4: due sono gli stranieri tedeschi, mai stati nella serie “A” italiana, per cui costituiscono un caso a parte. Gli altri due sono Verdelli e Pasquale Rocco, che giocherà in una sola occasione.
Poi troverà relativa fortuna nel Cagliari di Ranieri, che a partire dall’anno successivo farà un doppio salto dalla C1 alla “A”, insieme con Paolino, anche questi intruppato nella rosa dell’Inter dei record, anche se Trapattoni non lo manderà mai in campo. Una squadra che, dunque, si potrebbe definire “equilibrata”, date le caratteristiche dei giocatori che dovranno scendere in campo, e considerata la particolare e specifica disposizione con cui Trapattoni allinea e organizza la compagine che sul terreno di gioco si dovrà proporre e, possibilmente, almeno negli auspici dei dirigenti nerazzurri, imporre.
Per sopraggiungere a tutto questo, a un’inezia dagli anni ’90, che oltre al secolo chiudevano anche il millennio, l’Inter ha dovuto attendere quasi un decennio dallo scudetto vinto nel 1980. Alla seconda giornata di campionato, dopo aver vinto ad Ascoli, l’Inter ospita il Pisa. La partita inizia in salita per l’Inter che subisce il gol dell’ex Bernazzani, su azione di Faccenda.
Il Pisa concretizza la sua unica azione del primo tempo e alla chiusura della prima frazione di gioco si ritrova in vantaggio. I toscani si difendono con ordine e l’Inter per tutta la partita dà l’assalto alla porta avversaria: nel primo tempo più che altro colleziona calci d’angolo. Durante il riposo, nello spogliatoio della compagine di casa va a fare visita il presidente Pellegrini che raccomanda alla squadra di non cadere in certi stanchi, bolsi e stucchevoli leitmotiv degli anni precedenti, in cui l’Inter alternava vittorie a sconfitte e alla fine nulla portava a casa.
I suoi giocatori lo rinfrancano e lo rassicurano di essere sufficientemente forti; giurano che non manca il coraggio e che lo scudetto stavolta sarà nerazzurro. Ma le azioni d’attacco dei meneghini a un certo punto si fanno ripetitive e nella ripresa Trapattoni azzecca la massa di sostituire Baresi con Matteoli. Richiama anche Bianchi per inserire Morello, che può assicurare più verve in attacco. Anche questa sostituzione è sensata e il corso della partita darà ragione al tecnico.
E l’Inter spinge con i vari Berti, Brehme, Morello o Matthaeus, che possono portarsi in area in incursioni rispetto alle quali Matteoli fa da ispiratore, dando fosforo alla squadra. Così, dopo una mischia, Brehme pareggia. L’Inter adesso è più determinata, quasi incontenibile, e le occasioni non si contano. Il Pisa appena riesce a farsi vedere con una punizione di Been, su cui Zenga è pronto. Nell’ultimo quarto d’ora i nerazzurri di casa dilagano.
Prima Diaz segna dopo tiro di Bergomi, poi Serena fa centro dopo un traversone al centimetro di un ispirato Matteoli, ormai deciso a riscattare l’annata precedente. Poi Matthaeus segna dopo che un tiro di Diaz, sempre presente in area, quasi una sorta di regista dell’area di rigore, carambola tra i pali. Già, la squadra appare registrata in ogni sua componente, la voglia di vincere il titolo è già presente, il coraggio di osare è materia che non manca, come, e questa è l’armatura migliore, la consapevolezza di potercela fare, stavolta. Il restante cammino interista è trionfale e raramente la squadra di Trapattoni sbaglia.
Forse, l’unica volta che lo ha fatto è stato a fine girone d’andata quando perde a Firenze per 4 a 3 con un gol conseguenza di un errore di Bergomi, che commenterà che qualche volta si può sbagliare. Il 28 maggio 1989, trentesima giornata, vede il matematico scudetto interista. Partita decisiva Inter – Napoli. Careca prova da subito a rovinare la festa all’Inter. Ma Diaz avverte il Napoli che i pericoli possono venire da ogni dove e prende l’incrocio dei legni con una punizione ben tirata. Ma il sempre ottimo Careca con un gran tiro porta avanti i suoi al 36’. Nella ripresa un gran tiro di Berti è deviato in rete da Fusi per il momentaneo pareggio.
Careca, indomabile, coglie un palo. Sale in cattedra Matthaeus con una stupenda punizione che filtra nelle maglie della barriera sigla il 2 a 1, con cui si chiude la partita. È il gol che sancisce il matematico scudetto con 4 giornate di anticipo. Inter 52 punti, Napoli 43, Milan 38, Juventus 37. Un titolo atteso da 9 anni, inseguito, agognato fortemente in tutte le stagioni precedenti durante le quali non lo si è conseguito, sognato lungamente, ma finalmente ottenuto con una squadra eccezionale. Una squadra pienamente trapattoniana, da comparare alla Juve dei 51 punti del 1976 – 77 (tra l’altro, valutando il campionato dell’Inter nell’arco delle prime 30 giornate di campionato, la compagine nerazzurra batte anche il record dei bianconeri e totalizza 52 punti).
Anche quella ferreamente trapattoniana. La storia del calcio italiano ha voluto che Trapattoni abbia vinto il suo primo e il suo ultimo scudetto in terra Italiana (poi egli ha vinto in Germania, Portogallo e Austria, ma questo è altro discorso) stabilendo due record di punti conquistati, rispettivamente nei campionati a 16 squadre e in quelli a 18. Peraltro, per quanto riguarda Trapattoni, in un certo qual modo, lo scudetto juventino del ’77 e quello interista dell’’89 hanno in comune la circostanza che gli stessi rappresentano il primo titolo vinto dal tecnico di Cusano Milanino in ciascuna delle due squadre (nell’Inter sarà anche l’unico).
Nella Juve della stagione 1976 -77 il Trap era quasi un esordiente (qualche esperienza al Milan come vice di Rocco, di Maldini o di Giagnoni negli anni precedenti, nonché come tecnico nell’andata 1975 – 76 in un contesto particolare in cui Rocco era il consigliere tecnico della squadra e Rivera era contemporaneamente giocatore e responsabile amministrativo della squadra). Eppure, in quest’ultima cornice atipica Trapattoni arriva terzo. Il Milan non lo conferma ed egli viene ingaggiato dalla Juventus nella quale era finita l’era di Carlo Parola. All’epoca si pensava che la Juve avesse operato una scelta bizzarra o che il vero tecnico fosse Boniperti e il Trap finisse per fare quasi un portaordini del presidente.
E, invece, la pervicace volontà del Trap, già dimostrata da giocatore nel Milan, si impone con l’impostazione di un tipo di gioco che prevedeva la mancanza di un regista vero e l’assimilazione e valorizzazione piena quelli che venivano considerati due “scarti” di Inter e Milan, ovvero Boninsegna e Benetti, giocatori visti anche come “vecchi”.
E, soprattutto, prevedeva un gioco misto (la circostanza che Trapattoni sia stato sempre additato come fautore totale e tetragono a ogni esperienza rispetto al vecchio gioco all’italiana classico degli anni ’50 o ‘60 o, quasi un conservatore avulso da ogni sollecitazione nuova o diversa dal solito canovaccio di sempre, non è accettabile e, semmai, Trapattoni ha preso, quello sì, lezione dal suo mentore Rocco quando prudenzialmente, in un certo contesto e con certi risultati al momento conseguiti, ha preferito non rischiare) con un collettivo i cui singoli si dovevano muovere secondo certe logiche e certi sincronismi che favorivano inserimenti e superiorità numeriche negli attacchi, ma anche un sistema di coperture puntuale ed efficace.
Ne derivava una coralità di gioco certamente non tanto spettacolare, ma molto concreta e redditizia, perché tirava fuori il meglio delle caratteristiche tecniche ed agonistiche dei giocatori, con lo spostamento di Tardelli a interno incursore, la valorizzazione di Benetti a tuttofare mobile di centrocampo (e i due si conciliavano e si alternavano meravigliosamente), la rigenerazione a perfetto centravanti di Boninsegna, che dava dimostrazione di essere ancora un gran centravanti, il che era una manna dal cielo per un giocatore estroso e duttile come Bettega (così i due avanti “si ingravidavano” positivamente a vicenda in fatto di spunti reciproci e in tema, in conclusione, di gol.
Da un punto di vista caratteriale le due compagini record di Trapattoni si somigliano. Dal punto di vista prettamente tecnico le similitudini, in senso generale, non mancano. Se Zenga può essere comparabile a Zoff, come pure possono essere posti a livelli sovrapponibili Gentile e Bergomi, con il secondo degno collega in campo del primo, come pure perfetto sostituto dello stesso a Spagna ’82, la differenza tra i terzini di sinistra Cuccureddu e Brehme è più evidente. Cuccureddu eccelle in interdizione (anche se non aveva mancato in precedenza di giocare a centrocampo), mentre Brehme oltre che difendere fa anche da regista di fascia creando occasioni in quantità industriale per il centrattacco nerazzurro.
Il mediano Furino nella Juve del ’77 fa soprattutto da diga del centrocampo e copre le incursioni di Scirea, mentre Matteoli funge da regista arretrato e propone per i due interni e per gli attaccanti. Con gli inserimenti di Baresi, non è mancata l’occasione dello sganciamenti in avanti di Mandorlini, coperto dal primo. La coppia centrale juventina Morini- Scirea è una garanzia, ma quella Ferri-Mandorlini non è da meno, anche se complessivamente da un punto di vista tecnico poteva essere valutata meno forte della prima.
Ala destra della Juve con i fiocchi è Causio, che furoreggia lungo la fascia di destra, ma Alessandro Bianchi (e , quando chiamato in campo, Fanna) dimostra(no) non essere da meno. In avanti la coppia di interni juventini Tardelli-Benetti in qualche modo, al netto delle singole caratteristiche tecniche viene riprodotta dal duo Berti-Matthaeus. Probabilmente Tardelli come calciatore è stato superiore a Berti e questi non eccelleva in qualità interdittorie, ma la corsa e la progressione di quest’ultimo hanno inciso tanto sia in fatto di conclusioni di prima che di appoggi e aperture ai compagni. Matthaeus è stato un valore aggiunto anche nei confronti del duo avanzato Serena-Diaz, coppia che magari tecnicamente potrebbe “pesare” meno di Bettega e Boninsegna.
Peraltro, l’Inter dei record può avere qualche similitudine non solo con la Juve dei 51 punti, ma anche con il Torino secondo classificato del ’77 con 50 lunghezze (non è escluso che i granata avessero perso lo scudetto, detto con il senno di poi, nel derby di ritorno, giocato “in casa” granata, quando gli stessi si accontentarono del pareggio, calcolando che la Juve più in là avrebbe perso presuntivamente punti in casa Inter – il che successivamente non avvenne – e non spinsero per vincere, come avevano fatto all’andata, quando “espugnarono” per 0 a 2 lo stadio Comunale), con cui condividono il dato prettamente numerico di aver lasciato per strada complessivamente 10 punti.
E quel Torino era composto da Castellini, Danova e Mozzini marcatori (più o meno come Bergomi e Ferri), Caporale libero Salvadori terzino sinistro ala (lo si può paragonare a Brehme), Patrizio Sala mediano con facoltà di incursore (cosa che, fra l’altro, faceva Matteoli, il quale in più operava da regista, ruolo che nel Torino era di spettanza a Pecci, il compito del quale divergeva rispetto alle mansioni di Matthaeus, che in un certo senso faceva da attaccante aggiunto e atipico), Zaccarelli era interno come Berti (anche i due giocatori avevano caratteristiche e operavano con dinamiche differenti.
Come cursore di destra Claudio Sala era più “poeta” di Bianchi dell’Inter, ma questi rispondeva con la prosa di un elevato senso tattico unito a un agonismo scoppiettante. In attacco la coppia d’attacco Pulici- Graziani era più atomica rispetto a quella Diaz-Serena, ma la “lacuna” veniva compensata dalla maggiore propensione offensiva di Matthaeus.
Ma in ogni caso i 58 punti dell’Inter paiono “valere” più dei 51 della Juve. Per due ragioni. La Juve toccò quota 51 perché pungolata e “costretta” dal Torino che raggiunse quota 50. L’Inter fece corsa con se stessa. Fosse stata “pungolata”, avrebbe potuto migliorare qualche numero. E soprattutto: l’Inter se le dovuta vedere con il Milan di Sacchi, con il Napoli di Maradona, con la Sampdoria di Vialli (a parte il fatto che non mancavano squadre terribilmente ostiche come Atalanta o Fiorentina), mentre la Juve aveva reale avversario il Torino e poi vi era quasi il nulla.
Questo spiega perché l’Inter dei 58 punti non vinse in seguito come la Juve di Trapattoni, che ebbe negli anni a venire come realistica avversaria solo la Roma di Liedholm (questo a parte l’errore dell’Inter di non continuare nei primi anni novanta nella scia tracciata da Trapattoni con quella formazione super del 1989). Il 4 giugno 1989 si gioca la trentunesima giornata di campionato. Lazio – Inter. I nerazzurri onorano il proprio scudetto da record con una grande prova, dopo aver subito un gol, che, come ha commentato Trapattoni, ha ridestato la propria squadra, che doveva, secondo il tecnico, sempre tenere un comportamento elevato. Inter senza Serena, Lazio senza diversi titolare.
Il primo tempo non dice granché forse anche a causa del gran caldo. Sul finire del primo tempo a Diaz viene annullato un gol, in quanto Berti, che ha confezionato il cross che ne è alla base, ha oltrepassato la linea di fondo, dopo una gran cavalcata nella fascia sinistra. Nella ripresa tono e ritmo della gara si alzano e Dezotti, a seguito di cross, segna. L’Inter, che non ci sta a perdere, parte all’attacco. Bergomi con un gran tiro dal limite dell’area pareggia. Ma i nerazzurri non si fermano. Con il loro gol i laziali hanno svegliato da un certo torpore un gigante.
Il secondo gol interista, dopo che, comunque, i nerazzurri avevano creato almeno due azioni da gol dopo il pareggio, è frutto di una sorta di suicidio calcistico dei padroni di casa: Rizzolo opera una sorta di retropassaggio non ottimale nei confronti del proprio portiere Fiori, che non si impossessa della sfera perché preceduto da Diaz, che segna. Poi ancora Diaz, ispirato da Berti, la prima volta va a vuoto, ma la seconda sigla la propria doppietta di giornata. Inter 54, Napoli 44, Milan 40, Juventus 38. Trentaduesima giornata, 11 giugno 1989. Inter – Atalanta. Partita non facile per i neo-scudettati milanesi perché l’Atalanta durante il campionato ha dimostrato di essere una gran squadra, sia come organico, sia come schemi tattici, sia come verve atletica.
E infatti gli orobici passano in vantaggio con gol di Nicolini, dopo spunto di Stromberg che da destra si era portato velocemente in avanti. E non si ferma, perché sfrutta adeguatamente i contropiedi, facilitati dalla circostanza che nell’occasione di questo match Ferri non è il solito mastino. L’Inter, tuttavia, attacca, ma non riesce ad aggirare un’Atalanta attenta. Nella ripresa si registrano 4 rigori. Il primo viene concesso dopo traversone di Brehme da sinistra: Vertova interviene ai danni di Serena.
Sguizzato decide per la massima punizione. Matthaeus segna. L’Atalanta, in ogni caso, non demorde e Pasciullo non sfrutta una buona palla gol. Ancora traversone da sinistra di Brehme ed Esposito compie un fallo in area interista ai danni di Bergomi. Rigore che Matthaeus tira e che Ferroni respinge. Ma l’Inter non si ferma e dopo un lancio lungo, Serena sigla il proprio ventunesimo gol stagionale con un gran colpo di testa. Ma poi rigore per l’Atalanta dopo fallo di Brehme su Prytz. Madonna segna.
Ma Progna commette fallo in area avversaria ai danni di un Serena lanciato a rete da uno spunto dalle retrovie. Serena segna. Successivamente ci fu l’espulsione per Matthaeus e Nicolini. Infine Brehme con una gran punizione fissa il risultato sul 4 a 2 a tre minuti dal termine. Inter, che batte il precedente record a 18 squadre dei 55 punti della Juventus, a 56 lunghezze, Napoli 44, Milan 42, Juventus 40. 18 giugno 1989. Torino – Inter.
Milanesi senza i due tedeschi e senza Ferri. Torino spinto da un pubblico dalle grandi occasioni, che vuole trascinare la squadra alla vittoria al fine di poter evitare la serie “B”. Torino subito in attacco, con foga, come non si era visto durante la stagione ormai al termine. L’Inter si difende. Il Torino segna con Skoro. Poi Muller raddoppia. Inter apparsa stanca. Essa rimane a 56 lunghezze, privandosi della possibilità di eguagliare o superare “formalmente” il record dei 51 punti della Juve, nel senso che i bianconeri lasciarono per strada solo 9 punti, mentre l’Inter conquisterà 58 punti su 68 disponibili, Napoli a 45, Milan 44, Juventus 41. Il 25 giugno 1989 si chiude il campionato. Inter – Fiorentina. Zenga squalificato.
Nerazzurri subito in attacco, la Fiorentina cerca di addormentare la partita. Diaz segna, ma l’arbitro annulla per fallo di Serena. Matthaeus compie un fallo di ritorsione e viene espulso. Mattei per la Fiorentina potrebbe segnare. Ma l’Inter vuole vincere e Brehme con uno dei suoi traversone mette in condizione Diaz di segnare. Bianchi poi sigla un altro gol approfittando di un momento di cattiva predisposizione della difesa avversaria.
Classifica finale Inter 58 punti, Napoli 47, Milan 46, Juventus 43, Sampdoria 39, Atalanta 36, Fiorentina e Roma 34, Lecce 31, Ascoli, Bologna, Cesena, Lazio e Verona 29, Pescara e Torino 27, Pisa 23, Como 22. Nello spareggio per l’ultimo posta in zona Uefa Fiorentina batte Roma 1 a 0 il 30 giugno. Segna per i viola Roberto Pruzzo, ex bandiera romanista. L’Inter ritocca alcuni record. Intanto i numeri: 26 vittorie, record nei campionati a 18 squadre (antecedentemente era detenuto dalla Juve che nei campionati 1930 – 31, 1932 – 33 e 1959 – 60 ne aveva totalizzate 25. I 58 punti superano i 55 della Juve, che a tale somma era pervenuta, sempre nei campionati a 18 squadre, nel 1930 – 31 e nel 1959 – 60.
Undici vittorie in trasferta per i nerazzurri (eguagliato record di Milan e della stessa Inter dell’anno 1963 – 64. Media inglese dei nerazzurri a + 7, precedenti record di + 4 della Juventus delle stagioni 1930 – 31 e 1959 – 60. L’Inter dei record diventa mito. Il 20 febbraio 2024 una brutta notizia giungeva alle orecchie dei protagonisti di quell’Inter dei record: un attacco cardiaco risultava fatale per Andreas Brehme, che decedeva a 63 anni, il primo, quindi, di quella squadra ormai da leggenda a lasciarci, purtroppo. Troppo giovane per simile viaggio, troppo giovane per cavalcare i sentieri dell’Assoluto, dopo che da giovane aveva cavalcato le fasce delle praterie calcistiche.
Un uomo serio, un professionista del pallone esemplare, di una moralità elevata; e già tale (oltre a esserlo) appariva anche ai non addetti a lavori, ai tifosi che lo potevano vedere, come me, attraverso lo schermo delle immagini televisive. I suoi compagni, come i suoi avversari, ne hanno riconosciuto lealtà e coraggio. Ma ancor di più i suoi compagni hanno potuto sempre apprezzare l’umanità di un calciatore che sapeva sorridere e suscitare simpatia, pur mantenendo la sua postura teutonica apparentemente fredda e distaccata. Un gran giocatore, a parte il resto; forse, però, nella sua essenzialità pulita di gioco non entusiasmava, e non veniva, ingiustamente, quotato come campione assoluto.
Ma era un mastino della difesa e sapeva proporsi in attacco, favorendo svariate soluzioni per le conclusioni a rete, grazie a due piedi fenomenali che regalavano palloni millimetrici. Altro suo punto di forza, e altra manna dal cielo per la squadra per la quale indossava la maglia, era la dote di una visione tattica piuttosto acuta. I suoi colleghi calciatori non hanno mai potuto affermare se fosse mancino o destro; non faceva differenza e segnava gol pesanti con ambi i piedi. Si è potuto appurare che di mancino era molto potente, mentre di destro era soprattutto preciso.
Un giocatore così naturale che fosse un cecchino dalle percentuali perfette: rigori e punizioni erano la sua specialità, come pure i tiri da lontano. I suoi compagni dell’Inter scudetto hanno detto e ribadito che passargli la palla era come metterla in cassaforte, perché i suoi piedi erano sempre in grado di ideare la soluzione migliore per mettere a segno.
Un grande regista, di fatto. Così, la sua presenza nell’Inter dei record (ma questo può valere anche per la nazionale tedesca) fu veramente un valore aggiunto determinante. Da un Bergomi, da un Ferri, da un Matthaeus si sapeva che si poteva contare su un contributo eccezionale e lo si metteva nel conto (e, semmai, il vero pericolo era che potessero anche parzialmente mancare alle aspettative e produrre di meno del preventivato).
Da Brehme non ci si poteva aspettare quanto poi dallo stesso offerto e regalato (e qua bisogna riconoscere la capacità di Trapattoni di averlo inserito nel contesto tattico migliore e di avergli permesso di poter esprimere pure più di quanto lo stesso giocatore potesse immaginare). Tra, l’altro, per inciso, il Trap seppe trarre pure di più di quanto fosse “lecito” ponderare anche da Diaz e da Matteoli. Nella stagione dello scudetto record a Brehme possono essere riconosciuti 4 punti, grazie ai suoi gol decisivi in due partite.
Ma lo si potrebbe “ringraziare” anche per aver esso a segno il gol nella seconda giornata di andata con cui iniziò la rimonta nei confronti del Pisa o quello, alla terzultima giornata, contro l’Atalanta, grazie a un missile di rara potenza, che assicurò il risultato sul 4 a 2 e che permise di raggiungere in quella giornata quota 56 punti, con cui si frantumava il precedente record juventino di 55 punti in un campionato a 18 squadre.
Senza contare il grande coraggio del giocatore. Con la maglia bianca della nazionale tedesca non solo segnò un gran gol contro l’Olanda, ma, soprattutto, si prese la responsabilità di calciare il rigore decisivo nella finalissima contro l’Argentina a fronte del portiere “incubo” para rigori Goycoechea, un fenomeno che nel mondiale italiano era partito inizialmente dalla panchina, ma che, una volta inserito in porta per infortunio di Pumpido aveva fatto miracoli, avendo precedentemente con le sue prodigiose parate mandato a casa la Jugoslavia e cancellato il sogno di approdare alla finale agli azzurri di Vicini nella semifinale di Napoli.
Si prese la responsabilità di calciare il rigore che decideva tutto. Lo segnò con un tiro di destro chirurgico a due millimetri dal palo sinistro. Goycoechea non riuscì ad arrivare, anche se si era lanciato nella direzione giusta con un balzo felino. Fece male l’Inter a lasciarlo andare nel 1992. Ritornato nella sua vecchia squadra tedesca di un tempo, il Kaiserslautern, ha fatto in tempo per vincere una Coppa di Germania e uno storico titolo nel 1998 da neopromosso. Come allenatore non ha avuto grande fortuna (tra l’altro, è stato anche “secondo” di Trapattoni, suo mentore, nello Stoccarda).
La sua vita è trascorsa tra alti e bassi. Si è letto, nei giornali, anche di qualche difficoltà economica. Le ha vissute con la dignità di chi ha sempre avuto coraggio e ha affrontato ogni sfida e ogni problematica. Sempre legato all’Inter, sua seconda casa ideale, e ai suoi compagni del record. Fino a pochi giorni prima di morire con i medesimi è stato in contatto, progettando rimpatriate e partecipazioni alle partite della squadra milanese.
Una persona così espansiva e legata a quella piccola comunità di giocatori dello scudetto del 1989 non poteva non lasciare affranti i suoi compagni. Saputa la notizia della sua improvvisa scomparsa, perché quell’Inter dei record prima che un mito calcistico è stata ed è una bella comunità umana. È questo forse è stato il più grande apporto che Trapattoni ha dato l’Inter. Creare un gruppo indistruttibile, cosciente di sé, orgoglioso nella giusta misura, pronto all’aiuto reciproco.
Francesco Zagami