Storie di Calcio

20 aprile 1986 – La Roma inciampa con il Lecce e consegna lo scudetto alla Juventus

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GLIEROIDELCALCIO.COM (Francesco Giovannone) – Il calcio è uno sport meraviglioso perché in alcune circostanze regala partite caratterizzate da risultati che sovvertono clamorosamente i pronostici iniziali. A pensarci bene la sua magia è infondo legata a questo aspetto, la possibilità che una piccola squadra possa battere una grande, che una provinciale possa prevalere sulla blasonata, che il pastorello Davide possa prevalere sul gigante Golia insomma. Si tratta di eventi evidentemente non così frequenti da un punto di vista statistico ma che sono sempre lì dietro l’angolo, in agguato, a preservare l’imprevedibilità della nostra amata palla che rotola.

In serie A, la stagione calcistica 1985/86 è dominata da due protagoniste assolute, la Juventus della famiglia Agnelli e la Roma dell’Ingegner Viola, che la fanno da padrone alternandosi in due periodi distinti del torneo.

La prima domina letteralmente il girone d’andata dove macina un numero di punti impressionante, addirittura 26 su 30 disponibili. Alle spalle dei bianconeri c’è il Napoli di Maradona che con 6 punti in meno sembra essere la candidata più accreditata per la seconda piazza. Seguono a ben otto punti di distanza Inter e Roma che appaiono quindi lontanissime dalla vetta, anche alla luce del fatto che la vittoria in quel campionato vale ancora due soli punti.

La squadra di Sven Goran Eriksson è una compagine talentuosa ma considerata ancora acerba e poco concreta per poter ambire al titolo. Esprime un ottimo gioco, una zona spettacolare, ma nella stagione precedente si mostra non all’altezza di ambire alle zone alte della classifica chiudendo con un modesto settimo posto.

Nonostante le premesse, nel girono di ritorno sono invece i romanisti i mattatori. La Juventus non riesce ad esprimersi bene né in campionato, dove ormai viaggia ad una media di un punto a partita quindi al di sotto di un passo scudetto, né in Coppa dei Campioni dove subisce l’eliminazione dal torneo per mano del Barcellona di Venables.

In tredici partite, la Roma ottiene 23 punti sui 26 disponibili, portando a casa ben 11 vittorie. Tra queste merita di essere ricordata proprio quella dell’Olimpico con la Juventus, che si conclude con uno spettacolare 3-0, in una delle giornate più memorabili per i tifosi giallorossi che inscenano sugli spalti una delle coreografie più belle mai allestite in uno stadio di calcio. Rimangono il pareggio fuori casa con la Fiorentina e la sola sconfitta col Verona campione d’Italia in carica.

La Roma arriva quindi alla penultima giornata del campionato avendo recuperato tutti gli otto i punti di distacco dai rivali. Il calendario a quel punto propone i seguenti incontri: Roma-Lecce e Como-Roma per i giallorossi, Juventus-Milan e Lecce-Juventus per i bianconeri.

La Roma a questo punto appare favorita per la vittoria finale perché il Lecce, seppure sulla carta arbitro dello scudetto, non appare un ostacolo insormontabile per nessuna delle due compagini, mentre al contrario il Como appare avversario decisamente più abbordabile per i ragazzi di Eriksson rispetto al Milan di Berlusconi che si appresta a scendere al Comunale di Torino. I salentini infatti, sono al loro primo campionato in assoluto in Serie A della loro storia, e si apprestano a fare ritorno immediato nella serie cadetta, hanno in classifica la miseria di 14 punti e sono già matematicamente retrocessi.

A Roma, piazza passionale ma poco avvezza alla vittoria, c’è una grandissima voglia di completare l’impresa. Inutile dire che la rivalità storica con la Juventus e la delusione cocente della finale di Coppa dei Campioni subita appena due anni prima ad opera del Liverpool, alimentano e non poco il desiderio di trionfo e di rivalsa.

Lo stadio Olimpico in queste occasioni non delude mai ed è esaurito in ogni ordine di posto, si respira un’aria strana nella capitale, la primavera ha ormai fatto capolino, la partita vuoi per le circostanze, vuoi per la galoppata inarrestabile dei giallorossi appare una semplice formalità. Il Lecce non può interrompere quella gloriosa avanzata. Mai valutazione si rivelerà più sbagliata.

Queste premesse e la partita complicata che attende la Juve con il Milan (in procinto di entrare nella favolosa era berlusconiana), alimentano un ottimismo irrefrenabile in casa Roma. In caso di vittoria romanista e passo falso della Juventus, molto difficilmente i giallorossi perderanno l’occasione di vincere la partita di Como, dove li attende una squadra tenace che però ha già raggiunto l’obiettivo della salvezza e quindi senza particolari velleità.

A Roma però non si impara mai, e la scaramanzia quel giorno all’Olimpico non è proprio di casa: il Sindaco Signorello e il presidente giallorosso Viola prima dell’incontro si cimentano in un giro di campo, una passerella come se la vittoria fosse già intascata.

Insomma la partita col Lecce viene snobbata, la Roma sul proprio terreno ha perso soltanto un punto col Como, i pensieri dei tifosi sono tutti rivolti alla partita della Juventus, nella speranza che il diavolo faccia lo sgambetto alla vecchia signora: “male che va si andrà allo spareggio” molti pensano, “male che va avremo la possibilità di battere ancora una volta i nostri odiati rivali, infondo poche settimane prima lo abbiamo già fatto, e alla grande!”.

L’incontro coi salentini ha inizio e, come accade spesso nella storia della Roma, le delusioni cocenti sono precedute da partenze positive ma illusorie: passano appena sette minuti e Graziani porta in vantaggio la squadra di casa; la cosa seppur dovrebbe scuotere l’Olimpico non determina grandi mutamenti del clima che si respira allo stadio. É tutto previsto, è tutto scritto, tanto che la gente sugli spalti segue quasi distrattamente la partita sul terreno di gioco e tende l’orecchio alla radiolina, in quel momento l’unico campo oggetto di attenzione è il Comunale di Torino. La partita con il Lecce non sembra esistere.

Purtroppo per i tifosi giallorossi la partita con i salentini esiste eccome e se ne accorgono improvvisamente, prima alla mezz’ora quando Tancredi para miracolosamente un colpo di testa ravvicinato di Miceli,  e poi in maniera più netta al minuto 34’ quando Alberto Di Chiara, cresciuto nelle giovanili giallorosse (quello dei “fratelli serpenti” rappresenta un leitmotiv, un motivo conduttore nella storia romanista) eludendo il fuorigioco applicato quasi sistematicamente negli schemi di Eriksson, mette a segno il goal del pareggio. Cala il gelo all’Olimpico, ma non abbastanza per indurre una pronta reazione della squadra di casa. A Roma non basta errare, si deve comunque perseverare: si potrebbe chiudere prudentemente la prima frazione in parità, per riordinare le idee e rimettere le cose a posto nel secondo tempo ma la Roma freme, quel risultato non ha ragione di esistere e va subito ribaltato.

Al minuto quarantatré, un sanguinoso passaggio in orizzontale di Giannini fa perdere il possesso alla Roma e permette al Lecce di recuperare il pallone, che perviene a Pasculli che entra in area romanista e si vede atterrato da Tancredi che non può fare altro per evitare un goal altrimenti già fatto. L’arbitro Lo Bello concede giustamente la massima punizione ai leccesi, si presenta Barbas dal dischetto che non sbaglia. Stavolta sull’Olimpico non cala soltanto il gelo, ma comincia ad aleggiare la paura concreta a questo punto di non farcela. Si chiude quindi la prima frazione con il Lecce in vantaggio, nonostante ciò tra i tifosi più ottimisti serpeggia ancora ottimismo, memori dell’impresa che soltanto la settimana prima la Roma aveva realizzato a Pisa, ribaltando nella ripresa una partita complicata che la vedeva sotto nel risultato, forse la partita manifesto della memorabile stagione giallorossa.

Nel secondo tempo, nonostante la Roma appaia vuota e poco determinata ci si mette anche Negretti il portiere di riserva del Lecce (che sostituisce il titolare Ciucci infortunato nelle prime fasi della partita) che sfodera una prestazione maiuscola (quello del portiere “paratutto” è un altro trama ricorrente nella gloriosa e tormentata storia della Roma) e nega l’immediato pareggio a Di Carlo.

La Juventus ancora impatta col Milan, e la Roma mantiene il pallino del gioco spingendosi fortemente all’attacco, ma invece di pervenire al pareggio vede incrementare il suo svantaggio. La zona dello svedese Eriksson palesa quel giorno tutti i suoi limiti e concede praterie agli avversari che colpiscono la terza volta con un chirurgico contropiede: siamo appena al 53’ minuto ed è di nuovo Barbas a siglare la rete del 1-3. La mazzata è tremenda e come spesso accade in queste circostanze, e come spesso accade soprattutto alla Roma, seppure ci sia ancora lo spazio per la speranza, prevale lo sgomento e lo psicodramma, le energie vengono meno e la disfatta si avvicina.

Da Torino arrivano per di più cattive notizie perché Laudrup porta avanti la Juventus, le possibilità per la Roma di recuperare la situazione sono prossime allo zero. Nonostante ciò la squadra continua a giocare ma spreca troppo e Negretti in versione nazionale salva ancora il risultato, prima su Boniek e poi su Pruzzo, e dove non riesce lui ci si mette il buon Miceli. La Roma col suo bomber accorcia le distanze soltanto al minuto ’82, ma ormai la frittata è fatta. Dopo l’ultima conclusione alle stelle di Nela verso la porta leccese, viene posta la pietra tombale sulle speranze di rimonta dei ragazzi di Eriksson.

Di nuovo, dopo la tragedia sportiva della finale persa in casa col Liverpool, la Roma si perde sul più bello. Nel momento in cui deve raccogliere rimane con un pugno di mosche in mano (cosa che accadrà altre volte nella sua storia).

Ancora oggi, a distanza di 35 anni non si conosce esattamente cosa accadde quel giorno all’Olimpico. Si fanno ipotesi le più disparate: alcune, le più complottiste, teorizzano promesse di compensi elargiti dalla Juventus ai giocatori leccesi per indurli a dare il massimo durante la partita e impedire in tutti i modi di condurre in porto l’incontro ai romanisti; altre teorie, sullo sfondo della seconda ondata dello scandalo del calcio scommesse, addirittura infangano la reputazione dei giocatori, rei secondo alcuni di essersi macchiati dell’azione più infamante per uno sportivo, ovvero quella di aver “venduto” la partita in cambio di denaro. Nessuna di queste ipotesi troverà mai fondamento ed anche il buon senso ci suggerisce che effettivamente non siano percorribili, tanto meno la seconda: il Presidente Viola, mise in palio un premio scudetto di dimensioni enormi che avrebbe dovuto indurre i giocatori a dare tutto quello che avevano, se non fossero bastati già gli stimoli per il raggiungimento di un’impresa che gli avrebbe regalato di diritto un posto nella storia.

Molto verosimilmente la verità è racchiusa nelle parole di uno degli uomini più rappresentativi e particolarmente decisivi in quella stagione, quelle di Roberto Pruzzo: «So che girarono voci, ma erano stronzate. Io ero un leader dello spogliatoio, non passava nulla che io non sapessi. E se qualcuno si fosse giocato la partita io l’avrei saputo. La verità è che nello spogliatoio non si giocava. Il Lecce rappresentò un incubo che può essere compreso solo se si considera quella partita come una follia isolata. Quella rincorsa ci causò un incredibile dispendio di energie fisiche e nervose. Avevamo finito la benzina, ecco la verità. Il calcio è bello anche perché esistono gare come quella. Purtroppo capitò a noi viverla».

Insomma una storia di calcio, quello davvero romantico, in cui una piccola squadra di provincia senza speranza riesce ad avere la meglio su una grande squadra più forte, più blasonata ed enormemente più motivata.

Una delle tante storie che ci riportano con la mente al “clamoroso al Cibali”, una delle tante storie in cui un pastorello, armato di una semplice fionda, uccide un temibile gigante.

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