GLIEROIDELCALCIO.COM (Federico Baranello) – “La palla si impenna arriva Giacchetta ed è il gol partita. Dopo la prosa ecco la poesia, è quella di Simone Giacchetta 19 anni al suo esordio in serie A entrato al posto di un Crippa ancora senza bussola. Otto gol nella Civitanovese poi un presente da “primavera” aggregato alla prima squadra” (Cit. L’Unità, 10 ottobre 1988).
Inizia così la favola di Simone Giacchetta, il 9 ottobre 1988, al San Paolo di Napoli, raccogliendo una palla calciata da Careca, deviata da Maradona e da lui “buttata” dentro di testa, alle spalle del portiere, a muovere la rete. Chi è Simone Giacchetta? Classe ’69, debutta da professionista nel 1986 nella Civitanovese in C2 prima di arrivare alla corte di Ottavio Bianchi. Ora è il Direttore Sportivo dell’Albinoleffe e noi di GEdC lo abbiamo raggiunto per farci raccontare la sua storia.
“In quel girone di C2 del 1987/88”, ci dice Giacchetta, “io con la Civitanovese che giocava per salvarsi e Ravanelli con il Perugia che giocava per vincere il campionato, eravamo sotto l’occhio vigile degli osservatori. Fu una grandissima esperienza quella e una grande annata: ci salvammo ed io feci 8 reti in campionato e due in Coppa Italia. La Juventus stava cercando un classe ’70 con determinate caratteristiche, ma evidentemente non lo trovava, e virarono verso di me con l’idea di parcheggiarmi all’Atalanta. Con gli orobici feci anche quattro giorni di allenamenti e provini, ero convinto che sarei andato lì. Era l’Atalanta di Mister Mondonico e della semifinale di Coppa delle Coppe. Invece a sorpresa s’inserirono Moggi e il Napoli”. Simone, ci permettiamo la confidenza di chiamarlo per nome, ha il classico tono di chi nel raccontare la sua storia la rivive, e per farci capire esattamente il suo stato d’animo dell’epoca ci incalza… ”Dobbiamo contestualizzare la situazione. Siamo a fine anni ’80 in un mondo molto diverso da quello attuale. La Tv non era così perforante come ora. Chi viveva in un paese faceva fatica a pensare a una città grande come Napoli. È normale sperare di arrivare in un grande Club, quale ragazzo che gioca a calcio non ci spera? Sperarlo e pensare di diventarlo davvero è una cosa molto diversa, in particolare in quei tempi. Per essere chiari era come pensare di diventare astronauti. Quanti bambini, vedendo un film o un documentario non hanno pensato di diventarlo? I media non entravano così prepotentemente nella vita dei calciatori e ovviamente non c’erano i social che nulla lasciano, o quasi, all’immaginazione della vita di un calciatore. All’epoca i calciatori avevano un fascino misterioso. Le stesse famiglie ci educavano a seguire la scuola come obbligo e il calcio era solo qualcosa con il quale divertirsi. Invece io mi ritrovavo ad andare a giocare con una squadra fortissima in Italia, nel periodo più importante e “alto” della sua storia: aveva vinto lo scudetto due stagioni prima, con il giocatore probabilmente più forte al mondo in quel momento e con il senno di poi forse anche di tutti i tempi. Era una favola che più grande non potevo sognare. Quei calciatori erano quelli che vedevo a “90° minuto” e per i quali aspettavo poi la sintesi di un tempo, come succedeva la sera domenicale. Il primo giocatore del Napoli che conobbi fu Luca Fusi, che avevo visto in TV, invece ora ero con lui nel Taxi per andare insieme a fare una visita medica”.
Simone, continua a ri-vivere ciò che racconta, sembra ancora meravigliato…”Avevo in testa un solo pensiero, quello di non creare problemi. Può sembrare assurdo, ma noi avevamo un’educazione che non ci consentiva di fare i fanatici o esaltarci troppo. Avevamo rispetto e una forte disciplina mentale. Non mi rendevo conto se il mio valore di calciatore era in grado o meno di stare in mezzo ad interpreti quali Ferrara, Renica, Alemão, Carnevale e Maradona. Poi Ottavio Bianchi, in primis un grande uomo. Un allenatore di spessore, persona perbene, severa con valori importanti. Disciplina e rispetto erano le regole con Mister Bianchi, gli davamo del “Lei”, gli stringevamo la mano sia quando entravamo in campo per l’allenamento sia quando lo terminavamo. Un po’ diverso da quanto accade oggi”.
Una pausa e il racconto riprende… “In pratica non ho avuto nemmeno il tempo di ambientarmi, perché con le Olimpiadi molti tornarono più tardi e quindi giocai le amichevoli e alcune gare di Coppa Italia. Ricordo anche quando arrivò Maradona, Juliano ci chiamò a noi “nuovi” e ci disse che Diego voleva conoscerci. Ci mettemmo in fila indiana per presentarci e stringergli la mano. Fu con noi splendido, ci sorrise dal primo istante e quando arrivò il mio turno mi fece capire che aveva sentito parlare bene di me. Insomma, io davo del “tu” a Maradona. Anzi lo chiamavo Diego”.
Arriviamo a quel 9 ottobre 1988, Napoli-Atalanta prima di campionato… “All’epoca credo che il calcio fosse davvero molto selettivo e meritocratico ed essere tra i convocati era davvero una cosa molto importante. Quel giorno di ottobre era la prima di campionato, e meritare la convocazione stava a significare che avevo lavorato bene. Ricordo l’impatto con il pubblico partenopeo, 80.000 persone, che urlavano e cantavano mentre entravamo in campo. Ricordo di quel momento la moltitudine di colori derivanti dalle maglie degli spettatori, le bandiere, le sciarpe e i fumogeni, insomma un colpo d’occhio impressionante. Per evitare di emozionarmi ulteriormente mi accomodai in panchina alla fine, dalla parte opposta dell’allenatore con il mio numero “16” sulle spalle. La partita era ancorata sullo 0-0 quando a un certo punto sento il Mister che dice “Bimbo scaldati”… mi giro verso Ottavio Bianchi e vedo che tutti mi guardano… e rispondo …”dice a me?”… Da quel momento ho inserito il pilota automatico, non ho sentito più niente, ero nel mio splendido isolamento. Mi ricordo che pensavo solo una cosa…”Faccio l’esordio in serie A, faccio l’esordio in serie A… mamma mia faccio l’esordio in serie A”. Non riuscivo a pensare ad altro”.
La cartolina appartiene alla collezione di Dino Alinei
L’impatto con la partita da parte del nostro esordiente è di quelle che lasciano il segno… ”Solo l’ingresso al 54’ di Giacchetta, diciannovenne centravanti che sino a qualche mese fa giocava in C2 nella Civitanovese, al posto del generoso ma impreciso Crippa, aveva reso pericolose le sterili manovre offensive del Napoli affidate all’evanescente Careca e ad un Maradona che, stringendo i denti per il dolore, aveva tentato invano di inventare qualcosa” (Cit. Stampa Sera, 10 ottobre 1988).
Infatti, quando l’arbitro decreta i minuti di recupero, la partita prende una strada diversa… “Mi sono inserito in area e mi stavo preparando per accogliere la palla. Per sfuggire a una marcatura scivolai, e proprio questo episodio mi diede la possibilità di posizionarmi in modo di poter colpire la palla di testa con un tuffo coraggioso dopo il tiro di Careca e il conseguente parapiglia in area. Non saprei descrivere i momenti successivi, per me era saltato il banco. Il Boato…io ero come un flipper andato in tilt. Non mi sono fatto abbracciare da nessuno, i compagni cercavano di braccarmi, mi tirarono la maglietta ma ero impazzito, andai verso la curva a esultare. Non ho connesso più per la gioia. Ecco, questa è una professione meravigliosa, che ti dona la possibilità di vivere dei momenti irripetibili come questo. Non è facile nella vita ripetere momenti simili. Forse sono momenti unici. Poi ancora sotto “choc” le interviste a bordocampo e negli spogliatoi… ero stordito”. Guardatele quelle interviste, sono di una bellezza e una spontaneità unica.
“Dei giorni successivi ricordo ovviamente un’attenzione mediatica diversa, niente a che vedere con quella attuale intendiamoci, ma proprio per questo m’incuteva timore. In qualche modo l’ansia prese il posto della gioia, il timore per delle dinamiche a me sconosciute. La classica paura dell’ignoto: che succede ora? Cominciavo a vivere un po’ diversamente perché è vero che facevo le stesse cose ma l’attenzione degli altri era cambiata, era diversa, anche a Soccavo dove ci allenavamo. Insomma qualcosa era cambiato”.
Alla fine della stagione conterà solo tre presenze totali in campionato, cinque in Coppa Italia e due in Coppa Uefa risultando quindi utile alla causa partenopea in Europa potendo fregiarsi del titolo vinto in quel di Stoccarda.
A fine stagione lascia il Napoli e si accasa con il Taranto per due stagioni. Arriva poi alla Reggina dove rimane praticamente per quasi tutta la carriera, dal 1991 al 2000 e poi dal 2003 al 2004. Qui inizia a giocare come difensore e diventa anche il Capitano degli Amaranto: guiderà i compagni verso la storica promozione in Serie A. Anche Genoa e Torino sono due tappe di questa splendida carriera prima di appendere gli scarpini al classico chiodo.
Possiamo dire con assoluta certezza di aver incontrato una persona gentile e schietta, una persona molto piacevole da ascoltare, davvero disponibile. Non si tira indietro nemmeno quando parliamo di un problema di salute avuto qualche anno fa…”Nel 2010 mi è stato diagnosticato un male, un brutto male, con poche possibilità di potercela fare. Questo male si era inserito dentro di me, come fa un centrocampista che salta gli avversari e arriva davanti alla porta pronto a scagliare la palla in rete. Ho trovato la forza nei miei figli e nel calcio. Ho trovato la forza di reagire nell’essere padre da un lato, e dall’altra la voglia di sapere cosa facevano i ragazzi della Reggina in campo. I figli e il calcio mi davano l’energia e la forza per essere vivo. Ringrazio il mio vissuto da calciatore e la mia favola sportiva. Non è facile, in alcuni momenti, quando si passa dal sentirsi un “Super Uomo”, quando sei un calciatore e ti alleni, a non riuscire a poterti muovere. Io non potevo più nemmeno prendere i miei figli in braccio. Ci vuole una forza mentale rilevante. Come nello sport. È necessario fare sacrifici per emergere. Bisogna accantonare il “tutto e subito” che spesso oggi i giovani cercano e ritornare all’importanza del percorso, del metodo, del merito del sacrificio. Io sono partito da casa mia che avevo quattordici anni, e ancora devo tornare…”.
Dopo la prosa ecco la poesia…
Video del gol e interviste post partita a Simone Giacchetta
Classe ’68, appassionato di un calcio che non c’è più. Collezionista e Giornalista, emozionato e passionale. Ideatore de GliEroidelCalcio.com. Un figlio con il quale condivide le proprie passioni. Un buon vino e un sigaro, con la compagn(i)a giusta, per riempirsi il Cuore.