GLIEROIDELCALCIO.COM (Tiziano Lanza) – Il nostro viaggio nell’”Evoluzione della tecnica calcistica” continua… Negli appuntamenti precedenti abbiamo approfondito la dotazione tecnica dei primi footballers: scarpe da giuoco, parastinchi e divisa. Successivamente abbiamo cercato di capire come veniva colpito il pallone quando il calcio nacque e poi abbiamo effettuato una panoramica sull’evoluzione del Regolamento del Gioco. Oggi iniziamo a distinguere le caratteristiche dei vari “stili nazionali”, le cosidette “Scuole”.
Buona lettura.
1910-1940: il Trentennio in cui il football diventa “il bel gioco”
Il gioco che i Britannici esportarono in tutto il mondo era dunque un calcio rudimentale e vigoroso. Da quanto abbiamo fin qui visto, fuori dall’Inghilterra nei primissimi anni del Novecento, ciò che si presentava agli occhi dei curiosi era un gioco fatto di contrasti e veri corpo a corpo e copiose mischie, soprattutto davanti alle porte. C’erano lanci lunghi e potenti ribattute; gli “avanti” più virtuosi correvano in posizione di ala e, quando ricevevano la palla, spesso venivano fermati con avventate entrate in tackle lungo la linea dell’out e talvolta con calcioni agli stinchi, nel rozzo ma leale tentativo di togliere palla e arginare il pericolo. Al principio, i calci non proditorii agli stinchi non erano puniti –e ciò spiega l’originario uso dei parastinchi, molto più diffuso che non ad esempio negli anni Settanta.
Ai tempi dei pionieri, tuttavia, il recupero della palla era più una tecnica di intercetto che di contrasto: a centrocampo si cercava di intercettare i lanci o i passaggi dell’avversario, molto più spesso che non portare il tackle, probabilmente perché il dribbling, tutto sommato, era poco praticato –perciò meno redditizio.
I passaggi corti erano soprattutto assist rasoterra –specialità più scozzese che inglese. C’erano gli stop con “il piatto” del piede, ma soprattutto piantando la suola sul pallone; per dirla alla Gianni Brera: “come i cacciatori ritratti con il piede sopra la preda abbattuta”.
Proprio con lo sviluppo dei vari “stili nazionali di gioco” (le scuole) e con il ripetuto confronto fra essi, fiorirono tecniche calcistiche sempre più raffinate, dapprima in Sud America poi nell’Europa Centrale. A questo punto della narrazione, tecnica calcistica ed evoluzione del pallone tornano a intrecciarsi…
Le rozze sfere di cuoio d’inizio Novecento, testimoniano che il colpo di testa nacque di “parto travagliato”. Come a dire che i palloni, con le dure stringhe di cuoio, scoraggiavano tale spettacolare tecnica calcistica; è perciò logico supporre che ciò influenzava l’impostazione sia della difesa che dell’attacco. Certamente, più di livello erano le squadre, e maggiori erano le probabilità che tra le loro fila ci fossero robusti terzini colpitori di testa e, già più raramente, temerari attaccanti con la stessa determinazione. Ma il colpo di testa agli albori del football rimaneva comunque una tecnica poco praticata, addirittura d’élite…
Nel tempo gli sforzi si orientarono a favorire le giocate di testa, prima provvedendo palloni con stringhe più morbide (in tessuto), poi eliminando le stringhe stesse su palloni dotati della valvola di gonfiatura; ecco il classico esempio dell’evoluzione del pallone che cammina di pari passo con l’evoluzione della tecnica calcistica. I palloni con le stringhe, tuttavia, non condizionavano soltanto i colpi di testa, ma anche –forse soprattutto– limitavano i portiere nelle prese, quindi nelle parate cosiddette plastiche: la traiettoria della palla non era mai retta e controllabile, perciò “non affidabile”.
Di fatto, i portieri si esibivano in truculente, talvolta eroiche, ribattute con le mani e con i piedi; ciò sovente favoriva la realizzazione di non pochi goal, a loro volta marcati da lesti giocatori che ribattevano in rete la palla ancora viva. Furono molti gli attaccanti che costruirono la loro fama e carriera sulla sveltezza nell’approfittare delle ribattute dei portieri.
In tale frangente, la costituzione dei palloni condizionava il calcio “sotto porta” e ancor di più le parate dei portieri: chiaramente, un tiro di testa mancato era ininfluente; ma una ribattuta sfortunata, poteva cambiare il risultato della partita. Gol di testa ed eroiche parate di pugno dei portieri si realizzavano durante l’effettuazione dei calci d’angolo. In questo scenario generale, gli stili nazionali di gioco facevano la differenza: erano le famose “scuole del calcio”.
I maestri inglesi non sempre apprezzati
Nel 1914 le squadre inglesi erano nettamente le più forti. Pur tuttavia, durante alcune tournee sudamericane, il loro gioco non entusiasmò gli spettatori; erano particolarmente disapprovate le cariche sull’avversario, che apparivano brutali. Così i pionieri locali di Brasile, Argentina e Uruguay adottarono tecniche a loro più congeniali, che venivano confrontate e conseguentemente affinate in occasione degli incontri internazionali fra le squadre latino americane.
Come osserva lo storico Marco Livrini, la diversa impostazione tecnica fra inglesi e sudamericani era riconducibile a due fattori fondamentali: la gravosa differenza fra i terreni di gioco, e la struttura morfologica dei footballers. Nella terra d’Albionne si giocava su terreni umidi e fangosi e spesso sotto la pioggia; nelle torride lande argentine e brasiliane, povere d’erba e polverose, si poteva giocare anche scalzi. Quanto alla corporatura dei calciatori, le diversità erano anche maggiori: si presentavano aitanti e muscolosi i nordici inglesi, agili e scattanti i sudamericani – fra cui i colored (uomini di colore), dotati anche di una plasticità dei movimenti d’indubbie origini africane.
Le “diversità internazionali” dei pionieri si accentuavano. Nel 1912 il gioco argentino, osservato durante un’amichevole in Brasile, stupì e appassionò gli spettatori brasiliani molto più del football degli inglesi del Corinthias i quali, pur essendo immigrati dilettanti, praticavano il loro classico gioco duro e vigoroso, soprattutto in difesa; gli argentini, invece, giocavano con un maggior controllo di palla, attuando parecchi passaggi, e senza caricare gli avversari. E negli anni a seguire, culminando con il 1920, la stampa sportiva argentina si esprimeva sempre più a favore del calcio della propria scuola, basato soprattutto sul controllo della palla e su tecniche raffinate, perciò nettamente diverso dal football inglese.
Più o meno con le stesse modalità, si affinava il calcio in Uruguay. Dal 1902 uruguagi e argentini si sfidavano in partite appassionanti e focose, fra squadre di club e fra le nazionali. Nello spazio di un paio di decenni, Argentina e Uruguay crearono insieme lo stile di gioco conosciuto come “el fùtbol del Rio de La Plata”.
E’ interessante riportare l’esperienza di una delle migliori squadre di calcio italiane degli anni Venti, il Genoa, campione d’Italia 1922-23. Nell’estate del 1923 i rossoblù s’imbarcarono per una tournée in Sudamerica, e si fecero onore in Argentina, forti anche dell’innesto di altri quattro giocatori di squadre diverse, tra cui il fuoriclasse Baloncieri del Torino. A Montevideo, pur giocando bene, il Genoa uscì sconfitto per 3-1 contro la Celeste; gli italiani rimasero impressionati da una nuova tecnica calcistica praticata dai giocatori dell’Uruguay: la finta di corpo in corsa. Era una mossa fatta con il corpo, atta a disorientare l’avversario; fino ad allora qualcuno la praticava da fermo, sfidando l’avversario a cadere nel tranello. Gli uruguagi invece la praticavano in corsa; e ciò era tanto più difficile quanto efficace. Questa tecnica rimase la più apprezzata dagli stessi giocatori italiani che l’avevano subita.
Nascita delle potenze calcistiche sudamericane
Alle Olimpiadi di Parigi del 1924, la squadra nazionale dell’Uruguay stupì il mondo del calcio, vincendo alla grande il torneo di football, vero mondiale del calcio cui parteciparono ben 22 squadre nazionali. Un filmato dell’epoca, sia pure molto breve, testimonia la bellezza del calcio praticato dagli uruguagi, con finte, passaggi corti e precisi, e deliziosi tocchi di palla.
L’avventura dell’Uruguay alle Olimpiadi del 1924 ebbe anche un prologo piuttosto curioso. Alla vigilia della prima partita, gli allenamenti della squadra sudamericana furono spiati dai giocatori avversari, gli jugoslavi; e questi rimasero divertiti nel vedere i blandi esercizi dei sudamericani, tra cui dei palleggi con palla molto alta che venivano ripetutamente e disastrosamente mancati; gli jugoslavi si sentivano di avere già vinto. L’indomani, l’Uruguay batté la Jugoslavia 7-0; e la marcia trionfale continuò fino al 3-0 nella finale contro la Svizzera. La fig. A.13 è un fotogramma tratto dal filmato di quella finale Olimpica; nell’azione il giocatore uruguagio in possesso di palla, con un dribbling stretto e rapido, ha appena superato un avversario (in maglia scura) che appare visibilmente disorientato: per costui la palla era magicamente “sparita”. Agli occhi di uno sportivo del Duemila, quel calcio sarebbe apparso moderno e soprattutto completo, nella tecnica e negli schemi.
Fig. A.13: Fase di gioco della finale Olimpica 1924 (fotogramma dal filmato ufficiale). I giocatori dell’Uruguay (in maglia chiara) esibirono un calcio spettacolare e virtuoso, ricco di tecnica.
Alle Olimpiadi successive di Amsterdam nel 1928, l’Uruguay rivinse il titolo olimpico-mondiale, stavolta battendo i cugini dell’Argentina nella ripetizione della finale, dopo che la prima partita era terminata in parità. La qualità del gioco espresso dalle due squadre confermava la loro posizione di autentici leader mondiali del calcio. Al torneo del 1928 mancava l’Inghilterra, così come sarebbe mancata ai primi tre Mondiali della FIFA. La sfida tra Argentina e Uruguay divenne un classico e, com’è noto, si ripeté all’edizione del primo Mondiale nel 1930.
Il Brasile si fece notare più tardi, quando i club più importanti cominciarono ad ingaggiare i giocatori neri. Fino al 1925 il futebol era precluso ai neri; ma dal 1925 il più famoso club di San Paolo ruppe gli indugi, e cominciò a schierare diversi giocatori di colore, i quali si dimostrarono determinanti per la qualità e le tecniche del gioco. Lentamente –e non senza contrasti– altri club brasiliani imitarono il San Paolo, e finì che i giocatori neri entrarono anche nella squadra Nazionale verde-oro –che però all’epoca vestiva la maglia bianca. Nel 1938 al mondiale di Francia, il Brasile era già la nazionale più prestigiosa con stelle di assoluto valore mondiale, tra cui il difensore Domingos da Guia e il centravanti Leonidas –proprio due giocatori dalla pelle scura. La tecnica calcistica dei brasiliani era molto fine, con dribbling, palleggi e perfino colpi di tacco. Già da allora, con il Brasile in campo, lo spettacolo era assicurato. Risale a quei tempi la descrizione del calcio brasiliano come “una danza con la palla”; ad inventarla nel 1938 fu l’intellettuale Gilberto Freyre, antropologo e storico brasiliano. Da allora, la metafora del calcio danzato avrebbe accompagnato per sempre il mito della Seleção verde-oro. Negli anni Cinquanta, con l’avvento della televisione, il calcio brasiliano era sempre più apprezzato, al punto da esser considerato il migliore calcio al mondo, anche dagli appassionati europei.
57 anni, tre figli, un cuore che batte per l’Hellas Verona. Tecnologo alimentare specialista in prodotti da forno industriali. Ex arbitro con la passione del calcio in bianco e nero. Collezionista di palloni, in particolare di quelli utilizzati durante i mondiali.