GLIEROIDELCALCIO.COM (Giovanni Di Salvo) –
Quantità e qualità. La romana Federica D’Astolfo è stato lo splendido esempio di sintesi perfetta nell’interpretazione del ruolo della centrocampista, eccellendo sia nella fase di interdizione che di costruzione
Eppure all’inizio giocava nel reparto avanzato e solamente dopo essere passata alla Lazio l’allora Mister della biancoceleste Sergio Guenza trovò la sua collocazione ideale inserendola al centro del gioco dove riusciva a dare l’equilibrio a tutti i reparti. Un cambiamento che andò ad influenzare non solo il suo modo di giocare ma anche quello di pensare, facendogli sviluppare una visione a trecentosessanta gradi che poi ha portato avanti pure quando ha iniziato ad allenare. Federica D’Astolfo è stata anche un pilastro della nazionale, vestendo la maglia azzurra dal 1988 al 2001. Da calciatrice ha vinto il premio come miglior giocatrice della Stagione 1999/00 mentre da allenatrice ha ottenuto per tre stagioni consecutive la prestigiosa Panchina d’argento (dal 2014/15 al 2016/17).
A quale età inizia a giocare e quale è stata la sua prima squadra?
“Era il 1976, avevo dieci anni e la mia prima squadra fu il Bravetta Aurelio. Si trattava di una società di un quartiere di Roma che era stata formata grazie alla buona volontà di un gruppo di genitori le cui figlie erano appassionate di calcio. Nel 1978 esordii in serie C, perché allora non c’erano campionati giovanili, ed in pratica giocavo con ragazze molto più grandi di me. Rimasi lì per sette-otto anni facendo un percorso bellissimo dalla serie C alla serie A. E così nel 1985/86 esordii in massima divisione, con la società che nel frattempo aveva cambiato più volte denominazione fino ad assumere il nome di Urbe Tevere. Ma in realtà potrei dirLe che la mia prima squadra è stata la strada ed i miei compagni di gioco gli amici del quartiere. Facevamo partite interminabili di 5-6 ore al giorno. E credo che quello sia stato il mio allenamento più importante ed anche il mio allenatore più importante! E fino all’età di 17-18 anni, nonostante fossi già nella Bravetta Aurelio, ho continuato a giocare con loro.”
Poi come si articola la sua carriera?
“L’anno seguente, stagione 1986/87, passai alla Lazio e poi ho indossato, nel corso degli anni, le maglie di Women Sassari, Milan, Agliana, Fiammamonza, Modena, Pisa, Foroni Verona, Oristano ed infine Reggiana. Quindi la mia carriera è iniziata nel 1978, col primo campionato di serie C, ed è terminata a Reggio Emilia nella stagione 2005/06 all’età di 40 anni. Praticamente ho fatto tutta la gavetta. Inoltre per un anno dalla serie A sono scesa a giocare in serie A2 con l’Oristano con cui poi ho ottenuto la promozione. Quindi una cosa di cui vado molto orgogliosa è che ho vinto il campionato in ogni categoria, dalla serie C fino allo scudetto. Ritengo che sia una cosa un po’ particolare. Ed anche da allenatrice poi ho fatto un po’ lo stesso percorso perché ho iniziato ad allenare la Reggiana in serie C e poi siamo arrivate, con questo gruppo di ragazzine giovanissime, fino in serie A con la squadra che nell’ultimo anno era diventata Sassuolo. Durante la mia carriera di calciatrice ho conquistato cinque Scudetti (con la Lazio nel 1986/87 e 87/88, Modena nel 1996/97 e 97/98, Foroni Verona nel 2002/03), una Coppa Italia (col Foroni nel 2001/02) e due Supercoppe (col Modena nel 1997 e col Foroni Verona nel 2002).”
Quale di questi trofei sente più suo e ricorda con maggior piacere?
“Il primo trofeo vinto ha sicuramente un sapore particolare. E poi si trattava dello scudetto conquistato con la Lazio che mi ha regalato un’emozione ancor più speciale perché sono romana e tifosa biancoceleste.”
Una volta appese le scarpe al chiodo cosa la spinse, dopo diversi anni, a rientrare nel mondo del calcio femminile nelle vesti di Coach?
“Inizialmente non avevo una gran voglia di rientrare nel mondo del calcio. Infatti, quando ero ancora in attività, a qualsiasi domanda sul mio futuro rispondevo sempre “Io non allenerò mai!” Ed invece mai dire mai perché poi è la vita che ti sorprende.
Conclusasi la mia carriera da calciatrice sono ripartita da una scuola calcio. Dove non vai a ricoprire un lavoro vero e proprio di allenatore ma qualcosa di completamente diverso perché si avvicina più a quello di un educatore e ti permette di mettere sempre al centro il gioco e l’aspetto ludico. Lì sono rimasta diversi anni portando un gruppo di bambini dai Piccoli Amici fino agli Allievi. Poi è arrivata la chiamata di Betty Vignotto, che era Presidentessa della Reggiana, e mi ha detto “Dai devi rientrare nel femminile, non puoi non allenare la mia squadra perché ho un gruppo di ragazzine che giocano in serie C e che hanno più o meno la stessa età della tua squadra Allievi.” Così – grazie all’intuizione di Betty – ho iniziato questo percorso di allenatrice.”
Con la Reggiana, poi diventata Sassuolo, ha ottenuto grandi risultati tanto da ottenere tre panchine d’argento. Quale reputa la sua miglior stagione?
“Ricordo con più affetto la vittoria del campionato di serie C nella stagione 2013/14 perché c’era tutto il gruppo al completo che avevo cominciato ad allenare. Invece nell’anno della promozione dalla serie B alla A abbiamo preso qualche rinforzo inserendo anche delle ragazze con un po’ più di esperienza. Infatti nel corso degli anni ci fu -un po’ perché il livello era aumentato – una selezione quasi naturale e pertanto qualcuna lungo il percorso poi si è persa. Per tale motivo ritengo che la stagione migliore sia stata quella della vittoria del campionato di serie C perché in quell’anno c’erano veramente tutte le ragazze con cui era iniziato il percorso.”
Durante la sua lunga militanza in nazionale ha preso parte a due fasi finali dei Mondiali (1991 e 1999) e a cinque fasi finali di Campionati Europei (1989, 1991, 1993, 1997, 2001). In quali di essi pensa che avevate le potenzialità per fare meglio ?
“Da quel punto di vista non ho nessun rimpianto ma tanto orgoglio perché devi considerare sempre i mezzi che hai rispetto ai risultati che raggiungi. E se poi penso che sono passati 20 anni prima che l’Italia partecipasse nuovamente ad un Mondiale allora vuol dir che quel gruppo – da fine anni Ottanta a fine anni Novanta – era composto da giocatrici con un talento straordinario che forse sarà difficile ritrovare. Se penso a qualsiasi compagna di squadra di allora non riesco a sceglierne una come la più brava. Oltre a calciatrici come Carolina, Betty, Antonella ecc c’erano giocatrici che non facevano gol e non erano sotto i riflettori ma che avevano delle qualità e un talento straordinari, dai difensori ai portieri. Per questo ritengo che in ogni competizione che abbiamo giocato abbiamo fatto bene, facendo la nostra figura. Perché arrivare due volte quasi sul tetto d’Europa nelle condizioni da cui partivamo noi sono state delle imprese pazzesche. Così come arrivare ai Mondiali e fare delle partite importanti contro delle nazionali che avevano dietro delle strutture e un percorso diverso dal nostro, sono stati dei miracoli. Quella lì è stata una generazione eccezionale.”
Con la nazionale ha girato il mondo. Quali sono stati i posti più belli che ha visitato?
“In particolare sono rimasta colpita da Budapest. Non me l’aspettavo così bella, una città veramente meravigliosa. Tutte le volte che ne avevo la possibilità mi piaceva visitare i suoi monumenti.”
E a livello di impiantistica?
“Sicuramente la Germania. Anche negli USA c’erano degli impianti bellissimi però quelli tedeschi erano esclusivamente per il calcio mentre negli Stati Uniti si trattava di strutture polivalenti utilizzate per il football americano ed adattate anche per il calcio.”
Cosa ne pensa del calcio femminile di oggi?
“Se penso a quello che ho vissuto da bambina e a tutti i pregiudizi che c’erano, vedere che adesso una bambina può giocare a pallone con assoluta tranquillità perché nessuno la giudicherà in modo negativo per me questa è la vittoria più bella.
Pertanto ritengo che la strada intrapresa sia quella giusta a patto di riportare più donne nel movimento. Perché a mio parere quello che si sta perdendo adesso è che negli staff tecnici e dirigenziali mi sembra che piano piano le donne siano sempre più mantenute fuori e tenute in disparte. E quindi questo significa fare un passo indietro perché di donne competenti nel calcio femminile ce ne sono tantissime. C’è bisogno che ci sia una maggiore presenza femminile a 360 gradi perché portano un pensiero e un modo di essere comunque diverso che si va ad integrare con i componenti maschili. Per il resto vedo tante cose che stanno migliorando in strutture, mezzi e opportunità purché non si perda il senso della realtà e della misura e la qualità del gioco, che deve sempre rimanere al centro. Solo così può migliorare questo sport. Che però deve rimanere sempre uno sport, altrimenti diventa una involuzione. Se aumentano le possibilità e le competenze è un bene ma se poi tutto ciò deve diventare un business e devono importare solo i soldi, a me non sembra una evoluzione ma una involuzione. Lo vediamo cosa sta diventando il maschile con le società che si indebitano, non si lavora sui settori giovanili e sul tessuto sociale e si buttano via tanti soldi. Allora se questa è l’evoluzione non mi sta bene. Per me l’evoluzione è altro.”
Si ringrazia Federica D’Astolfo per la documentazione fotografica messa a disposizione.
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Per chi volesse approfondire l’argomento:
Giovanni Di Salvo “Quando le ballerine danzavano col pallone. La storia del calcio femminile con particolare riferimento a quello siciliano” della GEO Edizioni.
Giovanni Di Salvo “Le pioniere del calcio. La storia di un gruppo di donne che sfidò il regime fascista” della Bradipo libri (Prefazione scritta dal CT della nazionale Milena Bertolini)