La storia del primo straniero della Fiorentina … Pedro Petrone
per GLIEROIDELCALCIO.COM Francesco Gallo
Arriva l’Artillero
Nel 1931 la Fiorentina è appena stata promossa in serie A. Per questo motivo, serve uno stadio più grande. Lo sa bene il presidente Luigi Ridolfi Vay da Verrazzano. L’ex podestà di Firenze – deputato in tre legislature, capo delegazione alle Olimpiadi di Berlino, presidente del settore tecnico federale, inamovibile presidente della federazione di atletica – fa costruire il nuovo impianto in una zona dove la città si esauriva incontrando il Campo di Marte e la campagna. Poi, così come era stato assai solerte nell’aderire al fascismo nei giorni della Marcia su Roma, adesso vorrebbe portare in Toscana alcuni campioni sudamericani di cui tutti tessono le lodi.
Il primo a farlo è stato l’esperto Renzo De Vecchi, che a Milano ancora tutti chiamavano «il figlio di Dio». Dopo aver vinto il campionato con il Genoa, ha disputato alcune partite contro diversi futuri oriundi nel tour organizzato dai rossoblù in America Latina. In quell’occasione ebbe quindi modo di annotare sul diario personale le impressioni raccolte durante le partite. «Il calcio rioplatense», scrisse, «è un fenomeno di generazione spontanea, favorito dalla possibilità dei calciatori di poter affinare la propria tecnica individuale sui tanti campi ricavati dagli ampi spazi a disposizione. Opportunità di cui i pari età italiani sono privi. Così facendo», concluse, «anche Paesi meno popolosi del nostro (come l’Uruguay) hanno a disposizione una base di reclutamento enormemente più grande».
Il marchese Ridolfi decide quindi di puntare tutto sull’attaccante uruguagio Pedro Petrone, il quale, in soli sette anni, è stato capace di trascinare la Celeste a suon di gol alla conquista di due Coppe América (1923, 1924), due Olimpiadi (1924, 1928) e una Coppa del Mondo (1930).
Urugay Olymp. 1928
La precisione che Petrone ha mostrato nelle aree di rigore in Uruguay, segnando 124 reti tra campionato, Coppe e Olimpiadi, nel 1931 lo fa sbarcare a Genova direzione Firenze. È lui il primo straniero nella storia della Fiorentina. Pedro giunge in Toscana carico di gloria, di fama e di brillantina. Diventerà un idolo, entrando nel mito dei tifosi viola per non più uscirne. Con la Fiorentina segnerà 37 gol in 44 partite, facendo inchinare non solo i tifosi, ma «anche i cipressi di Fiesole», come avrebbe scritto un giornalista. D’altronde non c’era ancora la curva e i cipressi da lassù vedevano tutto. In più, si scrisse che Petrone andava servito in profondità «senza l’intrigo di falsi arresti sul pallone».
Era quella un’epoca in cui, con il Fascismo padrone della stampa, si faceva a gara tra chi inventava i titoli, i resoconti o gli aggettivi più enfatici. Il libello patriottico-linguistico dal titolo Barbaro dominio. Processo a 500 parole esotiche, scritto dal giornalista modenese Paolo Monelli contro gli «inquinatori della patria favella», traduceva, o meglio adattava, in italiano, parole inglesi e francesi. Salvo che per la parola goal, che anche ai più patriottici apparirà intraducibile – come poi avrebbe ammesso anche il radiocronista Nicolò Carosio –, in ambito calcistico dribbling diventerà “scarto”, il cross si tradurrà in “traversone” e trainer in “allenatore”. Anche Petrone avrebbe subito personalmente la diffusione di questa sciocca autarchia linguistica. E così il suo nome sarà italianizzato in Pietro.
Non è chiaro se abbia ritenuto più umiliante questa forzatura linguistica oppure il lesivo spostamento sulla fascia voluto dall’allenatore austriaco Hermann Felsner, reduce da una brillante epopea con il Bologna. Certo è che stanco di questa situazione divenuta per lui soffocante, Petrone farà ritorno in Uruguay imbarcandosi in gran segreto su un piroscafo in una fredda notte di marzo del 1933. Tirerà gli ultimi calci nel Nacional e finirà ad allevare cavalli in una fortunata scuderia che chiamerà “Fiorentina”
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La Generación Dorada e l’identità di popolo
Pedro Petrone, prima di diventare un indimenticato campione viola, si era distinto con la nazionale in ben due edizioni della Copa América. Nell’edizione del 1923 oltre al trofeo, in palio c’è la qualificazione diretta alle imminenti Olimpiadi di Parigi. Chi vince si porta a casa la Coppa e un biglietto di andata e ritorno per la Ville Lumière.
A ospitare la kermesse è proprio l’Uruguay. La Celeste disputa e vince tutte le partite al Parque Central di Montevideo. La nazionale uruguagia esordisce con una convincente vittoria ai danni del Paraguay, in una partita in cui si distingue il nostro Pedro Petrone. Il 2-0 inflitto agli avversari è merito delle sue manovre offensive, che mettono in ginocchio la traballante difesa paraguaiana. “El Artillero”, il cannoniere, in seguito regolerà prima il Brasile (2-1) e infine l’Argentina (2-0), segnando in ogni partita, e consegnando così la quarta Copa América all’Uruguay.
Di fianco a Petrone, al centro dell’attacco dell’Uruguay, gioca Pedro Cea, detto “El Basco” per via delle sue origini iberiche. Anche lui molto veloce, è dotato di una tecnica sopraffina ed è micidiale in area di rigore. Segna tanti gol e altrettanti ne fa segnare. Rimane uno dei pochi attaccanti che faranno carriera anche da allenatori. A copertura di questa squadra votata all’attacco c’è José Nasazzi. È il caudillo della formazione uruguagia, sul braccio porta la fascia di capitano ed è considerato da compagni e tifosi “El Mariscal”, il maresciallo. Ma la stella che brillerà di più alle imminenti Olimpiadi parigine sarà José Andrade. È un centrocampista completo, in grado di difendere e attaccare.
L’Uruguay, in terra di Francia, sarà la formazione simbolo del cosiddetto ideale decoubertiano del gentleman amateur. I giocatori uruguagi, infatti, giocano in cambio di vino, cibo e allegria – per dirla alla Galeano. Di mestiere Nasazzi intaglia il marmo, Cea porta in giro per Montevideo barre di ghiaccio che servono per preparare il gelato, Andrade vende i giornali e lustra le scarpe alla stazione dei tram di Pocitos e Pedro Arispe fa l’operaio in un impianto di refrigerazione.
Gli uruguagi, stanchi di esser considerati una provincia distaccata dell’Argentina, hanno dimostrato che anche un Paese di così piccole dimensioni può ambire alla più grande gloria sportiva. Dopo la doppia vittoria olimpica, il presidente della Federazione Atilio Narancio dichiarerà: «Non siamo più quel piccolo punto sulla carta geografica del mondo». Per questo suo attaccamento alla Nazionale anni dopo gli verrà dedicata una statua davanti allo stadio di Montevideo con una targa che recita: «El Padre de la Victoria». Da Parigi Jules Rimet ha rincarato la dose, sostenendo che una squadra così vittoriosa è «la migliore propaganda per qualsiasi Paese, specialmente per i nuovi Paesi, poco conosciuti in Europa». Ecco perché, anche a distanza di un secolo, risulta ancora così importante la figura di Pedro Petrone. Perché, realizzando 24 gol con la nazionale, ha contribuito enormemente nel creare quell’identità di popolo che l’Uruguay non era riuscita a conquistare neanche con l’indipendenza del 1830.
Nato a Cosenza, classe 1985, è storico, regista cinematografico e scrittore. Autore di diversi saggi e documentari sulla storia dello sport, è anche membro della Siss e dell'Anac. Da qualche anno lavora come supplente a Torino e ha da poco fondato la propria casa di produzione.