LAROMA24.IT (Federico Baranello) – La sofferenza di Francesco Rocca è, purtroppo, proverbiale. Proverbiale però è anche l’amore che i tifosi giallorossi ancora provano per “Kawasaki”. Tante le manifestazioni in tal senso a partire dal suo addio al calcio nel 1981 dove in cinquantamila si stringono intorno al suo dolore, non solo fisico, dovuto ad un ritiro così anticipato, troppo anticipato. Occhi lucidi e cuore gonfio di tristezza per tutti: per Francesco chiaramente, ma anche per tutta la sua gente nell’ultima apparizione nello stadio in cui da bambino scavalcava per ammirare i suoi idoli. Centomila mani che battono tra di loro accompagnate dall’urlo “Francesco, Francesco”.
Ancora oggi è ricordato con grande affetto e amore, anche dalle quelle generazioni di tifosi giallorossi più giovani, che mai lo hanno visto giocare, ma che lo hanno “vissuto”, dramma infortunio compreso, dai racconti dei padri. È tra i primi giocatori ad essere inserito nella Hall of Fame ufficiale giallorossa… lui risponde con la mano chiusa che batte sul Cuore nel giro d’Onore dopo oltre 30 anni dall’ultima volta in campo… l’amore è senza tempo.
Un amore così non poteva non trovare posto nella splendida coreografia nel derby del Gennaio 2015: “Figli di Roma, capitani e bandiere, questo è il mio vanto che non potrai mai avere”. E non è un caso che tutto questo lo abbia portato a dire: “In tanti hanno fatto carriera nella Roma…io c’ho fatto l’amore”. Un amore che lo prende e lo rapisce sin da bambino: “Mi sembra ieri che correvo appresso ai giocatori della Roma, da sempre la mia squadra del cuore. Qualcuno di questi oggi gioca con me, ma prima mi intruppavo con cento altri ragazzini per farmi fare un autografo. Mi sembravano degli dèi, uomini di un altro pianeta. Per vederli giocare, non è che avessi molti soldi, saltavo reti, muretti. In questo dito ho ancora un taglio che mi feci per entrare un giorno da…portoghese allo stadio. Chi avrebbe mai pensato che invece mi sarei trovato accanto a loro, avrei addirittura diviso la loro vita senza neppure dover pagare il biglietto?” (Cit. l’Intrepido, Maggio 1975, di Enzo Tortora). Un amore che lo porta, a soli 15 anni, a marinare la scuola per presenziare i funerali di Giuliano Taccola.
Francesco tira i primi calci nel paese natio, San Vito Romano, per poi passare al Genazzano e poi al Bettini Quadraro, una sorta di succursale della Juventus. La società torinese non crede in lui, anzi l’Osservatore lo scarta perché crede che sarebbe diventato lento e grasso. La Roma invece è pronta a scommettere sulle potenzialità del giovane e cede il 50% del portiere Alessandrelli alla Juventus e acquisisce il 100% del ragazzo di San Vito Romano.
Grande gioia per lui tifoso della Roma che da ragazzino scavalcava i cancelli pur di vedere la sua squadra del Cuore. La Roma gli offre vitto e alloggio al pensionato ad Ostia e 20.000 lire al mese per due anni. Il padre vorrebbe lui facesse l’Idraulico e che continuasse comunque gli studi, ma Francesco ha un sogno: vestire la maglia della Roma. Allora il patto è questo: si allena con la Roma cercando di farsi valere in questi due anni e contemporaneamente frequenta la scuola. Inizia quindi l’avventura.
L’allenatore della prima squadra è in questo momento il Mago Herrera il quale, una volta al mese, si reca al Tre Fontane a vedere i ragazzi che possono fare il “salto” in prima squadra che all’epoca si allenava al Flaminio. Un giorno, durante uno di questi “sopralluoghi” del Mago al Tre Fontane, gli occhi di HH si posano su Francesco Rocca. Un giorno in cui la pioggia la fa da padrone e quell’ “Ala Tornante”, come si chiamava all’epoca, schierato a destra, sfoggia una grandissima partita. Al termine il segretario dell’allenatore informa il giovane Francesco della decisione: “Da domani ti alleni al Flaminio”. Questo, per quel ragazzo, significa partire da Ostia la mattina alle 5,30 per raggiungere lo Stadio Flaminio, allenarsi, e poi tornare a Ostia al pensionato di Via dei Promontori. Alle 18 invece deve ripartire verso Roma dove frequenta le scuole serali. Alle 23, al termine delle lezioni, di nuovo verso Ostia. Il sacrificio e la parola data alla famiglia di continuare a studiare contrassegnano Francesco. Poi la prima convocazione, tra i “sedici” di Herrera che vanno in ritiro pre-partita. Quei ritiri a Grottaferrata, con giocatori del calibro di Ginulfi, Bet, Santarini, Amarildo, Cordova, Vieri e Del Sol. Infine l’esordio, in una giornata amara per i colori della capitale. HH gli concede la possibilità di calcare l’erba della Serie A il 25 marzo 1973 a San Siro contro il Milan.
La Roma perde per 3-1 ma lui ne esce comunque con alcuni commenti positivi: “Rocca si è battuto bene, ma non ha trovato collaborazione…” (Cit. Stampa Sera, 26 marzo 1973).
Dalla stagione successiva diventa titolare inamovibile. Con il numero “3” stampato dietro la maglia mette in campo ciò che la natura gli ha donato: velocità e rapidità che gli valgono il soprannome di “Kawasaki”. Difensore attento e pronto a far ripartire l’azione in velocità, in grande velocità, seguito dal “rombo” della sua moto. Con la costanza e l’applicazione negli allenamenti perfeziona anche la tecnica e la potenza atletica. Conquista in questo periodo anche la Nazionale. È ormai un beniamino dei tifosi. Ma lui mantiene i piedi ben saldi a terra, nessun volo pindarico anzi: ” So che oggi tutto mi va bene, ma domani potrebbe improvvisamente cambiare. La mia è una professione nella quale la fortuna gioca un ruolo determinante…” (Cit. l’Intrepido, Maggio 1975, di Enzo Tortora).
Niente di più profetico…purtroppo. Oggi però godiamoci l’esordio.