Invincibilità: è il mito che si insegue nello sport, così come nella vita si insegue l’immortalità, ed entrambe le cose restano una chimera, un sogno irrealizzabile
Nel calcio ci si può illudere, quando le congiunture divine e astrali fanno sì che si crei una squadra con un’alchimia particolare che può portare allo stato d’invincibilità per un periodo più o meno lungo, ma poi quello stato, inevitabilmente, termina.
A volte, poi, questo mito dell’imbattibilità risulta un po’ artefatto, costruito apposta per alimentare una leggenda che, in realtà, non è.
Gli inglesi si vantavano di aver regolamentato il calcio moderno, nel lontano 1863, e per presunzione, ma anche realtà dell’epoca, si ritenevano superiori a tutti, teoria questa suffragata dai fatti, seppur relativi.
Potevano, infatti, vantarsi di non aver mai perso in casa da una nazionale continentale, da quando anche nelle altre nazioni il calcio era diventato una cosa seria, mai Albione era stata violata.
In realtà gli inglesi mistificavano questo dato, perché sui loro campi di sconfitte ne avevano conosciute, e anche di sonore, ma solo dalle altre “sorelle”, Galles, Irlanda e Scozia, e principalmente nel Torneo Interbritannico, competizione più antica del mondo, che vide la luce nel 1884 e l’ultima edizione giocata nel 1984.
Sconfitte interne, se così vogliamo chiamarle, tranne quella del 14 febbraio 1914, quando a violare Middlesbrough fu l’Irlanda del Nord, non ancora passata sotto il controllo della Football Association, ma fu una sconfitta “straniera” solo per la statistica.
Dall’alto del loro superiority complex gli inglesi erano soliti sfidare in amichevoli di prestigio le migliori nazionali dell’epoca, come capitò alla nazionale italiana che, appena laureatasi campione del mondo, salì a sfidare la nazionale dei Tre Leoni il 14 novembre del 1934, finita sconfitta per tre a due ma protagonista di una prova di tale orgoglio da far diventare gli italiani i “Leoni di Highbury”.
Quell’isolamento forzato e spocchioso, quel ritenersi tenacemente superiori agli altri tecnicamente e tatticamente, quella costante chiusura ad aprirsi al campionato del mondo, anche per ragioni politiche, però, non aveva fatto progredire il gioco inglese, ancorato all’ormai obsoleto “sistema”, inventato nel 1925 da Herbert Chapman per il suo Arsenal e diventato marchio di fabbrica degli albionici.
Il mondo si muoveva, però, l’impianto scricchiolava, come dimostrò la cocente sconfitta dell’Inghilterra contro i dilettanti degli Stati Uniti ai mondiali brasiliani del 1950, ma gli scricchiolii non erano avvertiti.
Intanto in Europa iniziava a soffiare impetuoso il vento dell’Est, che aveva le sembianze e i colori dell’Ungheria.
I magiari avevano vinto l’oro olimpico ai Giochi di Helsinki del 1952, dettavano legge su tutti i campi del Vecchio Continente, e ora dovevano dimostrare il loro valore nella classica sfida all’Inghilterra, fissata per il 25 novembre 1953.
Quella nazionale era fondata principalmente su due blocchi, quello della Honvéd di Budapest e quello dell’MTK di Budapest, schierando campioni inarrivabili quali Gyula Grosics in porta, Gyula Lóránt indifesa, Joszef Zakariás a centrocampo, con in avanti i giocatori migliori: László Budai, Zoltán Czibor, Nándor Hidegkuti, Sándor Kocsis, Ferenc Puskás.
Dietro questi giocatori, però, c’erano un braccio e una mente ben identificati.
Il braccio fu James Hogan, un allenatore inglese finito in Ungheria a causa delle vicende della Prima guerra mondiale, che fece conoscere questo sport ai magiari creando lo “stile danubiano”.
La mente fu Gusztáv Sebes, il commissario tecnico di quella nazionale che, assecondando le grandi qualità dei suoi giocatori, ideò un nuovo sistema di gioco, schierando due soli attaccanti e arretrando il centravanti (Hidegkuti) sulla tre quarti, con principi di gioco che sarebbero stati poi affinati un ventennio dopo nel “calcio totale” olandese.
Quel sabato di novembre era perciò viva l’attesa del pubblico, tanto da riempire Wembley di centomila anime, che da subito dovettero soffrire, ma anche ammirare, un gioco nuovo.
L’arbitro olandese Leo Horn aveva dato inizio al match da un solo minuto, e già Gilbert Merrick, il portiere britannico, doveva raccogliere il primo pallone in fondo alla rete, scagliato da Hidegkuti.
Aveva valori tecnici comunque importanti l’Inghilterra, il pareggio arrivò presto ad opera di Jackie Sewell, ma fu un lampo effimero nella tempesta che stava arrivando.
Il problema non era, e non fu, che la nazionale assemblata dal giovane commissario tecnico Walter Winterbottom stesse giocando male, ma che fu proprio surclassata dal punto di vista tattico prima che tecnico, il continuo movimento offensivo magiaro mandò in totale confusione gli albionici, che alla mezzora avevano subito altre tre reti, con un gol ancora di Hidegkuti e una doppietta di Puskás, con la rete di Stanley Mortensen a chiudere sul quattro a due esterno la prima frazione.
Nel secondo tempo lo spettacolo ungherese continuò, ancora e sempre Hidegkuti e Boszik trovarono la via della rete, un rigore trasformato da Alf Ramsey fissò il punteggio sul tre a sei, che sarebbe stato anche il risultato finale.
Probabilmente fu in quella partita che nacque il mito dell’Aranycspat, la Squadra d’Oro, gli inglesi, increduli, proposero subito una rivincita in Ungheria, ma l’esito fu ancora più disastroso, con il sette a uno finale che resta la sconfitta peggiore, nella storia della nazionale dei Tre Leoni.
La nazionale ungherese sembrava avviata verso la gloria, alle grandi vittorie di quel periodo mancò solo il sigillo finale, con il trionfo ai mondiali sfiorato, in Svizzera nel 1954, con una incredibile finale persa contro la Germania Ovest, dopo essere andata sul due a zero, passando poi nel mito definitivo quando i carri armati sovietici invasero l’Ungheria nel 1956 portando al definitivo scioglimento della nazionale.
Quel 25 novembre del 1953, comunque, resta nella storia come il giorno in cui i “maestri” inglesi dovettero andare a lezioni di magiaro.