LAGIORNATASPORTIVA.IT (Simone Cacurri) – “Il calcio che mi piace non è Dostoevskij, è Hemingway”. Questa definizione non è di un critico letterario amante del pallone, ma di un allenatore. Un uomo apparentemente burbero ma appassionato di poesia, un uomo di un calcio che sembra così lontano, oggi, nel tempo del business. Eppure, Enzo Bearzot, che oggi avrebbe compiuto novantadue anni, è più che mai vivo. Perché appartiene a qualcosa che trascende il tempo, appartiene alla memoria collettiva, quella su cui si fonda ogni cultura, anche quella calcistica.
Alzi la mano chi al solo sentirlo nominare non associ un’immagine. La pipa, la corsa sfrenata di Tardelli al secondo gol della finale mundial. O quella partita a scopone con un altro archetipo italiano di passione e di pipa, Sandro Pertini (“Bruci le sue delusioni e le sue amarezze nel fornello della pipa…”, amava dirgli) come non fossero l’uno il presidente della repubblica e l’altro l’allenatore della squadra neocampione del mondo ma due amici in qualche osteria di paese. Accanto a Zoff e Causio, un po’ imbarazzati, gli urlò a telecamere aperte: “Hai sbagliato Bearzot! Lo faceva lui il sette!”.
Alzi la mano chi non ha mai sentito gridare Nando Martellini e chi, soprattutto tra i meno giovani, non associ quell’esperienza a un proprio ricordo personale. Sì, perchè in fondo è questo il bello dell’essere umano, quello di saper condividere vite e stagioni diverse dalla propria, intrecciate in un unico destino, come un filo rosso, un fiume ctonio di storia e di tradizione. L’uomo tra gli uomini. E Bearzot, uomo lo era davvero.
LA STORIA E LA LEGGENDA: GLI ANNI DA CALCIATORE (1948-1957)
Trieste è una città magica. Punto di partenza e di arrivo di gran parte del novecento letterario (“Trieste è la mia anima” asseriva Joyce) e artistico, città di cultura, città di porto, di tradizione e innovazione, di semplicità e di eleganza. Città di volti arcigni, smussati dalla bora, e di animi tenerissimi. Trieste è una metafora perfetta per capire chi fosse Bearzot. Friulano di Aiello, il “Vecio” (soprannome che, a testimonianza di quanto fosse letteraria la sua vita e di quanto il suo spirito appartenesse alla tradizione più che alla contemporaneità, gli venne dato da Giovanni Arpino nel suo romanzo “Azzurro tenebra” all’ancora giovane età di 47 anni) abbandona gli studi classici (ma non le letture, i greci e i latini, e soprattutto tanta poesia contemporanea, da Saba a Pasolini passando per Hikmet) e il suo futuro di farmacista per dedicarsi sin da ragazzo al calcio.
Prima nella sua città, poi Gorizia, Inter, Catania, il Torino del dopo Superga, ancora Inter e ancora Torino, di cui, disse Cesare Maldini (toh, un altro triestino): “Aderiva perfettamente allo spirito”. Ma la carriera calcistica non gli riserverà fortuna, il carattere e l’intelligenza non erano supportati dalle capacità tecniche. O forse più semplicemente, gli dèi del calcio gli stavano assegnando un futuro più grande.
IL MITO: GLI ANNI DA ALLENATORE (1968-1986)
“Scominza a darme una màn…”, comincia con queste parole la carriera di Bearzot come allenatore. A dirle, ca va sans dire, un altro triestino, Nereo Rocco, suo allenatore del Torino che gli affida la De Martino. Poi quando a succedere al “paròn” arriverà “Mondino” Fabbri, Bearzot sente che è arrivato il momento anche per lui di cambiare aria, a Prato, in serie C. Ma i club, evidentemente non fanno per lui e fortuna vuole che l’ennesimo triestino, Ferruccio Valcareggi, il suo grande amico “Uccio”, lo chiama in Federcalcio. Il Vecio e Uccio saranno fianco a fianco nella grande esperienza di Messico ’70 e in quella “azzurro tenebra” di Germania ’74.
Nel 1975 finalmente l’esperienza da solista, decisiva, da allenatore dell’Under 23 dove avrà modo di costruirsi, con grande lungimiranza e qualità da talent scout (porterà in nazionale Cabrini, Rossi e Tardelli – vi dicono niente questi nomi?), le basi per quell’epifanìa mistica che sarà il Mundial del 1982. In Spagna, Bearzot porterà la solida certezza di un gruppo che per buona parte in Under e poi dal 1977 in Nazionale maggiore si è legato a doppio filo con il suo fare paterno. Un gruppo che, a dispetto del suo vecchio cuore granata, è per gran parte di juventini a discapito dei torinisti: Causio preferito a Claudio Sala, Roberto Bettega a Paolo Pulici, Dino Zoff a Luciano Castellini, Marco Tardelli e Romeo Benetti sopra a Eraldo Pecci e Patrizio Sala.
Tuttavia è un gruppo di uomini veri, di individualità forti e apparentemente diverse, unite insieme con grande maestrìa musicale. Come uno spartito jazz, il genere che Bearzot amava di più. Quell’avventura mondiale non parte coi migliori auspici, la squadra si qualifica agli ottavi per il rotto della cuffia. Bearzot è oggetto del fuoco amico della carta stampata, l’eliminazione pare segnata appena escono gli accoppiamenti (seconda fase a gruppi, eliminazione diretta): l’Argentina di Maradona e il Brasile di Zico, Socrates, Falcao e Cerezo (forse il più forte di tutti i tempi dopo quello di Pelé).
L’Italia, da regolamento, è costretta a vincerle tutte e due. Sembra un’impresa impossibile. Ma il Vecio, si ispira a Hemingway e sa bene che quella deve diventare una faccenda per uomini, per uomini veri: una corrida, visto che siamo in Spagna. Perché bisogna accarezzare la morte, per poter vivere. E allora Gentile che si incolla a Maradona e Zico (famosa la protesta del dieci verdeoro che mostra la maglia strappata dalla trattenuta del difensore azzurro); Tardelli che suda, inventa e segna; Cabrini che spinge sulla fascia; Conti (eletto alla fine miglior giocatore del mondiale) che delizia; “Pablito” Rossi che segna, sempre da allora in avanti; e poi Graziani, Antognoni, Zoff, “Spillo” Altobelli e tutti gli altri. L’Italia lotta, soffre e vince. Gli italiani se ne innamorano, come forse non faranno mai più per una squadra nazionale.
E in panchina sempre lui, il “Vecio”, con quell’aria serena e burbera. Polonia in semifinale e Germania Ovest in finale, pagine vive, non c’è quasi bisogno di ricordarle. “Non ci pigliano più!” grida il “compagno “Pert” dalla tribuna d’onore al nostro terzo gol, sembra impazzito, tanto che se non sta attento cade di sotto dalla balaustra. Siamo campioni del mondo. Lo siamo in un modo che ci fa impazzire di gioia, che forse come non mai ci fa sentire italiani, da Trieste a Ragusa. Il “Vecio”, divenuto oramai un eroe eponimo, pagherà l’apogèo. Male agli Europei dell’84, male al Mondiale dell’86. Finirà la sua carriera sempre in Federazione, fino al 2006, alternando momenti buoni ad altri meno buoni.
Ma chi se lo ricorda più? Come in una vera grande storia d’amore, anche quando finisce male, a lungo andare restano soltanto i ricordi belli. Bearzot spegnerà per sempre la pipa nel 2010, ora riposa a Paderno d’Adda. Ma, come scritto all’inizio, il suo ricordo è qualcosa che non morirà mai, perché legato più di ogni altro al cuore di ogni italiano amante del calcio. Grazie ancora “Vecio”…e chi ti dimentica…