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La Penna degli Altri

29 agosto 1981 – L’addio di Francesco Rocca

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LAROMA24.IT (Federico Baranello) – La storia di Francesco Rocca è una di quelle che accarezzano i sentimenti. E’ una storia che lega ogni tifoso al sodalizio giallorosso più di quanto non riesca una vittoria o un trofeo vinto. E la bacheca di Trigoria testimonia in maniera inconfutabile come il sentimento che ci unisce è davvero “oltre il risultato”. È un amore fatto di storie di uomini e di grande, anzi grandissimo, senso di appartenenza. Appartenenza a questi colori che Francesco ha sin da piccolo: “Mi sembra ieri che correvo appresso ai giocatori della Roma, da sempre la mia squadra del cuore. Qualcuno di questi oggi gioca con me, ma prima mi intruppavo con cento altri ragazzini per farmi fare un autografo. Mi sembravano degli dèi, uomini di un altro pianeta. Per vederli giocare, non è che avessi molti soldi, saltavo reti, muretti. In questo dito ho ancora un taglio che mi feci per entrare un giorno da…portoghese allo stadio. Chi avrebbe mai pensato che invece mi sarei trovato accanto a loro, avrei addirittura diviso la loro vita senza neppure dover pagare il biglietto?” (Cit. l’Intrepido, Maggio 1975, di Enzo Tortora).

Francesco tira i primi calci nel paese natio, San Vito Romano, per poi passare al Bettini Quadraro e poi alla Roma. Herrera lo fa esordire in Serie A il 25 marzo 1973 a San Siro contro il Milan. Dalla stagione successiva diventa titolare inamovibile. Con il numero “3” stampato dietro la maglia mette in campo ciò che la natura gli ha donato: velocità e rapidità che gli valgono il soprannome di “Kawasaki”. Difensore attento e pronto a far ripartire l’azione in velocità, in grande velocità. Con la costanza e l’applicazione negli allenamenti perfeziona anche la tecnica e la potenza atletica. Conquista in questo periodo anche la Nazionale. È ormai un beniamino dei tifosi. Ma lui mantiene i piedi ben saldi a terra, nessun volo pindarico anzi:” So che oggi tutto mi va bene, ma domani potrebbe improvvisamente cambiare. La mia è una professione nella quale la fortuna gioca un ruolo determinante…Perciò bisogna sempre stare molto attenti a non sopravvalutarsi, ed essere così sempre pronti a tutto” (Cit. l’Intrepido, Maggio 1975, di Enzo Tortora). Parole che racchiudono un presagio, un triste presagio. Così il 10 ottobre 1976 durante la partita in casa con il Cesena prende una “botta” al ginocchio sinistro. Non vuole però perdere la possibilità di giocare con la Nazionale e, con il ginocchio gonfio, parte per Lussemburgo per quella che sarà la sua ultima partita con la maglia Azzurra. L’Italia vince per 4-1 e lui disputa l’intero incontro forse peggiorando la situazione. Torna a Roma e durante gli allenamenti il ginocchio cede: rottura menisco, interessamento dei legamenti e della capsula del ginocchio, distacco osteo-cartilagineo del condilo femorale interno: un gran disastro.

Torna in campo nell’Aprile del ‘77 ma finisce di nuovo sotto i ferri ed è costretto a saltare l’intero campionato successivo. Riesce poi a scendere in campo con buona continuità, collezionando 37 presenze totali, nelle stagioni 78/79 e 79/80. Nella stagione 80/81 una serie di problematiche fisiche legate all’infortunio lo costringono troppo spesso a non scendere in campo registrando alla fine solo 6 presenze. Inizia la stagione 1981/82 e Francesco riparte verso Norcia per il ritiro con la squadra. Ma il verdetto del campo, a seguito degli sforzi della preparazione, è impietoso: il ginocchio torna a gonfiarsi e fa male, troppo male. Così dopo un lungo calvario durato cinque lunghi anni, tra speranze ed illusioni, ritorni in campo e nuovi infortuni e soprattutto dopo cinque interventi chirurgici, il 3 agosto 1981 Francesco Rocca dichiara: “Lascio il calcio, non voglio rimanere zoppo”.

Si consuma così il suo addio al calcio giocato e l’occasione è l’amichevole con l’Internacional di Porto Alegre in programma il 29 Agosto 1981, quando ha appena 27 anni. In cinquantamila si stringono intorno al suo dolore per doversi ritirare, suo malgrado, così presto, troppo presto. Occhi lucidi e cuore gonfio di tristezza per tutti. Lui gioca una partita vera, la sua ultima apparizione nello stadio in cui da bambino scavalcava per vedere i suoi idoli. Tutti scandiscono il suo nome. Nel ritmo di centomila mani che battono tra di loro accompagnate dall’urlo “Francesco, Francesco” lui corre, scatta, dribbla per l’ultima volta. Pruzzo segna e lui è il primo ad abbracciarlo. Il ginocchio però comincia a fare male e al 19’ alza il braccio: è tempo di andare. Del resto era previsto, i medici erano stati chiari: solo quindici minuti. La partita si interrompe per rendere il giusto omaggio ad un campione sfortunato. I compagni lo abbracciano, il momento è duro. Le lacrime gli solcano il viso, è inevitabile. Sui tabelloni la scritta “Grazie Francesco”. Inizia il giro di campo alla testa dei ragazzi che andrà ad allenare, ai futuri campioni. Si ferma sotto la Sud, una Sud a cui mancano circa dodicimila posti per i lavori di ristrutturazione. “Lode a te Francesco Rocca” gli urla lo stadio. Sono momenti di grande emozione, sono momenti giallorossi.

Sotto il tunnel che porta negli spogliatoi le sue prime parole sono: “Ho detto solo ciao, arrivederci in Tribuna perché voglio vederli con lo Scudetto”. La partita riprende senza Kawasaki e terminerà 2-2.

Ancora oggi è ricordato con grande affetto e amore, anche dalle successive e più giovani generazioni di tifosi giallorossi. È tra i primi giocatori ad essere inserito nella Hall of Fame ufficiale. Così come occupa un posto nella splendida coreografia nel derby del Gennaio 2015: “Figli di Roma, capitani e bandiere, questo è il mio vanto che non potrai mai avere”.

“E che importa l’età dell’addio, se alla fine è l’osanna” (Cit. Il Tempo, 30 agosto 1981).

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