GLIEROIDELCALCIO.COM (Massimiliano Morelli) – Quando sfiora con i guantoni l’erba appena nata del San Nicola, Stojanović si guarda attorno e sente nell’aria che quello stadio, che ancora non aveva festeggiato il suo primo compleanno, ha qualcosa di familiare. Forse è colpa dei colori che aveva visto impressi nell’anima della città pugliese, quello stesso bianco e quello stesso rosso, che il capitano della Crvena Zvezda, la Stella Rossa di Belgrado, e i suoi compagni portano cuciti sulle maglie.
Probabilmente prepararsi a scendere in campo davanti ai 56 mila di Bari non è esattamente come il giro di riscaldamento a cui erano abituati a casa loro, nella bolgia del Marakana, quello con l’accento sulla penultima a, il gemello diverso del fratello di Rio.
Il Red Star Stadium è la culla infuocata dove era stato partorito quel sogno, un catino bollente capace di contenere 100 mila persone, a volte anche di più, come in una notte di aprile del ’75, quando a vedere Stella Rossa–Ferencváros, in Coppa Coppe, accorsero in 110 mila.
Eppure, quel 29 maggio del ’91, il San Nicola non ha nulla da invidiare ai grandi teatri del calcio europeo. Bari ha apparecchiato al meglio la sua notte più importante, prima ed unica finale italiana, lontana da Milano e Roma, della Coppa dei Campioni, apice irraggiunto del potere dei Matarrese sul calcio italiano di allora.
I cori assordanti dei 30 mila Delije, che avevano solcato l’Adriatico per ricostruire al San Nicola il muro biancorosso del Marakana, rendono ancora più elettrica l’atmosfera.
C’è l’Europa a guardare. E non solo quella calcistica.
Belgrado è in quel preciso istante il simbolo di un mondo, e di uno Stato, la Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia, che vacilla sotto i venti sferzanti della storia. Il calcio è rimasto l’ancora di un popolo che navigava verso la tempesta. Un po’ collante, un po’ detonatore. Soltanto un anno prima, al Maksimir di Zagabria, il conflitto che serpeggiava sotto la pelle di un popolo tenuto a fatica insieme dal sogno utopico del defunto Tito, era esploso in tutta la sua violenza, proprio al termine di un accesissimo match tra Dinamo e Stella Rossa. I Bad-Blue Boys di Zagabria se l’erano date di santa ragione con i supporter serbi guidati dalla celeberrima tigre Arkan, coinvolgendo persino Boban e compagni sul terreno di gioco.
La Jugoslavia del 90-91 è una polveriera, che proprio, ed ancora una volta, il calcio aveva tenuto per un momento sopita. È appena trascorsa l’estate italiana, quella in cui la più bella nazionale slava di sempre, ha dato spettacolo al Mondiale, arrendendosi soltanto nei quarti contro l’Argentina, per un errore di Hadžibegić dal dischetto, quell’ultimo rigore di Faruk, cantato da un bellissimo libro di Gigi Riva, sulla storia sportiva del conflitto balcanico.
Per tante di queste ragioni, l’aria sapida di mare e speranze, che arriva quella sera con la brezza al San Nicola, ha il profumo di un momento irripetibile.
Lo sa bene Ljubomir “Ljupko” Petrović, stratega schivo di un calcio champagne al gusto di slivovitz, il distillato di prugne che scorre nelle vene dei suoi scostanti campioni. Con il suo kloppismo ante-litteram li ha trascinati fino a quel match. Sorpresa tra le sorprese di una coppa per certi versi indimenticabile. La dura legge del Marakana quell’anno ha fatto vittime illustri in giro per l’Europa. In un crescendo di forza e spettacolarità, la municipale balcanica di Belgrado si è sbarazzata agevolmente delle cavallette di Grassophers, ha schiantato i Rangers dell’ex doriano “Charlie Champagne” Souness, devastato con un finale thrilling e violento la Dinamo Dresda, fossile vivente di uno stato ormai estinto (la DDR era stata bandita dalle mappe d’Europa il 3 ottobre dell’anno prima), e costretto alla resa i grandi favoriti di allora, il Bayern di Brian Laudrup ed Augenthaler, profanando l’Olympiastadion, all’andata, e resistendo epicamente al ritorno, in un turno semifinale che per molti è stata la vera finale morale di quel torneo.
Ad attenderla, nell’astronave barese, una compagine che gode di tutti i favori dei pronostici di quella sera. Bernard Tapie, facoltoso e spumeggiante tycoon marsigliese, era entrato a gamba tesa sul calcio francese del tempo, con l’intento di rendere l’Olympique l’alter ego transalpina del Milan del Cavaliere. Imbottita dai miliardi del patron dell’Adidas, l’OM si era aggiudicata gli ultimi tre scudetti in patria, e puntava a lasciare Bari con la coppa dalle grandi orecchie in valigia. I bianco-azzurri sono arrivati a quell’appuntamento passando soprattutto dal gesto assurdo di Galliani al Velodrome, che aveva letteralmente spento la luce sul cammino europeo dei rossoneri, e si presentano al cospetto degli avversari, schierando una formazione galactica, che annovera tra le sue fila campioni del calibro di Jean-Pierre Papin, Abedi Pelé e Chris Waddle, tra i più quotati del calcio di allora. Siede in panchina, tormentato dagli infortuni, la stella più attesa del match. Dragan “Piksi” Stojković, forse il più fulgido talento del calcio jugoslavo degli anni ’90, è il grande ex dell’incontro. Protagonista indiscusso del mondiale in Italia, e idolo del Marakana, Dragan è arrivato a Marsiglia soltanto un anno prima, ciliegina sulla torta della faraonica campagna di Tapie, che non ha esitato a riempire di dinari le casse di Belgrado, per portare in Francia il Maradona dei Balcani. È una notte di forti emozioni per “Piksi”, che ha vestito la maglia con la stella rossa in petto, per quattro lunghi anni.
In campo di amici ce ne sono tanti. Alcuni hanno fatto il Mondiale con lui. Tante patrie per una sola bandiera. Come Darko Pančev, macedone, il Cobra, che prima di diventare bersaglio della Gialappa’s in nerazzurro, sta vivendo l’anno della consacrazione e della Scarpa d’Oro europea. C’è la chioma bionda di Robert Prosinečki, croato, talento cristallino e maledetto, che finirà a suon di miliardi, 28 delle vecchie lire, alla corte del Real. C’è il Genio montenegrino, Dejan Savicevic, che con quella maglia farà innamorare perdutamente Berlusconi, e sarà il suo regalo graditissimo per il Milan che verrà.
Sulla splendida linea mediana biancorossa, trovano posto due giovani, attesi da un grande futuro in Italia, i serbi Vladimir Jugoviċ e Sinisa Mihailoviċ, sì, proprio lui, coperto da una folta chioma di ricci ribelli.
In campo i balcanici schierano un solo straniero, il serbo-rumeno Miodrag Belodedici, che ha già portato al trionfo europeo lo Steaua, prima di scappare da Bucarest, in barba ai regolamenti del regime che vietavano i trasferimenti all’estero degli atleti di Ceaușescu.
L’Europa del calcio guarda con fervente attesa alla notte di Bari. E rimane parzialmente delusa quando si aprono le ostilità e la partita scorre contratta e ben al di sotto delle aspettative. La contesa è aspra, e si trascina lenta, priva di colpi di scena, verso il novantesimo ed oltre, fino ai supplementari. Per una sera dimentico del suo calcio offensivo, il pragmatico Petrović ha preparato i suoi ad una notte di attesa. Come confesserà al termine dell’incontro, l’indicazione impartita alla squadra era di arrivare, sornioni, alla lotteria dei rigori. E giocarsela lì. Di par suo, l’OM non riesce a divincolarsi dalla morsa tattica dei rivali. E anche i supplementari scorrono senza alcuna emozione, fatto salvo l’ingresso sul finale di Stojković. Un boato scuote il San Nicola. Non è il pubblico francese che lo acclama, sono gli applausi della sua gente, di chi non lo ha mai dimenticato.
Piksi è entrato per calciare dal dischetto. Ma nell’epopea romantica di quella serata incredibile, c’è spazio anche per lo gran rifiuto. Stojković si avvicina a Goethals, e mentre il coach marsigliese si appresta a comunicare il suo nome nella cinquina, gli fa un segno di diniego. Il figliol prodigo non tradirà il suo cuore. Ed il suo cuore è ancora e per sempre a Belgrado.
Sembra un segno. Poco dopo il primo sigillo di Prosinečki, Stojanović distende i guantoni a neutralizzare il tiro fiacco di Amoros. Da quale momento in poi non sbaglia più nessuno. La lotteria prosegue fino a che Pančev non manda nel sacco un penalty scritto nella storia.
Una grande Stella Rossa venuta da Belgrado incendia la notte di Bari. Il pubblico, italiano come l’arbitro dell’incontro, il nostro Tullio Lanese, è testimone di un’impresa. Quella squadra di talenti meravigliosi e folli, come le orchestre della loro terra natia, issa in cielo la coppa più bella e con essa l’apice più alto mai toccato dal calcio jugoslavo. Quella vittoria sarà il canto del cigno di una generazione di campioni e di un popolo che la guerra ridurrà in mille frantumi. Poco più di un mese dopo, l’esercito jugoslavo invaderà militarmente Slovenia e Croazia, autoproclamatesi indipendenti. Sarà l’inizio di un lungo e sanguinoso conflitto. Che spazzerà via ogni traccia della vecchia Jugoslavia e del suo melting pot.
Tutte, tranne il ricordo di quella notte barese. Che, a quasi trent’anni di distanza, riecheggia ancora sui muri e nelle memorie di una rinata e moderna Belgrado. Unica gioia di un decennio crudele.