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30 maggio 1984: la Roma cade ai rigori con il Liverpool

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30 maggio 1984: la Roma cade ai rigori con il Liverpool

Tutto idealmente ha inizio con la partita  Dundee United – Roma. 11 aprile 1984. Semifinale di andata di Coppa dei Campioni stagione 1983 – 84. Roma senza Falcao e senza Bonetti. La magica tiene testa nel primo tempo al forsennato ritmo degli scozzesi e manca almeno due occasioni ghiotte. La Roma gioca senza Falcao, il suo regista e la sua fonte di ispirazione principale, mancando anche Ancelotti, ormai da mesi. Così si schiera con Righetti e Nela centrali, Oddi e Maldera terzini, Di Bartolomei, Cerezo e Conti centrocampisti, Chierico ala, Pruzzo e Graziani avanti.

Di fatto la Roma finiva sotto il pressing scozzese. Come detto, nel primo tempo ha retto gli scozzesi, che, il più delle volte, hanno attaccato con inutili lanci lunghi. Se è vero che i padroni di casa 3 o 4 buone palle gol le hanno costruite, è anche vero che la Roma in forse altrettante occasioni avrebbe potuto segnare.

All’8’ Nela passa a Oddi, a cui Stark sottrae palla: per fortuna interviene Righetti. Al 13’ grossa occasione per la Roma: Cerezo disimpegna per Chierico, che in area crossa per lo stesso Cerezo, che, solo davanti al portiere, non aggancia. Al 22’ Nela manda in angolo un pallone pericoloso. Dopo il conseguente angolo, una parata di Tancredi su Milne, chiude la questione. Buona possibilità ancora per i giallorossi al 25’ quando Cerezo avviava un’azione coinvolgendo Chierico a sinistra: cross per Graziani e traversa, sia pure esterna. Altra chance al 44’ quando Chierico ha dato in area avversaria a Maldera, che ha tirato sul portiere.

Nella ripresa la Roma cede. Il Dundee attacca spesso anche in 8 uomini, la Roma è come schiacciata. Al 49’ Dodds fa gol approfittando di una mischia, dopo un lancio corto di Di Bartolomei. Dopo due minuti Kirkwood con tiro sfiora il palo. E qualche secondo dopo Milne è una minaccia concreta. Di fatto è un assedio. Al 61 il Dundee raddoppia: Sturrock avanza a sinistra, supera Oddi e crossa per Stark che con un tiro di destro sorprende Tancredi. Il quale alcuni minuti dopo deve salvare d’istinto sullo stesso Stark. Al 69’ Sturrock potrebbe fare centro di testa. La Roma ormai non c’è, e solo un tiro di Chierico al 37’ dà qualche illusione.

Liedholm a fine partita è apparso deluso e ha sostenuto che i gol subiti erano evitabili con più attenzione. Ha ammesso che la Roma non aveva saputo spezzare il ritmo degli avversari osservando che se i giallorossi fossero andati in vantaggio nel primo tempo, la partita avrebbe potuto prendere un’altra piega. Liedholm, però, non si dichiarava battuto: la rimonta si sarebbe potuta concretizzare: il barone credeva che gli scozzesi non fossero squadra da amministrare vantaggi.

Tancredi appariva deluso e ammetteva responsabilità riguardo al secondo gol, dicendo che non aveva saputo “calcolare” il tiro di Stark. Ma Falcao pensa da subito alla rimonta. Sembra che l’allenatore degli scozzesi, McLean abbia gridato a fine partita “bastardi”, “ bastardi” contro i romanisti. Al ritorno avrà pan per focaccia. Del resto, gli scozzesi si erano comportati scorrettamente con i romanisti, innaffiando pure il campo per renderlo più pesante, al fine di mettere a disagio i più tecnici giocatori capitolini.

Ma non finisce qui: Roma – Dundee United. 25 aprile 1984. Semifinale di ritorno? Intanto la Roma gioca alle 15 e 30: clima caldo per i non abituati scozzesi. Troppe offese all’andata. C’è voglia di restituirle. Magica Roma. Segna 3 gol. Due centri di Bruno Conti le vengono annullati (bisogna dire giustamente perché nel primo caso al 7’ c’è in fuorigioco passivo Pruzzo e forse anche Graziani, mentre nel secondo caso Conti tocca il pallone con il braccio, sperando che l’arbitro non se ne avveda). Roma perfetta.

Unico neo, l’ammonizione di Maldera che salterà la finale, il che non sarà poco. Di fatto in campo c’è solo la Roma che domina in lungo e in largo, sorretta e sostenuta da un pubblico fantastico. Il Dundee ha sbagliato completamente partita: prima è corsa dietro al carosello della Roma, sì è lasciata sfiancare e poi è stata finita. Quello che non doveva fare ha fatto e quello che doveva fare non ha fatto, come quando ha mancato un gol facile con Milne, che l’avrebbe portato in vantaggio.

Il primo gol romanista è opera di Pruzzo che gira di testa dopo un calcio d’angolo di Bruno Conti. Il secondo ancora di Pruzzo. Azione iniziata da Di Bartolomei, testa di Maldera, Pruzzo tra tanti avversari si coordina e lascia scivolare la palla sul corpo per calciare. Gol che può sembrare facile, ma che in realtà è molto difficile, dato che richiede una coordinazione e una serie di movimenti non agevoli da eseguire, mentre alcuni giocatori avversari si accalcano per disturbare. Terzo gol su rigore di Di Bartolomei. Azione che si srotola lungo l’asse Graziani-Conti-Cerezo-Pruzzo. Il portiere ospite, vistosi superato, atterra il centravanti romanista: rigore.

Nella Roma superlativi Nela, diventato grande centrale, Maldera (instancabile), Conti (vogliamo parlare dei suoi dribbling e delle sue folate nella fascia di pertinenza?), Graziani (uomo dappertutto, ottimo in centrocampo come in attacco), Di Bartolomei (rivelatosi regista impareggiabile in coppia con Falcao) e Pruzzo (forse la sua migliore partita europea). Liedholm potrà dire che è stato coronato un sogno e che così il calcio italiano ribadiva il suo valore a dispetto di chi metteva in dubbio la vittoria nel Mundial spagnolo.

Dice che aveva intuito le contromisure da prendere contro il Dundee vedendo in cassetta la partita che gli scozzesi avevano giocato precedentemente a Liegi contro lo Standard, evitando l’errore dei belgi, che avevano permesso agli avversari di tenere palla: bisognava, invece, sfiancarli con pressing e organizzazione di gioco. Per la finale riteneva il Liverpool superiore; ma giocandosi la finale a Roma e godendo del sostegno del pubblico di casa, le possibilità sarebbero state pari. Roma – Liverpool. 30 maggio 1984. Finale.

La Roma non ha perso, anche se di rigori ne ha centrati di più il Liverpool. I tifosi della Roma non hanno potuto festeggiare, come sarebbe stato giusto. Se i giallorossi avessero prevalso, avrebbero fatto compagnia a Inter, Aston Villa e Nottingham Forest nel ristretto club delle debuttanti vincitrici la Coppa dei Campioni. Certo, il Liverpool aveva più esperienza e questo lo ha avvantaggiato. Nella Roma mancava Maldera (che ne avrebbe avuto sempre rimpianto), squalificato, e Falcao non era al meglio.

Il Liverpool era anche più sicuro di sé e forse la Roma pagava una certa emozione da inesperienza. Bisogna anche dire, però, che l’assenza di Maldera si è sentita, come pure la non perfetta condizione fisica di Falcao, che forse non aveva del tutto assorbito una botta subita nel ritorno di semifinale con il Dundee. Forse, mai come in questo avrebbe fatto comodo, per altri versi, Vierchowod. Ma comunque.

La partita iniziava con una leggera prevalenza inglese (il Liverpool da un punto di vista fisico è apparso di buon livello). Questo non significa che la Roma fosse assente, perché al 7’ Conti lanciava Graziani, fermato dall’uscita del portiere inglese Grobbelaar. Alcuni minuti dopo lo stesso bloccava una buona sortita della Roma. Ma il Liverpool segnava (e il gol nasceva da azione irregolare): traversone di Johnstone, Tancredi stava per afferrare la palla, ma Whelan lo caricava.

Tancredi perdeva la sfera che veniva abbrancata da Bonetti, il quale calciava. Ma la palla carambolava su Tancredi e Neal poteva approfittare e insaccare. E siamo al 15’. La Roma non si faceva abbattere. Creava occasioni e il Liverpool era abile a chiudere i varchi. Il gioco stretto della Roma veniva controllato con una certa disinvoltura dal Liverpool, che, se del caso, ricorreva ai falli, come ai danni di Falcao da parte di Whelan.

E, purtroppo, il centrocampo romanista non era vivace come nelle occasioni migliori e qualche sbavatura in difesa si registrava: non mancavano contropiedi inglesi che avrebbero potuto far male. Ma la Roma pareggiava al 42’ con un piccolo capolavoro di Pruzzo, che, imbeccato da Conti, era abile a districarsi tra più avversari e con un colpo di testa a effetto segnava. Il secondo tempo iniziava di marca romanista: al 5’ Righetti dava a Cerezo, che apriva per Nela, che si vedeva il tiro respinto.

Poco dopo un traversone di Nela non era sfruttato al meglio da Graziani. Poi qualche altro tiro della Roma. Ma il Liverpool vigilava e non concedeva spazi. Pruzzo al 62’ per poco non segnava: Grobbelaar non era esemplare nell’intervento, ma provvedeva Lawrenson, il quale si era reso protagonista tempo prima di un fallo sullo stesso Pruzzo, che costringeva il romanista ad abbandonare il campo verso il 65’ per far posto a Chierico. Il Liverpool, passando i minuti, controllava il gioco e rischiava poco: solo dopo la mezz’ora della ripresa Nela creava una buona occasione in contropiede.

Il Liverpool su finale aveva due buone occasioni con Dalglish e, soprattutto, all’87’ con Neal sul cui tiro Tancredi era chiamato a una difficile respinta che poi Whelan non poteva sfruttare perché murato da Bonetti. I primi 15 minuti dei supplementari passavano senza grandi occasioni, anche se contraddistinte da una leggera supremazia inglese. Nei secondi faceva da padrone la stanchezza. I crampi cominciavano a farsi sentire.

Conti e Di Bartolomei con tiri da par loro hanno tentato di chiudere il match, ma nel primo caso Grobbelaar era attento e nel secondo respingeva un difensore. Intanto usciva Cerezo per crampi, sostituito da Strukelj. Poi i rigori. Falcao ha chiesto di non tirare per crampi e qualche suo compagno anni dopo avrebbe ritenuto che non avesse operato la scelta migliore. Iniziava una nuova partita che forse non c’è mai stata.

La Roma non ha perso e il gol inglese era da annullare. Ma se la Roma avesse portato a casa la Coppa, il suo destino “storico calcistico” sarebbe probabilmente cambiato. Fosse stata una vittoria, la storia giallorossa sarebbe cambiata radicalmente e la Roma avrebbe fatto ingresso nel novero delle grandi di sempre, nell’aristocrazia del calcio che conta, abbandonando quelle sabbie mobili che la fanno galleggiare da sempre tra lo stato di eterna outsider che fa la voce grossa, rischiando sempre il tonfo, e lo stato contraddistinto dall’attesa (talvolta deprimente) del riconoscimento di essere tra i primi della classe.

In questa dinamica fluida si è sempre srotolata la storia giallorossa, fatta di patemi e di euforia. Quindi, non è un caso che Viola avrebbe voluto vincere la competizione: per riuscirci prima della Juventus. Il prestigio formale di conseguirla prima dei bianconeri avrebbe significato sostanza nella storia della Roma. Dieci anni dopo, Agostino Di Bartolomei non sarebbe stato più. E di fronte alla sua memoria e al suo monumento d’uomo e di calciatore, cosa dire? Qualsiasi cosa si dica, è e rimane inadeguata al fine di qualificare una persona che forse è stata vittima della sua stessa sensibilità e, diciamolo senza retorica, della sua grandezza.

Agostino Di Bartolomei è stato fondamentalmente tre cose: romano, romanista e capitano. Persona schiva, di quelle che stanno in silenzio, ma in quel silenzio ci sono gli abissi delle riflessioni e delle emozioni. E per questo, alla fine, rimase solo. Dopo aver rifiutato le giovanili del Milan, per rimanere nella capitale, viene inserito in quelle della Roma. Vince due scudetti e due Coppa Italia primavera e il 22 aprile 1973 debutta in “A” a San Siro contro l’Inter.

Centrocampista dal tiro micidiale, (ha segnato con la Roma fra campionati e coppe 67 gol e non sono pochi), ha giocato con i giallorossi dal 1972 – 73 al 1983 – 84, escludendo l’intermezzo a Vicenza nella stagione 1975 – 76. Una delle colonne di Liedholm. Liedholm lo conobbe ai tempi delle giovanili e lo valorizzò durante il primo periodo da allenatore a Roma del tecnico svedese. E del “secondo” arrivo di Liedholm a Roma gioì Di Bartolomei nel ’79, dopo aver compreso in tempi non sospetti (nonostante il parere contrario generalizzato) che la Roma della stagione 1978 – 79 avrebbe rischiato la retrocessione, evitata anche grazie ai suoi 10 gol.

E Liedholm egli segui al Milan nella stagione 1984 – 85, dopo aver abbandonato la magica un po’ deluso da certi atteggiamenti dirigenziali. Ma Di Bartolomei per i tifosi romanisti è rimasto sempre il capitano, l’uomo con la maglia giallorossa cucita nella pelle, l’uomo legato alla squadra in maniera viscerale, da romano. Quale era. Come centrocampista aveva visione di gioco eccezionale, lampi di creatività incredibile, il lancio preciso e il tiro fulminante, ma anche qualche pausa, e la velocità non era il suo forte. Un’intuizione di Liedholm, in una squadra che aveva i Falcao, gli Ancelotti, i Prohaska o i Cerezo, è stata quella di fare di Di Bartolomei un regista arretrato, un libero alla Beckenbauer.

Del resto, con Falcao in campo in grado di illuminare potenzialmente dappertutto, Di Bartolomei più liberamente poteva ritagliarsi un ruolo che gli si attagliasse particolarmente. Era quello di regista arretrato la sua funzione ideale, con una posizione in campo perfetta (davanti alla difesa), tale da permettergli, con quel lancio millimetrico di cui era capace, di disegnare trame rimanendo 50 o 60 metri indietro. E, se del caso, poteva trasformarsi in difensore aggiunto, supportato da Prohaska. L’esperimento complessivamente riuscì, soprattutto nella stagione 1982 -83, quando faceva coppia da centrale con una roccia della difesa, ovvero Vierchowod. E se quei  due rigori nel 1984 si fossero insaccati, forse certe dinamiche non si sarebbero sviluppate.

  GLIEROIDELCALCIO.COM (Francesco Zagami)

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