Storia del centrocampista uruguagio morto suicida in campo
Al Nacional per evitare di «mangiare merda»
Nel 1917 gli uruguagi, campioni uscenti della prima edizione della Copa América, decisero di invitare brasiliani, argentini e cileni a partecipare nuovamente al torneo continentale per il secondo anno consecutivo. Quelli de La Celeste si sentivano pronti a dimostrare di poter ospitare la kermesse poiché disponevano dei mezzi necessari e di un buon campo da gioco, il Parque Pereira di Montevideo, sul quale, in soli quindici giorni, si sarebbero decise le sorti della Nazionale che per prima avrebbe potuto mostrare nella propria bacheca il nuovo trofeo: una coppa fabbricata in una gioielleria di Buenos Aires al costo di tremila franchi svizzeri.
Assente per infortunio Isabelino Gradín, indiscusso protagonista calcistico e politico della prima edizione, l’allenatore dell’Uruguay Ramón Platero decise di affidarsi al goleador del Cruzeiro Ángel Romano, uno dei maggiori cannonieri della Celeste di ogni tempo. A coprire le sfuriate offensive del cosiddetto «Loco» c’era anche Carlos Scarone, fratello maggiore di Héctor – «Il più forte che abbia mai visto» avrebbe detto di lui nientemeno che Giuseppe Meazza –, con il quale già tre anni prima aveva condiviso l’area di rigore nel Boca Juniors.
A convincerli di questo contestatissimo trasferimento sull’altra sponda del Río de la Plata era stato un altro compagno di squadra di origine italiana, il cui nome era José Benincasa. In Argentina, però, per entrambi, non andò bene, visto che insieme riuscirono a racimolare la miseria di dieci gol in due anni.
Così, mentre Romano decise di espatriare in Brasile, Scarone decise di tornare in patria, ma a patto di raggiungere il fratello Héctor nel Nacional, squadra acerrima nemica del suo primo amore: il Peñarol. Preferì evitare di «mangiare merda», come avrebbe confessato a suo padre, piuttosto che sentirsi piovere addosso i fischi a causa della sua controversa scelta di trasferirsi in Argentina.
Abdón Porte, «El indio»
Nel «los tricolores» del Nacional, club fondato alla fine del secolo precedente da alcuni studenti universitari che avevano ammesso in rosa solo giocatori uruguagi, giocava anche Abdón Porte, capitano e leader indiscusso della squadra. Soprannominato «El Indio» per via della sua altezza e del fisico possente, era l’idolo dell’intera tifoseria, sui cui spalti del Gran Parque Central, al grido di «Arriba, arriba Nacional!» era nato il vero tifo uruguagio, quello degli hinchas. I tifosi sulle tribune presero questo nome in ragione di un tale di nome Prudencio «el Gordo» Reyes, che fu il primo a incitare la propria squadra urlando a squarciagola da bordo campo. Del Nacional non era infatti solo il primo grande tifoso, ma si era reso disponibile anche per gonfiare i palloni. E giacché la parola “gonfiare” in spagnolo si traduce con “hinchar”, ecco che il termine tifoso divenne in tutta l’America Latina hincha.
Come tutti a Montevideo, anche «el Gordo» Reyes era calcisticamente innamorato di Abdón Porte, il simbolo vivente di quella squadra forgiata nei tre colori (bianco, rosso e blu) della bandiera che identificavano José Gervasio Artigas, «El protector de los pueblos libres», uno degli uomini più importanti della storia uruguagia che ancora oggi vanta statue in tante piazze del mondo.
Porte diede il suo necessario contributo in campo anche alla vittoria della seconda Copa América consecutiva da parte dell’Uruguay, ma dopo quel trionfo decise di lasciare squadra e Nazionale perché cominciava a considerarsi un giocatore finito per via di un vecchio infortunio al ginocchio che si portava dietro da qualche tempo.
Lontano dal campo, però, sprofondò in una tremenda depressione, poiché il calcio e il Nacional erano sempre state le sue uniche ragioni di vita, e il fatto di non poter reggere più certi ritmi lo rattristava a tal punto che, una sera, decise di abbandonare la festa della squadra a seguito di una bella vittoria con il Charley. Dopodiché si diresse nella notte davanti al Parque Central, penetrò nello stadio deserto, si posizionò esattamente al centro del campo, estrasse una pistola dalla tasca, se la puntò al cuore e tirò il grilletto.
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«Por la sangre de Abdón»
Il Paese dove era appena esplosa la passione per il fútbol pianse così un grande campione, scomparso a causa di un terribile smarrimento dovuto a un amore estremo per la maglia che indossava. Un sentimento certificato anche nella lettera che trovarono qualche ora dopo sul terreno di gioco accanto al revolver con la canna ancora fumante. Lettera in cui dedicava le ultime parole alla squadra per cui sarebbe stato per «sempre amante. Non dimenticherò un solo istante quanto amore ti ho voluto. Addio per sempre».
Da quell’infausto giorno del 1918 i tifosi ricordano ancora oggi il vecchio capitano con uno striscione che recita: «Por la sangre de Abdón». E anche i calciatori che da un secolo vestono i colori del Nacional, prima di entrare in campo, nel tunnel che dalla pancia dello stadio porta al campo, alzando la testa, sulla targa commemorativa in suo onore possono leggere: «Qui lasciò la vita Abdón Porte, per amore della maglia».