GLIEROIDELCALCIO.COM (Antonio Mattera) –
Ci vorrebbe attenzione verso l’errore oggi saresti qui/
se ci fosse più amore per il campione oggi saresti qui)/
Ricordati di me mio capitano
cancella la pistola dalla mano/
tradimento e perdono fanno nascere un uomo)/ora rinasci tu
quel sorriso sgomento /anche se hai vinto non mi tormenta più
(Tradimento e Perdono, Antonello Venditti).
Quella pistola Agostino Di Bartolomei l’aveva con sé da anni…
Sono gli anni’70, Agostino si affaccia al grande calcio.
L’esordio pochi giorni dopo, il 22 aprile 1973, il suo diciottesimo compleanno con la Roma di Trebiciani.
Il primo gol in serie A contro il Bologna, nella prima giornata del campionato 1973-74, sotto la guida di Nils Liedholm che diventerà il suo mentore.
Tranne una parentesi al Lanerossi Vicenza la sua strada è segnata da giallorosso della Capitale.
Con i capitolini Di Bartolomei giocherà 308 gare (di cui 146 con la fascia al braccio), segnando 66 gol, vincendo un Campionato e 3 Coppe Italia.
Passerà al Milan, quella stessa squadra che aveva rifiutato da bambino, e, come per un destino perverso, segnerà alla Roma.
Non è un ipocrita, gioisce e i tifosi, ma anche i suoi ex compagni, della Roma non lo perdonano.
Non comprendono che quella gioia rabbiosa nasconde il dolore di essere stato costretto a lasciare quei colori, quella divisa, quei tifosi e quella città, e quella squadra, la sua, per sempre.
Roma, in quegli anni ’70, di boom economico e di contraddizioni sociali, non è una città facile.
Sono anni difficili in tutta Italia, anni di piombo, un crescendo di delitti, rapine e sequestri, intimazioni e minacce.
Il clima è teso in tutto il Paese.
Agostino Di Bartolomei, futuro capitano e bandiera della Roma, confesserà di girare armato, in seguito ad alcune minacce.
Lui, Ago, ha un carattere schivo e riservato, forse troppo, sembra più un impiegato che un calciatore.
Tanto riservato e poco propenso a cose fuori dal normale che a 13 anni rifiuta la possibilità di lasciare Roma e trasferirsi a Milano, sponda rossonera.
Ecco perché stona quella maledetta scelta di acquistare una pistola.
Forse è solo l’ennesima volta che il destino si incrocia con il calcio.
MAGGIO
Mese strano per chi tifa Roma.
Puoi passare dalla gioia di uno scudetto vinto dopo 41 anni di attesa allo sconcerto di perderne un altro contro l’ultima in classifica in casa.
Puoi passare dall’esaltazione dell’impresa di raggiungere una finale di Coppa Campioni alla disperazione per averla persa all’ultimo rigore.
Puoi essere raggiunto dalla notizia di uno sparo, lontano da te chilometri, che ti rimbomba dentro come se avessi potuto ascoltare, più′ delle parole dell’annuncio dato ai telegiornali, il botto stesso del colpo sparato.
Un colpo secco al cuore di migliaia di tifosi, giallorossi o meno.
Quelle notizie che non vorresti mai ascoltare, fossero di un Di Bartolomei, di uno Scirea, o di un Facchetti.
Tutti Capitani con la C maiuscola.
Perché quella consonante maiuscola te la meriti solo se seguita da una vocale altrettanto maiuscola.
La U di uomo.
Di Bartolomei, Scirea, Facchetti, ma anche non capitani come Dino Zoff e Riva “Rombo di tuono” (che abbiamo, fortunatamente a, ancora con noi), sono i regali che ci dona il mondo del calcio, prima su i rettangoli verdi, poi nella vita.
Fanno da contraltare a tatuaggi, piercing, creste dai mille colori, veline e auto sfasciate di chi vive questo mondo solo negli eccessi e non come un lavoro come gli altri, pero più remunerato quindi con più responsabilità.
Poche ma intense gioie, dicevamo, in maggio per chi tifa Roma.
Tremendi e cocenti dolori.
Agostino è uno di questi.
Ago ha vinto tante partite.
E ne ha perse altre, dolorosissime, come quella con il Liverpool, quella maledetta sera del 30 maggio 1984, dove lui, il Capitano, il suo dovere lo fece fino in fondo.
Una ferita al cuore mai rimarginata, anche perché foriera di un addio, non privo di polemiche, a quei colori che aveva tanto amato.
Non è un caso, capendo l’uomo Di Bartolomei, prima che il calciatore. che l’ultima sua partita giocata, quella più importante con la vita, l’abbia persa un altro 30 maggio, dieci anni dopo.
Ed è forse destino chi tifa giallorosso, di chi ama quei colori del sole e del cuore, che il proprio, di cuore, si fermi lo stesso giorno, con dieci anni di differenza.
Un rigore sbagliato e un colpo di pistola hanno più cose in comune di quanto si creda: disperazioni diverse ma unite.
Forse Agostino avrà preso la pistola, l’avrà puntata al cuore, nell’identica maniera di come scese in campo quella maledetta sera contro il Liverpool: senza alcun segno di emozione, non una smorfia, non un sorriso, non un cenno.
Niente.
Solo un colpo secco a quel cuore già ferito.
Una finale di Coppa Campioni e i tuoi ultimi istanti di vita vissuti allo stesso modo: perché questo era Agostino.
Per me che ho vissuto gli anni di Di Bartolomei, prima nella Rometta mediocre, poi Capitano in quella splendida capace di vincere un campionato e sfidare un colosso, allora, come il Liverpool sino all’ultimo rigore, non sarà un improvvido colpo di pistola a diminuirne la considerazione.
Anzi, in quel proiettile al cuore c’è, insieme, tutta la grandezza d’animo e la solitudine dell’uomo.
Lasciato solo e abbandonato da quel mondo che ha amato.
Da quella Roma dalla quale si è sentito tradito nonostante i tifosi gli concedessero l’onore delle armi con lo striscione meraviglioso che solo chi ti ama e che hai amato può dedicarti: ««Ti hanno tolto la Roma ma non la tua curva».
Perché nessuno, irriconoscente come solo il mondo del calcio sa essere, gli riaprirà quella porta.
Forse lui lo sa, inconsciamente, da quando lascia Roma e la Roma.
E, forse, da allora, tutti noi, dirigenti, compagni, tifosi abbiamo, indifferenti, incominciato ad armare la sua mano, lasciandolo solo.
Quando ti viene a mancare il tuo mondo, cosa altro ti resta per colmare quel vuoto se non, a volte, la cupa disperazione?
Non è questo, infatti, che arma la mano dell’imprenditore suicida dei giorni nostri?
Di Ago porterò nel mio cuore sempre il suo volto calmo e sorridente, i suoi atteggiamenti pacati ma decisi, quel suo essere leader silenzioso al quale bastava lo sguardo per farsi capire.
Ricorderò il suo rispetto per l’avversario, vinto o vittorioso.
Ricorderò i trofei da lui alzati con quel suo sorriso fanciullesco appena accennato, la gioia, non esternata smodatamente, ma espressa con luce diversa in quegli occhi malinconici per natura.
Un qualcosa che ti faceva pensare che il Di Bartolomei bambino non fosse mai uscito dall’anima del Di Bartolomei campione affermato.
Ricorderò l’Agostino uomo e il Di Bartolomei calciatore, un meraviglioso tutt’uno.
“Il suicidio dimostra che ci sono nella vita mali più grandi della morte” (Francesco Orestano, filosofo)