Una delle componenti che distinguono l’uomo comune dal genio è l’ossessione che pervade quest’ultimo nel raggiungimento di uno scopo, che poi diventa l’obiettivo essenziale della sua stessa vita
Vale un po’ in tutti i campi dello scibile umano, in genere si ha negli uomini di scienze e lettere, ma anche nello sport troviamo chi è guidato dalla propria ossessione.
Normalmente la tensione verso la vittoria è già uno scopo, per altri può essere il raggiungimento di un record o di una perfezione nella prestazione.
Nel calcio quello che fa il singolo deve essere sempre rapportato alla squadra, ma c’è un ruolo, tra i tanti che propone questo sport, in cui l’ossessione può diventare lo scopo stesso del mestiere: quello dell’allenatore.
Non a caso chi normalmente ricopre questo ruolo ha insita la cura del particolare, la ricerca del tempo di gioco, del movimento collettivo che deve assumere la precisione della coreografia di un balletto.
Queste sono le caratteristiche basilari di chi esercita questa professione, poi ci sono quelli che si elevano sulla massa, quelli che inseguono un’idea coltivabile in maniera maniacale, si consumano nella ricerca del modo ottimale di far giocare le loro squadre.
Un esempio attuale potrebbe essere quello di Pep Guardiola, sempre alla ricerca di idee diverse che possano sorprendere gli avversari, alla ricerca costante del gioco fuori dai canoni, pronto a cambiare ogni volta che l’obiettivo è apparentemente raggiunto: ha iniziato con il tiqui taqa, poi è passato allo spazio come attaccante, ora è il momento di giocare con un centravanti puro.
Chi però ha estremizzato il concetto fino a farlo diventare mania, bruciando sé stesso con le sue ossessioni, consumandosi fino a smettere anzitempo, è stato Arrigo Sacchi.
È fin da giovanissimo che la passione per il calcio conquista Arrigo, da quando inizia a muovere i primi passi calcistici nella sua Fusignano.
Non tutto il calcio, ma il “bello” del calcio, gli arabeschi dei grandi campioni, i ricami dei fuoriclasse.
E inizia anche quella che sarà la sua grande ossessione: trasferire quel concetto di “bello” individuale nella collettività della squadra, ottenere che i movimenti degli undici giocatori in campo diventino un tutto armonico.
E non solo: il calcio di quegli anni, in Italia, era tutto basato sulla difesa e il contropiede, il “catenaccio” tanto inviso quanto rispettato in giro per l’Europa, perché aveva portato vittorie importanti, ma che strideva, ormai, con quanto in Europa si vedeva dalla fine degli anni Sessanta: il calcio totale olandese.
Arrigo, quindi, non solo voleva un calcio esteticamente più bello, ma voleva farlo anche da noi, depositari non di un calcio aggressivo, ma di attesa e di ripartenza.
Occorreva carattere, e il carattere che Arrigo forgia nei suoi anni giovanili è la felice sintesi della tenacia del padre e dello spirito sognatore della madre.
Con queste idee in embrione Sacchi inizia la sua avventura calcistica, di brevissima durata quella di giocatore, lunga e luminosa quella di allenatore.
Ad iniziare dai suoi esordi in panchina egli insegue questo calcio nuovo, la scalata parte dalla sua Fusignano, in Seconda Categoria, ed è sempre in ascesa, dal Bellaria al Rimini attraverso le giovanili di Cesena e Fiorentina, fino ad arrivare al Parma e poi al Milan, voluto dal presidente Silvio Berlusconi, rimasto folgorato dal gioco dei ducali, che in Coppa Italia dettero una lezione ai rossoneri.
Gli inizi saranno difficili, perché difficile era imporre un nuovo calcio a giocatori da sempre abituati ad altro.
Il Milan conosce il punto più basso a novembre del 1987 quando è eliminato in Coppa Uefa dall’Espanyol di Javier Clemente, altro santone iberico, con i critici, anche malevoli, che prospettavano l’esonero imminente, l’abiura del nuovo in un mondo chiuso, arroccato su sé stesso, e per questo vecchio, stantio, immobile, refrattario.
In campo deve scendere, allora, proprio Berlusconi, ribadendo la fiducia in Sacchi e nel suo lavoro.
In quel momento tutto l’ambiente rossonero si coagula intorno al suo allenatore, è quello il preciso istante in cui inizia la gloria.
Il Milan inizia, in campionato, la rincorsa al Napoli di Diego Armando Maradona, completando il sorpasso nello scontro diretto in casa dei partenopei al ritorno.
È scudetto, ma è soprattutto la chiave per accedere alla Coppa dei Campioni, per andare ad imporre su altri palcoscenici quell’idea del calcio.
Lì, al cospetto dei grandi d’Europa, il Milan dà lezioni di calcio, un memorabile cinque a zero al Real Madrid fa capire che ormai il progetto è completo, quel calcio è la nuova frontiera.
Poi verrà la vittoria di Barcellona contro la Steaua Bucarest, il bis l’anno dopo contro il Benfica, a perpetuare la gloria.
La filosofia di Sacchi richiede, però, un grande dispendio di energie mentali, a lui stesso e ai suoi giocatori, qualche rapporto interno si logora, il passaggio in Nazionale è quasi un sollievo per il Milan e l’inizio di una nuova avventura per lui.
Qui, anche se arriverà un secondo posto ai mondiali statunitensi del 1994, le idee di quello che è ormai diventato il Profeta di Fusignano faticano ad attecchire, troppo diverso il lavoro di Commissario Tecnico da quello di allenatore di club, Sacchi non riesce ad essere solo selezionatore, deve poter lavorare in campo quotidianamente, cosa impossibile in azzurro.
La prematura uscita di scena dell’Italia agli Europei inglesi del 1996 segna, in pratica, la fine del rapporto con la Nazionale, poi sarebbero venute le due squadre di Madrid, Atletico da allenatore e Real da dirigente, fino a chiudere a Parma, logorato nei nervi dalla sua stessa ossessione.
Il grande sogno di Sacchi è stato quello di vedere, anche nel nostro Paese, un calcio bello, aggressivo e vincente, una ricerca della pietra filosofale inseguita e mai raggiunta, perché il nostro calcio, pur cambiato, continua ad essere soprattutto pratico, poco bello, anche se resta vincente.
La filosofia di Sacchi, che ha avuto come obiettivo il bel gioco, si fonda su cinque principi basilari: bellezza, metodo, entusiasmo, sacrificio e umiltà.
A questi egli aggiunge un sesto, la coerenza, che sempre lo contraddistinguerà, costruita con questi principi da cui non derogò mai, nemmeno nei momenti più critici.
Noi, infine, ne aggiungiamo un settimo, ossessione, che sarà l’altra compagna di viaggio di Arrigo Sacchi, una compagna cui si è dovuto arrendere, prosciugatrice di energia e di vita.
Ma la traccia era lasciata, i principi ormai radicati, anche se continua lo scontro tra la praticità del nostro calcio e la vittoria attraverso la bellezza.