Calcio e politica rappresentano un binomio che ha da sempre caratterizzato questo sport, almeno da quando il calcio ha iniziato ad assumere una popolarità diventata planetaria.
Le grandi masse che attiravano i grandi eventi calcistici erano un assist troppo goloso per i vari regimi, permettendo loro di veicolare ideologie più o meno giuste a grandi folle, oppure spesso abbiamo potuto assistere a grandi vittorie di cui si è fregiato il politico di turno, che in realtà poi con quella vittoria nulla c’entrava, essendo solo il frutto delle capacità sportive di chi vinceva.
Innumerevoli gli esempi, basti pensare alle vittorie della nazionale italiana nel “decennio d’oro” 1930 – 1940, con la vittoria di due Coppe Internazionali, due Campionati del Mondo, un’edizione dei Giochi Olimpici, vittorie tutte di cui si appropriò il regime fascista.
Oppure, per restare ai mondiali di calcio, tutto quello che nascose la vittoria dell’Argentina nell’edizione casalinga del 1978, dove impose il suo pugno di ferro il regime dei Generali.
O ancora la connotazione sottilmente politica che negli anni hanno assunto i confronti tra Inghilterra e ancora Argentina, nazionali che non si sono mai amate dal 1966, ma che si ammantarono di tensioni non solo sportive dopo la guerra delle Falkland/Malvinas e la “vendetta sportiva” di Diego Armando Maradona nel 1986.
C’è stata, poi, la “partita della Pace” tra Stati Uniti e Iran ai mondiali francesi del 1998, le attuali vicissitudini dell’Ucraina invasa dai russi, in ultimo le contestazioni alla nazionale israeliana, che di suo già è costretta a giocare in Europa e non in Asia.
Gli esempi potrebbero continuare perché, e purtroppo, i confronti finiscono sempre per avere questa connotazione politica.
C’è stato, poi, chi, sfruttando la popolarità che gli ha portato il calcio, ha avuto una sua seconda vita proprio nel mondo politico, sindaci come Damiano Tommasi a Verona, K’akhaber K’aladze a Tblisi, anche se da questo punto di vista chi ha raggiunto il punto politico più alto nella sua carriera è stato George Weah, attaccante del Milan dal 1995 al 2000 contribuendo alla conquista di due scudetti per i rossoneri, diventato presidente della Liberia dal 2018 al gennaio del 2024.
Non pochi sono stati anche i calciatori di livello culturale alto, in un periodo in cui era raro che questi potessero studiare, qualcuno si impegnò anche politicamente, tipo il brasiliano Socrates, il Doutor, perché laureato in Medicina, che portò la politica addirittura nello spogliatoio del Corinthians, la sua squadra, in una fase passata alla storia come “Democracia Corinthiana”: era, in pratica, l’autogestione dei giocatori, azione che diventò uno strumento di lotta contro la dittatura militare in Brasile.
Un coinvolgimento all’incirca di questo tipo lo avrebbe portato nel suo modo di allenare anche il portoghese Artur Jorge, soprattutto riferito alla gestione dei giocatori.
Nato a Porto nel 1946, fu nella squadra della sua città che iniziò a giocare a calcio, nel ruolo di attaccante.
Il passaggio all’Academica de Coimbra fu immediato, e lì mise in mostra le sue buone doti di realizzatore, caratteristica che lo fece notare dal Benfica, nelle cui file passò nel 1969.
Fu qui che la sua carriera prese una piega anche vincente, in sei stagioni di militanza con le Aguias arrivarono quattro titoli e due coppe del Portogallo grazie anche al contributo delle settantotto reti realizzate da Jorge.
Arrivò anche la convocazione in nazionale, naturalmente, ma ormai quella lusitana iniziava a vivere il dopo Eusebio e i risultati non furono esaltanti e dopo altre due stagioni al Belenenses arrivò la chiusura dell’attività agonistica negli Stati Uniti, ai Rochester Lancers.
Seguì qualche anno di studi, calcistici e non, in Germania Est per studiare sport, in patria per laurearsi in Filosofia e in Lettere Moderne, oltre che perfezionarsi nelle lingue, alla fine ne avrebbe parlato correttamente sei.
Attivo anche sul piano politico, con la mai nascosta inclinazione a sinistra, tanto da appoggiare, ancora da giocatore, la Rivoluzione dei Garofani, il colpo di Stato incruento che portò alla fine del regime dittatoriale Estado Novo instaurato da Arturo Salazar fin dal 1933, proiettando il Portogallo verso la democrazia.
La seconda vita calcistica di Artur Jorge fu di autentico giramondo della panchina, l’inizio fu al Portimonense, poi al Porto.
Qui, alla guida della squadra della sua città natale, contribuì a scriverne la storia.
Fino al suo arrivo alla guida dei Dragões, questi facevano sì parte delle tre grandi del calcio lusitano, insieme a Benfica e Sporting Lisbona, ma era la prima a essere più titolata, potendo vantare in bacheca due Coppe dei Campioni, e lo stesso Sporting aveva vinto la Coppa delle Coppe nel 1963/1964.
L’arrivo di Jorge cambiò anche il modo di gestire i calciatori: a differenza delle sue idee politiche, era molto esigente con i suoi giocatori, ai quali impose la “teoria della concorrenza”.
In pratica, per mantenere sempre alta l’attenzione dei giocatori, egli costruì rose in cui ogni ruolo poteva essere occupato da due calciatori, così che nessuno fosse sicuro del posto e lottasse fin dagli allenamenti per conquistarselo.
Se si considera che il calcio, all’epoca, prevedeva squadre di tredici, massimo quattordici titolari su organici di sedici atleti, si può ben comprendere la portata avveniristica di quella teoria, che risultò subito vincente, con i titoli portoghesi nel 1984/1985 e 1985/1986.
Quelle due vittorie portarono, naturalmente, anche alla partecipazione delle conseguenti Coppe dei Campioni, nella prima la corsa si fermò agli ottavi contro il Barcellona dopo aver superato al primo turno l’Ajax di Amsterdam, la seconda scrisse la Storia.
Il cammino dei lusitani iniziò in maniera soft e sostanziosa, non potevano essere un grosso ostacolo i maltesi del Rabat Ajax, superati con un complessivo dieci a zero, più consistenti i cechi del Vitkovice agli ottavi e i danesi del Brondby ai quarti ma superati di slancio, con i sovietici della Dinamo Kiev ad aspettarli in semifinale.
Questi, allenati dal “colonnello” Valeri Lobanovsky, profeta del “calcio del 2000” proposto dalla sua squadra, si scontrarono con la praticità e l’efficacia di quella di Jorge, cedendo il passo.
Il Porto aveva un ottimo organico, con vari nazionali: Jozef Mlynarczyk, polacco, tra i pali; Joao Pinto a guidare la difesa; Eloi, brasiliano che aveva militato nel Genoa; Jaime Magalhaes, Jaime Pacheco, Quim a dare fosforo e sostanza al centrocampo, con il gioco finalizzato da un reparto offensivo di prim’ordine, composto da Fernando Gomes, Paulo Futre che avrebbe militato anche nel Milan, l’algerino Rabah Madjer, il brasiliano Juary, giunto in Portogallo dopo tanta Serie A italiana.
Ad attenderli nella finale di Coppa dei Campioni 1987, al “Prater” di Vienna, un ostacolo apparentemente insormontabile, il Bayern Monaco, che già vantava tre trofei in bacheca e tra le cui fila annoverava molti nazionali tedeschi che avevano perso la finale mondiale l’anno prima e avrebbero fatto parte della nazionale tre anni dopo nella vittoria di Roma, sempre contro l’Argentina.
L’andamento del match sembrò confermare i pronostici, i tedeschi passarono in vantaggio alla metà del primo tempo con un colpo di testa di Ludwig Kögl, ma poi la gara si equilibrò, soprattutto iniziò a imporsi il gioco dei portoghesi, veloce e brillante e in tre minuti, quando ne mancavano dieci alla fine, le sorti della partita furono capovolte, prima dal gol di Madjer, un colpo di tacco tanto spiazzante quanto fulminante nell’esecuzione, che avrebbe consegnato l’algerino alla storia come il “tacco di Allah”, su assist di Juary; poi, tre minuti dopo, ricambiando il favore, è lo stesso algerino a fuggire sulla sinistra, mettere il pallone al centro su cui si avventò il piccolo brasiliano che batté imparabilmente il belga Jean-Marie Pfaff. Era fatta, e l’artefice di tutto questo era stato Artur Jorge.
Questi avrebbe poi continuato la sua carriera da giramondo, il volto incorniciato da due caratteristici baffoni viaggiò per club e nazionali, aggiungendo altri titoli in bacheca, ma il cui punto più alto rimase quella vittoria del 1987.
Poi il declino, fino alla scomparsa nel febbraio di quest’anno, un uomo che aveva saputo riunire calcio, cultura e ideologie in una sola anima.