Storie di Calcio
Assegnazione, sorteggio e tabellone: le cose che non sapevi su Spagna 1982
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Assegnazione, sorteggio e tabellone: le cose che non sapevi su Spagna 1982
I mondiali dell’’82 venivano attribuiti alla Spagna già nel lontano 1964, quando a Tokyo si teneva il 34° congresso della FIFA, che nell’occasione designava nell’ordine Messico, Germania Ovest, Argentina e Spagna, rispettivamente per il 1970, 1974, 1978, 1982, come nazioni che avrebbero dovuto organizzare la fase finale della Coppa del mondo di calcio.
Venivano, dunque, concessi agli spagnoli i mondiali del 1982, benché all’epoca dell’assegnazione degli stessi nel Paese iberico fosse ancora vigente un sistema di governo unanimemente riconosciuto come illiberale.
Ma la Spagna negli anni sessanta, benché ancora sotto il regime franchista, viveva una lunga stagione di sviluppo economico, che, seppur per molti aspetti asimmetrico e con limiti strutturali, aveva addirittura condotto il Paese a sollecitare l’ingresso nella CEE, richiesta che venne respinta solo per motivi politici, considerata la dittatura in essere.
Ma erano anni in cui per forza di cose la Spagna doveva aprirsi, volenti o nolenti, sia pure con timidi passi e in maniera guardinga, a forme di riformismo, soluzione imprescindibile per acquisire un minimo di rispettabilità internazionale, quanto meno di facciata, il che era una delle condizioni basilari e necessarie per continuare lungo quello sviluppo economico, il desarrollo in lingua spagnola, che da anni accompagnava l’evolversi della nazione (in fondo, in Spagna, come per effetto a cascata, si compiva quella crescita economica che si verificava in tutta l’Europa occidentale e che dai noi, in Italia, prese il nome di miracolo economico).
Così, l’economia, poco a poco, sottotraccia, dettava lo sviluppo politico avvenire della Spagna. Non è da escludere, inoltre, che i membri del Comitato esecutivo della FIFA, per scrollarsi di dosso ogni eventuale riserva e ogni possibile remora morale derivante dalla tipologia di regime politico alla testa della Spagna, avessero in fondo ragionato in prospettiva futura, a lungo periodo, immaginando che nell’ottantadue, cioè quasi 20 anni dopo, il franchismo sarebbe stato un ricordo del passato.
E certamente, per altro verso, se si va considerare l’aspetto prettamente calcistico, alla Spagna sicuramente apportarono, al livello di immagine, un gran beneficio le imprese del grande Real Madrid degli anni ‘60. Il club di Bernabeu in un certo senso fungeva da vetrina di una Spagna dinamica e vincente.
E il 29 settembre 1978, archiviati da qualche mese i mondiali argentini, un decreto di Re Juan Carlos sanciva la nascita di un Comitato organizzatore. Nel frattempo, come forse era stato nello scenario previsto (e probabilmente nell’augurio) da quegli esponenti della FIFA che nel ’64 avevano individuato nella Spagna come la nazione organizzatrice dell’edizione dell’’82, la stessa era diventata una democrazia (magari ancora zoppicante, ma con molta voglia di farsi strada).
E con molta voglia di mostrarsi dinamicamente al mondo, di dare immagine di affidabilità e capacità, e di attrarre consensi e amicizie. Per tutto questo era fondamentale rilanciare economia e affari.
Economia: che dalla seconda metà degli anni settanta e nei primissimi inizi del decennio successivo era diventata un punto dolente per praticamente tutto l’Occidente, a seguito della crisi petrolifera generata dalla guerra arabo-israeliana dell’ottobre del ’73 e delle vicende monetarie relative al valore fluttuante del dollaro.
Per la Spagna la crisi economica post-shock petrolifero era diventata per molti versi devastante, accompagnandosi, peraltro a quella di tipo politico, generata e aggravata dal contesto di difficoltà del periodo della transizione dalla dittatura alla democrazia, e a quella dell’ordine pubblico, considerato il non poco cruento terrorismo separatista praticato da parte dell’Eta. Così, la fase finale della Coppa del mondo per la Spagna – grazie alle opere di ammodernamento e di costruzione ex novo delle infrastrutture (da intendere in senso lato, da quelle di carattere sportivo propriamente intese a quelle civili di natura generale, come quelle del settore dei trasporti, delle comunicazioni o del settore della ricezione), grazie al surplus derivabile dall’afflusso di stranieri (che presumibilmente sarebbero sopraggiunti per assistere alla competizione), grazie a tutto l’indotto che si sarebbe potuto generare non solo nel settore produttivo, ma anche in chiave di immagine (che, in fondo, è un volano anche per ulteriori investimenti nel medio lungo termine) – si sarebbe dovuta convertire in un autentico affare, una manna caduta dal cielo per uno Stato per certi aspetti ancora in bilico: lacerato dalla disoccupazione, da spinte centrifughe di catalani e baschi, dal terrorismo della citata Eta (il che costrinse a un dispiegamento di forze di polizia davvero notevole, con oltre 30.000 agenti mobilitati, tra cui elementi dei servizi segreti, con stadi e ritiri blindati).
Una nazione in cui la democrazia non era ancora sicura; anzi non era del tutto scartabile addirittura il rischio di guerra civile (in questo contesto magmatico si inseriva il tentativo di golpe del 23 febbraio 1981, prontamente sventato anche per la chiara e decisa posizione del Re Juan Carlos).
Bisognava quindi fare le cose in grande e sfruttare ogni possibilità al fine di trarre guadagno economico e non. E la Spagna, è da riconoscere, fece del proprio meglio, anche se difficoltà e rischi di vario tipo, anche non dipendenti dalla volontà o dall’opera degli organizzatori, ne sorsero.
La presidenza del Comitato organizzatore venne concessa a Raimundo Saporta.
Questi non era un uomo qualsiasi, era colui che aveva letteralmente inventato dal nulla il Real Madrid Baloncesto, (ovvero, ancora oggi, una delle migliori squadre europee di basket), era stato il vicepresidente del Real Madrid calcistico, colui che aveva soffiato Di Stefano al Barcellona, colui che aveva costruito il grande Real Madrid degli anni sessanta.
La sua storia è un romanzo: di origine ebrea sefardita, di Salonicco, con la famiglia che comprendeva oltre ai genitori anche un fratello, riuscì a fuggire in Spagna nel ’41, salvandosi dalla Shoah, che avrebbe decimato parecchi altri parenti.
La madre di Saporta, donna peraltro colta e brillante, intuì come lo sport potesse diventare un ottimo ascensore sociale per il figlio, come la conoscenza delle lingue.
Così Saporta si dedicò al basket, ma non a quello giocato, per il quale fisicamente non era dotato, bensì all’aspetto direttivo.
Con la propria intraprendenza e grazie alla padronanza puntuale di varie lingue, poteva scalare posizioni di comando in seno alla Federazione spagnola di Baloncesto, divenendone a 21 anni vicepresidente.
Nel 1952 conosceva Bernabeu per via di un torneo di basket. Il presidentissimo del Real rimaneva colpito dalle risorse del giovane: in breve diventava vicepresidente della Casa blanca madrilena. Il Real diventava grande. Saporta si rivelava eccezionale organizzatore di una squadra che assumeva fama internazionale, grazie anche al suo fiuto eccezionale per gli affari. Saporta, dunque, era l’uomo giusto per organizzare il Mundial.
E si rese subito conto di dover affrontare problemi titanici, che lo avrebbero condotto ad ammettere privatamente che forse gli inizi degli anni ottanta non erano il periodo ideale per organizzare simile evento; meglio dieci anni prima (con il regime che si sarebbe accollato i costi e le difficoltà, pur di sfruttare l’immagine internazionale dell’evento) o dieci dopo (con la democrazia presuntivamente già bella che consolidata e con i problemi economici probabilmente meno pressanti e urgenti).
Dunque, il Comitato organizzatore sostanzialmente doveva fare da sé, cercando di evitare, nei limiti del possibile, ingrate uscite erariali, malviste dall’esecutivo nazionale. Saporta individuava in quattro elementi principali le fonti per quegli auspicabili guadagni con cui poter trasformare il Mundial in un successo: biglietti, diritti televisivi, pubblicità e merchandising.
A questo punto bisogna fare un passo indietro di quasi 10 anni: se Saporta poteva tracciare la propria linea di lavoro basandosi sui quattro elementi cardini di cui prima, ciò era dovuto anche e soprattutto al fatto che due uomini precedentemente avevano creato tutte le condizioni necessarie affinché si potesse operare lungo una via che si sarebbe rivelata sempre più lastricata d’oro (e quello era niente, se si pensa a oggi).
I due uomini erano Horst Dassler e Joao Havelange. Anno 1974: si tenevano le elezioni per la carica di presidente della FIFA, ovvero del massimo organo calcistico del globo. Concorrevano per l’ambita poltrona il quasi ottantenne Stanley Rous, presidente della FIFA dal 1961, un personaggio ancora per molti versi all’antica, poco incline a ribadire e favorire ancor più l’aspetto commerciale dello sport, o, quanto meno, a non esagerare al riguardo, e Joao Marie Faustin Godefroid de Havelange, all’epoca poco più che cinquantacinquenne. Havelange, ex nuotatore ed ex pallanuotista, era un imprenditore e dirigente sportivo nazionale in Brasile.
Per farsi eleggere Havelange spese un mucchio di soldi, viaggiò per oltre ottanta Paesi. Forte dei successi calcistici del proprio Paese, che aveva conquistato 3 titoli mondiali tra il 1958 ed il 1970, circostanza che certamente qualche vantaggio poteva recargli, quanto meno in fatto di immagine, Havelange apriva ai paesi del terzo mondo, promettendo loro più visibilità e maggiore peso nel palcoscenico calcistico internazionale, aiuti nello sviluppo delle infrastrutture, nell’assistenza sanitaria e nei processi di valorizzazione di nuovi talenti, nonché nuove competizioni targate FIFA, mercé le quali i predetti paesi avrebbero potuto avere un ruolo da protagoniste e non da comprimarie.
Da parte di Havelange vi era anche una certa attenzione anche ai paesi del blocco comunista. Questo, tuttavia, non sarebbe stato sufficiente per ottenere la presidenza della FIFA.
Ma interessate alle elezioni presidenziali del massimo consesso calcistico vi erano anche grandi aziende private, che scalpitavano per la commercializzazione del prodotto sportivo in sé, grazie alle possibilità offerte dalla televisione.
Apri strada in questo senso erano già state le grandi corporations degli Usa con il football americano, che nello Stato con la bandiera a stelle e strisce furoreggiava negli schermi televisivi. In testa alle grandi aziende che non vedevano l’ora che il calcio divenisse anche o soprattutto un fenomeno e un’occasione ghiotta di business vi era quella capitanata da Horst Dassler, che bramava e manovrava per una grande espansione dell’Adidas, l’azienda ereditata dal padre Adolf, anche in “terreni vergini”, quali erano i paesi emergenti. Horst Dassler, che continuava la “guerra” commerciale, nel settore dell’abbigliamento sportivo intrapresa dal padre contro la Puma, ovvero l’azienda dello zio Rudolf Dassler, alla cui guida ormai vi era il figlio di questi Armin, aveva compreso che non era più sufficiente “sponsorizzare” questo o quell’atleta, come ai tempi del genitore Adolf: bisognava entrare in contatto con i vertici delle istituzioni sportive. E dopo aver inizialmente sostenuto Rous, consigliato meglio da terzi addetti ai lavori e res melius perpensa, concedeva il proprio sostegno ad Havelange.
In fondo, Dassler e Havelange avevano scopi coincidenti che si possono riassumere in una sola parola: espansione, di tipo commerciale da parte del primo, di potere da parte del secondo. Havelange voleva condurre il “prodotto calcio” a certi livelli in tutte le nazioni del mondo, Dassler voleva diffondere il proprio marchio dappertutto, in modo da poter operare affari colossali e dare scacco matto agli odiati parenti proprietari della Puma.
Così, con l’aiuto di Dassler, Havelange diventava il presidente della FIFA. E, come promesso, una volta divenuto a capo del massimo organismo calcistico internazionale, concesse aiuti alle Federazioni più deboli del “nuovo” mondo calcistico emergente, ideò i tornei giovanili (il primo nel 1977 in Tunisia, ovvero il campionato mondiale under 20), in cui i paesi africani, asiatici e caraibici avrebbero avuto più “peso”, allargò a 24 squadre la fase finale dei mondiali del 1982, con una maggiore presenza delle nazionali dei paesi non europei.
Ma per porre in essere tutte queste iniziative, la FIFA non aveva le disponibilità finanziarie; così ritornava in ballo Horst Dassler che convinceva la Coca Cola a un accordo commerciale con l’organismo di vertice calcistico mondiale.
Altre grandi multinazionali, come Seiko o Gillette, con il tempo si sarebbero accodate su questa scia. Dassler, inoltre, avrebbe creato una compagnia con Patrick Nally, per gestire merchandising e diritti televisivi. E la presenza di Adidas e Coca-Cola in Spagna ’82 sarà massiccia. Per quanto riguarda il merchandising, la concessione per lo sfruttamento commerciale dei prodotti del Mundial era nella mani della società Ibermundial.
Società che vedeva la partecipazione di West Nally (di proprietà di Patrick Nally), della FIFA e della Federazione spagnola. I due colossi Adidas e Coca-Cola detenevano la maggioranza delle azioni della SMPI (Società monegasca di promozione internazionale), di cui anche Nally aveva una quota; un’affiliata della SMPI era la CMT (Consorzio Mondiale delle televisioni), la quale aveva in concessione l’esclusiva dei diritti di trasmissione televisiva dei mondiali. Adidas gestiva anche la pubblicità dei cartelloni degli stadi e pubblicizzava anche il pallone ufficiale del Mundial.
Il calcio era entrato nell’era moderna del business: e se è vero che le riforme di Havelange avevano aperto alle nazioni del terzo mondo, è anche e soprattutto vero che le grandi multinazionali del mondo occidentale potevano concludere affari d’oro espandendosi nei paesi più poveri.
Con Spagna ’82, primo mondiale di calcio a 24 squadre nella fase finale, Saporta aveva presenti quali fossero le linee guida per cercare di fare di esso un grosso affare che facesse anche da traino economico e non alla nuova Spagna democratica.
A tal riguardo, il quotidiano “La Stampa” in articolo pubblicato il 20 gennaio 1982 dal titolo “Un pallone pieno di miliardi” poteva, tra l’altro, scrivere: “Il mondiale di Spagna, a differenza di quanto capitò in Argentina quattro anni fa, quando ragioni di natura politica stavano alla base dell’organizzazione, non nasconde i suoi obiettivi di puro affare economico. Un business gigantesco, un giro vorticoso di miliardi… il profitto pare essere la parola d’ordine più gradita degli organizzatori spagnoli”.
E riprendendo il discorso circa i quattro cardini mercé i quali Saporta contava per far colare giganteschi rivoli di soldi, ovvero biglietti, diritti televisivi, pubblicità e merchandising, la prima voce non avrebbe dato i risultati preventivati. Secondo la relazione finale del presidente del Comitato organizzatore, per i biglietti le entrate furono di 3 milioni di pesetas (all’incirca 30 miliardi di lire dell’epoca).
Per diritti televisivi le entrate ammontarono a circa 39 milioni di franchi svizzeri (sotto l’aspetto televisivo fu un gran successo, con la finale dell’11 luglio vista da un miliardo e ottocento milioni di persone e trasmessa in diretta per la prima volta anche in Nord America), per la pubblicità dei cartelloni negli stadi si totalizzarono 36 milioni, sempre di franchi svizzeri, per il merchandising il guadagno era stimato sui 33 milioni di marchi.
Questo, a parte i guadagni derivanti da lotterie, totocalcio e qualche altra voce. E se la FIFA (a cui toccava il 10% dei ricavi, dichiarava un netto di sei miliardi di lire), si può ricavare che grosso modo i ricavi complessivi del mondiale spagnolo si siano attestati sulla cifra di 60 miliardi di lire.
La Federazione Spagnola avrebbe avuto il 25% dei ricavi, le altre 23 Federazioni il 65%. Nel complesso un buon successo, a parte, come si è detto, il cattivo risultato relativo alla vendita dei biglietti, le cui cifre costituirono un autentico fallimento.
Con la media di poco più di 38.000 spettatori, si registrò il dato più basso delle ultime 5 edizioni della Coppa del Mondo. Il consorzio Mundiespaña, creato per gestire il business dei biglietti e degli alberghi (aveva comprato tagliandi di ingresso agli stadi per 166 milioni pesetas – più o meno 2 miliardi di lire dell’epoca, con diritti di esclusiva), aveva fatto un autentico passo falso vendendo pacchetti di biglietti relativi a più partite, con annesso volo aereo e pernottamento in hotel costosi, in una prospettiva speculativa troppo manifesta (si calcolò che i turisti che avevano fatto ingresso in Spagna in quel periodo non superassero la cifra di 150 mila persone, parte dei quali si “arrangiarono” riguardo agli alberghi e ai biglietti, evitando le forche caudine dei prezzi esagerati di Mundiespaña). Poi troppa dispersione geografica: 17 stadi per 24 squadre.
A parte il flop della gestione di biglietti e alberghi, un’altra voce in negativo per la Spagna furono le perdite per certi esercenti privati spagnoli, penalizzati o non favoriti dall’evento: mancati guadagni più o meno gravi registrarono teatri, cinema, centri commerciali e ristoranti, per via della concomitanza oraria con le partite di calcio.
Ma non tutto filò per il verso giusto neanche nell’aspetto organizzativo dell’evento: il Comitato organizzatore aveva poteri e prerogative abbastanza generici, che per alcuni erano troppi e per altri pochi, il che condusse inevitabilmente a contrasti e, perché no, a gelosie. Havelange e il suo vice, il tedesco occidentale Neuberger, indirizzarono parecchie critiche nei confronti dell’operato di Saporta, lamentando soprattutto la lentezza o la carenza nell’ammodernamento degli stadi, o di questa o di quella infrastruttura.
Nemmeno la Federazione spagnola fu tenera con l’operato del Comitato. A ogni buon conto, la FIFA fece sapere che dalla successiva edizione dei campionati mondiali di calcio la FIFA sarebbe stata unica promotrice, mentre il Comitato organizzatore avrebbe assunto il ruolo di esecutore.
Non ultimo, il Comitato fu criticato anche per i costi per organizzare l’evento (si pensi soprattutto alla ristrutturazione degli stadi), con spese di molto superiori a quelle previste preventivamente, il che costrinse lo Stato spagnolo a intervenire finanziariamente in maniera sostenuta, benché la circostanza non fosse originariamente messa in conto (anzi, l’a-priori, il principio cardine base era di natura esattamente opposta, ovvero che lo Stato non sborsasse).
Purtroppo, anche il contesto politico internazionale dell’epoca creò qualche apprensione e qualche problema. Almeno 4 i focolai di crisi internazionali che destavano preoccupazioni. A inizio aprile 1982 la Giunta militare argentina, con una nazione ormai in stato gravissimo da un punto di vista economico e sociale (la nazione per molti aspetti era sull’orlo della guerra civile), pensò di assopire le tensioni interne con quella che poteva essere una classica diversione di carattere bellico, in modo da stringere l’Argentina intorno alla bandiera del sentimento nazionale (forse più esatto dire del sentimento nazionalistico). Venivano invase le isole Falkland (per gli argentini, Malvinas).
Queste isole erano (e sono tuttora) un possedimento inglese nel bel mezzo dell’Atlantico meridionale; geograficamente non sono distantissime dalla nazione latinoamericana, che per questo le ha da sempre rivendicate come proprie. Ma la Gran Bretagna non accolse il gesto con benevolenza, mandando le proprie truppe a difendere i territori occupati.
A nulla valsero i tentativi degli USA per non far tuonare il cannone e il mondo si spaccò: volendo generalizzare, si potrebbe dire che il blocco sovietico e il terzo mondo parteggiarono a favore dell’Argentina, mentre le nazioni del blocco occidentale manifestarono il loro sostegno alla Gran Bretagna della signora Thatcher. Ovviamente, non mancarono eccezioni e distinguo da ambo le parti, a cominciare dall’Italia, che non poteva non considerare come metà della popolazione argentina fosse di origine italiana e come fossero importanti, per non dire altro, i legami e i rapporti commerciali italo-argentini (il che portò qualche ministro inglese a indirizzarci qualche frecciata maligna, con una dichiarazione con la quale si diceva che se i soldati argentini schierati contro il proprio paese fossero stati di origine spagnola, si sarebbero comportati valorosamente, mentre se fossero stati di ceppo italiano, no).
Nel contesto dei mondiali, la guerra, che sarebbe terminata a metà giugno, praticamente in concomitanza con l’inizio del Mundial stesso, oltre a creare qualche grattacapo di ordine pubblico (gli spagnoli simpatizzavano per gli argentini, anche perché nei confronti dei britannici hanno sempre reclamato Gibilterra, e, ovviamente, questo non poteva fare piacere agli hooligans inglesi), comportò il rischio che le autorità britanniche facessero ritirare le tre proprie nazionali qualificate per Spagna ’82, ovvero Inghilterra, Irlanda del Nord e Scozia.
Poi non successe nulla di ciò e i risultati sportivi avrebbero evitato il match Inghilterra-Argentina (potenzialmente giocabile in semifinale o in una delle due finali). In ogni caso, le televisioni della Gran Bretagna boicottarono gli incontri degli argentini. Ma è probabile che la guerra non avesse lasciato tranquilli gli argentini, sebbene Menotti si sforzasse di rassicurare come fosse dovere della squadra impegnarsi al massimo per dare una gioia agli argentini, dopo la sconfitta nei campi di battaglia.
Nel giugno 1982 si perveniva al confronto diretto tra Israeliani e siriani, dopo che i primi avevano ideato l’Operazione “Pace in Galilea” allo scopo di cacciare i palestinesi dal Libano (con la speranza di poter pervenire a una pace separata con il Libano), favorendo la componente cristiana maronita.
Dal Libano frequenti attacchi terroristici venivano diretti da anni contro la nazione con la Stella di David e i dirigenti israeliani non erano più disposti a tollerare. Il che spalancò la porta al confronto armato tra lo Stato ebraico da una parte e il Libano, la Siria e i miliziani palestinesi dall’altra.
Lo scontro, a dire la verità, un po’ era conseguenza della guerra civile libanese, ma era pure conseguenza della guerra Iran-Iraq, con iraniani e siriani che si ritrovavano accomunati dal comune interesse antisraeliano e antirakeno, e con gli irakeni a cui non sarebbe dispiaciuto che i siriani si impelagassero nella palude libanese, così da avere la sicurezza che questi ultimi non muovessero loro guerra.
Non a caso, si è parlato di complicità dei servizi segreti irakeni nel ferimento del diplomatico israeliano Shlomo Argov, avvenuto a Londra il 3 giugno 1982, con lo scopo di far precipitare la situazione in Libano con l’innesco di una guerra.
Simile ipotesi non sarebbe da scartare, se si pensa che Israele, a fronte della guerra Iran-Irak, aiutava, sia pure in maniera discreta e senza ufficialità, il primo contendente.
Per cui, nel 1982 poteva essere interesse dell’Irak innescare una guerra nella quale sarebbero stati invischiati sia la Siria che Israele (come poi è effettivamente successo): non si dimentichi che nel 1981 diversi aerei iraniani erano partiti dalla Siria per bombardare l’Iraq e che in quegli anni in diverse occasioni aerei militari siriani avevano sconfinato minacciosamente in Iraq (mentre nel maggio dello stesso anno Israele bombardava una centrale nucleare irakena).
L’Iraq temeva per il proprio fianco occidentale e quindi trascinare la Siria in un confronto militare contro Israele in Libano non era eventualità che a Saddam potesse dispiacere. Sebbene Israele non facesse parte delle 24 squadre qualificate, questo non lo lasciava completamente fuori dal contesto del Mundial.
Perché uno degli arbitri selezionati per dirigere le partite di Spagna ’82 era Abraham Klein, professore di ginnastica con moglie pianista, fischietto di cittadinanza israeliana e di religione ebraica, nato a Timisoara nel 1934 da padre cittadino ungherese. Scampato alla Shoah, Klein era al terzo mondiale, dopo Messico ’70 (dove aveva diretto Inghilterra-Brasile) e Argentina ’78 (dove, forse, l’ineccepibile e rigorosamente obiettiva direzione di Argentina-Italia, gli era costata la possibilità di arbitrare la finalissima, con la consolazione di dirigere la finale per il terzo posto tra Brasile e Italia).
Aveva saltato Germania Ovest ’74, per ragioni di sicurezza, dopo l’assalto agli atleti israeliani alle Olimpiadi del ’72. Era capace di parlare 7 lingue e vantava un’eccezionale preparazione atletica: diceva che per evitare errori di valutazione doveva correre più dei giocatori.
Ma la circostanza che Klein fosse israeliano spingeva i Paesi arabi a minacciare la FIFA di non trasmettere le partite dove lo stesso avesse operato da arbitro (poi le gare in cui figurava il medesimo sarebbero state trasmesse, però il suo nome sarebbe stato cancellato dalle sovraimpressioni). Comunque, quando Klein diresse Italia-Brasile il 5 luglio alcuni Stati del Golfo Persico, per l’esattezza Arabia Saudita, Bahrein, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Oman e Qatar, non trasmisero la partita.
Ma Klein avrebbe vissuto durante il Mondiale un dramma personale: aveva il proprio figlio Amit impegnato come soldato nella guerra conseguita all’invasione israeliana del Libano. Non avendo per parecchi giorni notizie del figlio, Klein chiese di essere esonerato dal dirigere partite, mancando della necessaria tranquillità, limitandosi a svolgere le funzioni di guardalinee. Appena saputo che il figlio era sano e salvo, poteva ritornare ad arbitrare: avrebbe diretto Brasile-Italia.
E l’uscita di scena del Brasile, gli avrebbe negato la finale: Havelange “sponsorizzò” il brasiliano Coelho e Klein sarebbe stato guardalinee. Come consolazione, Klein veniva designato come arbitro in caso la partita non avesse visto un vincitore e fosse stata da ripetere.
Un altro elemento di rischio (per fortuna in questo caso senza eventi bellici in atto) per i mondiali fu la minaccia dell’Organizzazione dell’Unità Africana di boicottare i mondiali per la presenza della Nuova Zelanda, che all’epoca intratteneva rapporti sportivi con il Sud Africa dell’apartheid.
Poi il rischiò rientrò e Algeria e Camerun parteciparono regolarmente. Infine, altro elemento di tensione poteva essere costituita dalla situazione interna della Polonia, dove nel dicembre dell’’81 le autorità locali avevano dichiarato la legge marziale per evitare i carri armati sovietici.
E Polonia e Urss si sarebbero incontrate nel secondo turno. Tutte queste tensioni avrebbero costretto ad accorgimenti nella scelta degli arbitri: sarebbe stato irrealistico e pericoloso chiamare l’israeliano Klein a dirigere partite di Algeria o Kuwait, o designare il russo Stupar per partite nelle quali scendeva in campo la Polonia, oppure mandare qualche britannico in match in cui era impegnata l’Argentina.
A proposito di quest’ultima, i sudamericani non mancarono di prediligere arbitri provenienti da paesi del blocco dell’Est comunista piuttosto che da paesi facenti parte della Nato, ritenuti filoinglesi (non a caso la biancoceleste sarebbe stata arbitrata da un cecoslovacco per la partita contro il Belgio, da un algerino nella sfida contro l’Ungheria, da un boliviano nella gara contro El Salvador, da un rumeno nell’incontro con l’Italia, mentre per Brasile-Argentina vi sarebbe stato un messicano).
Al mondiale di Spagna avrebbero partecipato le seguenti nazioni: Austria, Belgio, Cecoslovacchia, Francia, Germania Ovest, Inghilterra, Irlanda del Nord, Italia, Jugoslavia, Polonia, Scozia, Spagna, Ungheria e Urss per l’Europa; Argentina, Brasile, Cile e Perù per il Sud America; El Salvador e Honduras per il Nord e Centro America; Algeria e Camerun per l’Africa; Kuwait e Nuova Zelanda per Asia ed Oceania. Per la prima volta tutte e sei le confederazioni calcistiche mondiali (AFC, CAF, CONCACAF, CONMBEBOL, OFC, UEFA) avrebbero avuto almeno un rispettivo rappresentante.
Algeria, Camerun, Honduras, Kuwait e Nuova Zelanda (che aveva sconfitto 2-1 la Cina Popolare nello spareggio per l’accesso Spagna ’82 – ambedue erano appaiate a 7 punti, dietro il Kuwait con 9 nel girone di secondo turno Asia-Oceania) erano alla loro prima partecipazione assoluta alla fase finale di un mondiale.
Avendo dovuto affrontare lo spareggio con i cinesi, alla Nuova Zelanda erano dovuti servire ben 15 incontri per accedere alla fase finale in Spagna. Assente di riguardo, l’Olanda, finalista nelle due precedenti edizioni (gli orange furono eliminati da Belgio e Francia nel gruppo 2 di qualificazione europea). Da notare che le qualificate per merito nel girone europeo furono 13 (la Spagna partecipava di diritto, in quanto Paese organizzatore).
Ragion per cui, i primi 6 gruppi di qualificazione europei, costituiti rispettivamente da 5 squadre, hanno avuto 2 squadre qualificate, mentre il gruppo 7, costituito solo da Polonia, Germania Est e Malta, vedeva solo la prima staccare il pass per il mondiale.
In Sud America era qualificata di diritto l’Argentina, in qualità di campione uscente. Brasile, Perù e Cile per passare avevano vinto i loro rispettivi gironi composti da 3 squadre ciascuno. Il Perù nel gruppo 2 si prese la soddisfazione di eliminare il più quotato Uruguay (vincendo 2-1 in casa uruguagia).
In Europa le uniche squadre ad aver vinto tutti gli incontri di qualificazioni erano state Germania Ovest e Polonia (poi classificatesi rispettivamente seconda e terza nella fase finale). In Sud America l’unica squadra a punteggio pieno nella fase di qualificazione era stato il Brasile, considerato il favorito numero uno per la vittoria finale.
Peraltro, le due squadre qualificate per il girone centro nordamericano, El Salvador e Honduras erano divisi da acerrima ostilità, che li aveva risucchiati in precedenza nell’inferno di confronti armati, compreso quello scoppiato nel 1969, in occasione delle qualificazioni per il mondiale messicano, dando vita a quella che venne chiamata la prima guerra del football.
Ed El Salvador era dilaniato da una gravosa guerra civile in atto (malgrado tutto, era riuscito a qualificarsi, a danno di un favoritissimo Messico). Il mondiale si sarebbe tenuto dal 13 giugno all’11 luglio. Il sorteggio per composizione dei sei gruppi da quattro squadra per la fase si tenne a Madrid il 16 gennaio 1982 Le teste di serie erano Argentina, Brasile, Germania Ovest, Inghilterra e Spagna.
L’Italia nel gruppo 1, la Germania Ovest nel gruppo 2, l’Argentina nel gruppo 3, l’Inghilterra nel gruppo 4, la Spagna nel gruppo 5, il Brasile nel gruppo 6. Le teste di serie avrebbero avuto il discutibile vantaggio di disputare l’ultima partita posteriormente a quella delle altre compagini del rispettivo girone. Questo avrebbe determinato polemiche e, in qualche caso, sospetti. Ragion per cui, dal successivo Mundial messicano ci sarebbe stata contemporaneità assoluta.
Se il favorito e lo spauracchio era il Brasile, la Spagna, squadra di casa, teoricamente non l’avrebbe dovuto incontrare se non in finale. Dai sei gironi sarebbero state squalificate le prime due (naturalmente, in caso di parità di punti, sarebbe valsa la differenza reti). Il secondo turno si sarebbe strutturato con quattro gruppi all’italiana di tre squadre ciascuna; da ciascuno di essi, la squadra vincitrice sarebbe approdata alle semifinali.
Ritornando al sorteggio, personalmente ricordo di aver visto la trasmissione televisiva sportiva Dribbling Speciale, nella quale vi era ospite, tra gli altri, Pruzzo. Lo stesso romanista, invero, non avrebbe trovato sgradita l’eventuale presenza nel nostro girone del Belgio. E appena iniziata l’estrazione delle squadre componenti i gruppi, pareva aver indovinato circa i belgi, che venivano inseriti nel nostro girone come prima squadra sorteggiata nella terza fascia.
La seconda squadra di terza fascia era la Scozia che sarebbe finita niente meno che con l’Argentina (ma all’epoca del sorteggio non era scoppiata la guerra delle Falkland e quindi in quei frangenti non vi sarebbero stati problemi, né erano da immaginare). Ma ci si accorgeva che se si fosse andati avanti con il sorteggio Cile e Perù sarebbero finite in uno stesso girone, il che non doveva essere, perché ogni singolo gruppo non poteva contenere due squadre del Sud America.
Blatter, all’epoca segretario generale della FIFA, bloccava la procedura di sorteggio delle squadre di terza fascia, facendola ripetere. Così, il Perù finiva a farci compagnia nel primo girone, il Belgio andava a incrociarsi nel terzo girone con l’Argentina, la Scozia avrebbe incontrato il Brasile nel sesto gruppo e il Cile si sarebbe misurato con i tedeschi nel secondo gruppo.
Il secondo turno avrebbe visto il vincitore del primo gruppo nello stesso girone della prima classificata del gruppo 3 e della seconda del gruppo 6 (presuntivamente il girone avrebbe potuto essere composto da Italia, Argentina e Urss). Il vincitore del secondo gruppo se la sarebbe giocata con la prima classificata del gruppo 4 e la seconda del gruppo 5 (probabilmente Germania Ovest, Inghilterra e Jugoslavia).
Il vincitore del gruppo 5 avrebbe incrociato le seconde classificate dei gruppi 2 e 4 (si pronosticavano Spagna, Austria e Francia). Infine, il vincitore del gruppo 6 avrebbe incrociato i guantoni con le seconde dei gruppi 1 e 3 (sulla carta Brasile, Polonia e Belgio). Da notare come i vincitori dei gruppi 5 e 6 (era ipotizzabile fossero Spagna e Brasile) avrebbero dovuto incontrare solo squadre seconde qualificate.
Dal secondo turno era forse in auspicio che si qualificassero per le semifinali Argentina, Germania Ovest, Spagna e Brasile. In semifinale si sarebbero potuti vedere gli incontri Argentina-Spagna e Germania Ovest-Brasile.
Probabilmente, nei desiderata dell’organizzazione la finale ideale doveva essere Brasile-Spagna. Il che avrebbe assicurato più interesse e guadagni. Non sarebbe stato così.
GLIEROIDELCALCIO.COM (Francesco Zagami)
Nato nel 1971 a San Gavino Monreale. Da sempre interessato a temi calcistici e storici. Fondamentalmente autodidatta. All'attivo 3 libri. Un quarto testo, relativo alla Storia della Repubblica sociale Italiana in corso di pubblicazione. Ora al lavoro per un libro relativo al mondo arabo e per uno riguardante il periodo d'oro della Roma di Liedholm 1979-1984.
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