«Ci vuole un fisico bestiale/ Per stare nel mondo dei grandi/ E poi trovarsi a certe cene/ Con tipi furbi ed arroganti»
(Ci vuole un fisico bestiale-Luca Carboni)
Diciamolo pure, oggi i calciatori sembrano tanti modelli, tutti belli e lindi, fisico asciutto e scolpito, capelli e ciuffi impomatati, barbe e baffi artistici, palestra che trasuda anche solo a vedere il collo.
Eppure, sembrerà strano, non è sempre stato così.
C’era un tempo che nel calcio, in campo o sull’album di figurine, i calciatori avevano le facce, l’aspetto di… chiunque altro, dal tifoso all’impiegato di banca, dallo yuppie allo studente.
Logozzo con i suoi baffoni, Angelo Colombo che sembrava il nonno di tutti noi, i capelli scarmigliati alla Zigoni, Bobby-gol Bettega con i capelli grigi da giovane; il defunto Ninì Udovicich che sembrava tuo zio oppure l’impiegato di banca.
Andatevi a vedere il truce Di Somma che faceva paura già sull’album di figurine, figurarsi quando ti aspettava fuori dagli spogliatoi del Partenio per darti il “benvenuto”.
Poi c’era anche il belloccio di turno, naturalmente, alias quell’Antonio Cabrini definito, appunto il “Bell’Antonio” o persino “fidanzato d’Italia”.
E poi c’era lui, Vito Chimenti, quello che del fisico bestiale cantato da Luca Carboni era l’antitesi.
Appena 170 cm di altezza, tozzo, con un evidente tendenza alla pinguedine rivelata nonostante le divise dell’epoca siano tutt’altro che elasticizzate, un faccione bello pieno pieno da operaio della Alfasud, calvizie accentuata e baffoni da pirata.
Alla fine degli anni ’70, diventa l’idolo delle partite di calcio tra ragazzi a Palermo, e non solo.
«U sa fari a Chimenti?» questa era la sfida classica tra ragazzini siciliani.
Fare la “bicicletta”, anni prima di vederla al cinema in “Fuga per la Vittoria” sublimata da un meraviglioso calciatore come Osvaldo Ardiles, è stato qualcosa che ha invogliato tutti noi di una certa età, in quei pomeriggi trascorsi in campetti sterrati, due pietre per porta, un pallone recuperato alla meglio.
E Vito Chimenti forse è colui che in Italia ne detiene i diritti di questo gesto calcistico: dribbling secco nel quale, in corsa, la palla viene alzata, trattenuta tra i piedi a tenaglia e portata in avanti con il tacco, scavalcando così l’avversario con un pallonetto.
Vito Chimenti, onesto mestierante delle aree di rigore, dai dilettanti ai professionisti, di professione attaccante, la bicicletta la fa in partita, non in un film e non è un gesto raro, anzi.
La serie incomincia in un amichevole contro la Juve, quando al numero tecnico segue una bordata che si infrange dietro al portierone Zoff (quanti potranno vantarsi di averlo come vittima preferita? Un “corso” e “ricorso” come vedremo dopo) e non si riesce a capire se il boato del pubblico sia più per il gesto o per il goal e forse neppure Vito sa come davvero sia successo, proprio a lui.
Oppure come quella volta che la eseguì in Coppa Italia contro il Napoli.
«Non dimenticherò l’esordio alla Favorita in coppa contro il Napoli. Feci la bicicletta a Catellani e segnai da fondo campo. Mi disse: Ma vaffanculo» parole e ricordi del bomber dalla faccia da operaio dell’Alfasud.
IL BOMBER RANOCCHIO
«U sa fari a Chimenti?» non è un semplice guanto di sfida tra ragazzini.
È la dimostrazione che il calcio è magia, un mondo dove il celebre anfibio del “Il principe ranocchio” può trasformarsi, la domenica, in principe azzurro, sconfiggere il cattivo di turno che è il difensore marcatore avversario, anche attraverso un giochino da circo.
Che dimostra però capacità tecnica e coraggio, e anche un po’ di incoscienza se hai il fisico come il buon Vito.
Che, invece, è un calciatore a tutto tondo (non è una battuta, non sorridete), nonostante le apparenze, un centravanti vero.
E che avrà altri momenti di gloria, sissignore, perché il ranocchio, in area di rigore non ha bisogno di un bacio di una qualsiasi principessa.
Stai fresco ad aspettarla, te la devi vedere da solo perché la realtà è ben diversa.
Perché chi legge forse non sa che, in realtà, nella versione originale dei Grimm il ranocchio non viene baciato, ma scaraventato contro una parete: il bacio è un’invenzione successiva della Walt Disney, a fini commerciali.
E Vito, che Adone non è, capisce subito quale delle due versioni fa per lui.
E così, ogni santa domenica, da quando ha 19 anni, partendo dai campetti polverosi della serie C con il Matera, il buon Vito, non trovando una principessa a batterlo contro il muro per trasformarlo, fa da sé e carica da solo contro quei muri difensivi avversari fatti di muscoli, tempra, sudore, botte e calci, trasformandosi per ben 16 volte in principe.
Cosa che lo fa approdare alla Lazio che si appresta, nel 1973-74, a conquistare il tricolore.
È solo di passaggio, direzione Lecco, ma fa a tempo ad ascriversi in una leggenda tutta biancoceleste: si narra, infatti, che in un allenamento avrebbe “osato “fare la “bicicletta” a Pino Wilson, capitano della Lazio, un tipino non per niente “dolce” e che non avrebbe preso goliardicamente la cosa allora.
Dopo un peregrinare sui campi polverosi della serie C, fra Lecco, Salerno e Matera, ecco la svolta per Vito.
Arriva la chiamata del Palermo, serie B ma finalmente professionismo.
E Vito, che il fatto suo lo sa eccome, ecco che trasforma il ranocchio in un principe rosanero diventando il cannoniere della squadra, 16 gol nel campionato 1977-’78, 13 in quello successivo.
E soprattutto cucendo per 83 minuti la coccarda della Coppa Italia sulla maglietta rosanero del Palermo, contro un avversario di tutto rispetto come la Juventus.
È la finale di Coppa Italia della stagione 1978-79.
Juventus, terza in campionato dietro al Milan della stella e il Perugia dei miracoli, e Palermo, sesto in serie B, si affrontano in finale unica sul terreno di gioco del San Paolo, a Napoli.
Apparentemente non ci sarebbe partita ma gli Dei del calcio amano spesso giocare con le emozioni dell’umano tifoso.
Ti languiscono l’uno e disperano l’altro, sovvertendo magari alla fine l’esito, trasformando la gioia in dolore, la paura in estasi con dispettose riscritture in corso d’opera.
E così può capitare che Vito Chimenti, raccogliendo una corta respinta del portierone Dino Zoff, insacchi al 1° minuto di sinistro la porta bianconera.
E può capitare che, dopo aver fatto ammattire la difesa bianconera tutto il primo tempo, Vito non si presenti praticamente in campo per il secondo tempo.
Qualcuno dirà per colpa di un calcione al ginocchio subito da Cabrini.
Altri diranno che il buon Vito abbia ricevuto minacce di spaccargli le gambe se fosse rientrato.
Questo, però, fa parte delle leggende metropolitane.
Comunque sia il Palermo si ripresenta in campo senza il suo principe del gol, e il sogno di vincere la Coppa Italia (evento riuscito solo al Napoli come squadra della serie B) dura fino a 7 minuti dalla fine dell’incontro quando l’arcigno difensore Brio, entrato in campo al 5° del secondo tempo, incomincia ad essere il correttore usato dagli Dei del calcio sullo scherzo iniziale offerto ai tifosi rosanero.
Si va ai supplementari e mentre tutta la Palermo rosanera (e forse mezza Italia), affida le sue speranze antijuventine ai calci di rigore, ecco che la storia viene riscritta completamente, per la gioia bianconera e la disperazione dei picciotti siciliani, tramite i piedi di Franco Causio, leccese di nascita ma ex rosanero calcistico.
Poi venitemi a dire che gli Dei del calcio non siano quanto di più ferocemente burlesco esista!
Vito Chimenti a Palermo (Foto ILNOBILECALCIO.IT)
Comunque uno come Vito, pur non aspirando alle grandi piazze come club, non può non provare il gusto di cimentarsi con la serie A.
Lo farà l’anno dopo con il Catanzaro, appena una rete in 26 presenze in una squadra che si salva solo perché vengono retrocesse d’ufficio Lazio, Milan e Pescara per il calcio scommesse.
Ci riprova il campionato seguente, 1980-81, con la maglia della Pistoiese e va decisamente meglio.
Quella Pistoiese è poca cosa, infarcita da vecchie glorie al tramonto (Lippi, Rognoni, Badiani, Bellugi e Frustalupi), di uno straniero meteora (tal Luis Silvio che darà adito a molte leggende: attore porno, gelataio, pizzaiolo) e qualche giovanotto che non renderà per quanto promesso (Benedetti Paolo).
Nonostante ciò Vito Chimenti fa il suo: 9 reti, senza rigori, in un campionato che vede la Pistoiese retrocedere da ultima in classifica, solo 16 punti e 19 reti segnate a fronte di 46 subite.
E se vi sembrano pochi 9 goal considerate che Roberto Pruzzo, al primo dei tre titoli come top scorer, ne segnerà il doppio, 18, ma con l’aiuto di 7 rigori!
Per i corsi e ricorsi del calcio sopra citati, segnalo che Vito Chimenti sembra avere un contro aperto con la Juventus e con Dino Zoff, anche se sono due sconfitte.
Segna contro il portierone bianconero entrambe le volte, andata e ritorno, prendendosi una piccola rivincita su un destino avverso, su quello che avrebbe potuto essere e non è stato in quella finale di Coppa Italia.
Vito ci riprova l’anno dopo, con l’Avellino del funambolo della bandierina Juary: saranno solo 3 reti in 26 partite.
Meglio così ricominciare, e finire, dove il ranocchio ha imparato come trasformarsi, sui campi polverosi della serie C, Taranto stavolta, dove ha il tempo di vincere un trofeo di capocannoniere, ma anche essere impelagato in una brutta storia di combine sportiva che gli costerà 5 anni di squalifica e la fine di una carriera trascorsa a sbattersi da solo contro i muri avversari fatti di muscoli e sudore, botte e calci.
Finché un goal o una “bicirieta” non ti trasforma in principe.
Auguri Vito, cento di queste “bicirieta”!
«È questo che ci salva dalla noia/ Gli altri con il corpo in mostra e l’anima nascosta/ Noi con l’anima che ci fa muovere le ossa»
(Un’altra volta da rischiare – Ermal Meta)