GLIEROIDELCALCIO.COM (Flavio Mecucci) – E’ finito ieri, 30 giugno, l’incubo di molti tifosi italiani. Con la chiusura del bilancio di esercizio e la determinazione del risultato economico della passata stagione, molte squadre di serie A possono finalmente volgersi al calciomercato non solo per trovare ricavi che soddisfino le esigenze di cassa, ma anche per dare corpo ai loro progetti sportivi per il futuro aprendo il mercato in entrata.
A questo punto verrebbe da chiedersi, da quando il tifoso italiano è entrato in questa ottica economica del divenire? Le danze sembrano aperte in campo internazionale con l’introduzione nel 2009 del Financial Fair Play, un progetto introdotto dal comitato esecutivo UEFA che mira a far estinguere i debiti contratti dalle società calcistiche inducendole nel lungo periodo ad un auto-sostentamento finanziario.
In Italia queste regole sono state recepite in pieno dalla FIGC che ha previsto dalla stagione 2018-2019 l’obbligo dei conti in pareggio per i club del massimo campionato. Per alcune società calcistiche poi, pesano anche i requisiti di oculatezza e trasparenza economica e le maggiori restrizioni imposte alle società quotate nel mercato finanziario. Roma, ad esempio, è protagonista dell’unico derby cittadino in Borsa, una circostanza che fa in modo che le “vittorie” si misurino anche in termini di guadagno del titolo e che le rispettive dirigenze impostino ogni anno uno stretto equilibrio tra ricavi e costi per programmare al meglio la stagione sportiva. “Follie del calcio moderno” diranno i calciofili disgustati dall’idea dell’emergere della figura del tifoso commercialista; ma non è proprio così. La storia degli esordi delle compagini capitoline ci racconta come la gestione dei debiti delle società sportive sia sempre stata una chiave di lettura essenziale del calcio: fu infatti una storia di debiti, o buffi se detti alla romana, a tenere distinte Lazio e Roma, contraddicendo alla massima di Tolstoj che recita che “il denaro a quanto pare è solo una schiavitù moderna”. Un “buffo” mantenne quindi l’esistenza della più calda rivalità stracittadina della nostra serie A.
Per capire quest’intricata faccenda finanziaria bisogna dapprima capirne il contesto. Alla fine degli anni 1920 il divario tra le squadre del Nord Italia e quelle del Centro-Sud è larghissimo. Il calcio romano degli inizi ‘900 vede formarsi tante piccole squadre “di quartiere” sul modello di Londra. L’idea non nuova di creare a Roma una sola squadra maggiormente competitiva si tramuta in esigenza con l’imminente creazione del campionato a girone unico.
L’Alba Roma, il Roman e la Fortitudo trovano quindi l’accordo per associarsi in un’unica società, sotto la supervisione del segretario della federazione romana del PNF Italo Foschi, all’epoca anche membro del CONI e dirigente della Fortitudo, nonché futuro presidente romanista. Precedentemente i tre club che diedero vita alla Roma sono riusciti a conquistare 7 dei 10 Campionati Laziali disputati in seno alla massima divisione della FIGC. Resta fuori la Lazio, protagonista indiscussa del calcio capitolino del primo ventennio del ‘900, esempio societario e sportivo per le altre squadre della Città Eterna.
Ma qual è il motivo di tale esclusione eccellente? In molti dicono che la pietra dello scandalo fosse la scelta del nome Roma per la nuova squadra in aggiunta all’assegnazione dei colori del Roman, cioè il giallo e il rosso, che rappresentavano i colori del gonfalone del Campidoglio: si racconta inoltre che la Lazio non volesse rinunciare nella fusione al titolo di ente morale ottenuto nel 1921, né alla sua storia e ai suoi colori. Ma la realtà dei fatti, se osservata con attenzione, sembra più complicata.
Il presidente laziale, il console Giorgio Vaccaro spingeva orgogliosamente affinché il nome fosse Lazio-Fortitudo (dall’unione delle squadre maggiormente rappresentative). A dividere i due presidenti c’erano però a latere profonde rivalità politiche: Vaccaro era un piemontese arrivato da poco a Roma che aveva scelto la Lazio come base per le sue operazioni politico-sportive. In quei giorni lo sport stava diventando iper-politico, un terreno di scontro tra i gerarchi che volevano mettersi in mostra. Vaccaro, appartenendo alla milizia, vedeva come il fumo negli occhi un tipo come Foschi, che proveniva dalle file del nazionalismo, un fascista borghese di quelli che avevano messo il colletto inamidato riponendo nell’armadio il fervore squadrista.
Sebbene le trattative sulle questioni identitarie e politiche trovarono spiragli di risoluzione già dalle prime riunioni tra il giugno e l’agosto 1926 con l’introduzione della riforma imposta dalla “Carta di Viareggio” che rivoluzionava completamente i ranghi della stagione calcistica 1926-27, furono altre le questioni che risultarono dirimenti al fallimento delle trattative. E, come detto, furono motivazioni economiche.
Già nei primi di settembre del 1926, Foschi tornò alla carica per unire la Lazio ad un sodalizio che a lui stava molto caro: il Football Club di Roma o Roman del quartiere Parioli. L’obbiettivo era quello di formare una società sportiva più solida dal punto di vista economico (sarebbero arrivati i soldi dei “finanzieri” del Roman) ed una squadra più valida per affrontare il girone meridionale della Prima Divisione. La Lazio però non sembrò al momento interessata. I biancocelesti che a seguito di vicissitudini economiche avevano perso da qualche mese l’anima della squadra, quel Fulvio Bernardini poi bandiera romanista, stavano vedendo ripagato il loro maggiore investimento con l’apertura del nuovo “stadio”, ovvero il Campo della Rondinella da 15.000 posti definito entusiasticamente “il migliore campo da Bologna in giù attrezzato per grandi partite internazionali”.
Dopo i primi incontri informali di metà maggio, nel quale si erano avviate le trattative senza entrare nei particolari, il 3 giugno 1927 ci fu un secondo incontro tra le società. Dalle testimonianze di importanti storici dell’argomento si riporta che in questa occasione, emersero appunto questioni economiche difficili da sanare. Tutto fu rimandato ad una riunione fissata per il 6 giugno sera, questa volta nella sede della Lazio e con la partecipazione di alcuni rappresentanti della Fortitudo-ProRoma, riunione che però divenne la ratifica formale di una mancanza di volontà di addivenire a un accordo già di per sé conclamata. Il lunedì 6 giugno, in una fredda seduta a via Tacito 43, Vaccaro offerse una transazione finanziaria inaccettabile per l’Alba- Audace e la Fortitudo-Pro Roma, provocando il ritiro dalle trattative del legale del sodalizio biancorosso-blu. Secondo il verbale originale della seduta, alla base del contrasto ci fu una capziosa valutazione del riconoscimento dei debiti della Fortitudo a fronte di quelli della Lazio. In altre parole: la Lazio impose la richiesta di sistemare il proprio passivo (il riconoscimento integrale del debito ammontava in complessive lire 200.000, poco più di 165.000 euro odierni) in una maniera tale che non consentiva di liquidare i debiti dell’Alba. La Fortitudo, che a quel punto si muoveva di concerto con l’Alba, non acconsentì alle richieste della controparte.
Italo Foschi allora, in fretta e furia, mise in atto il piano di riserva, quello che prevedeva l’entrata in gioco del Football Club di Roma, l’aristocratico sodalizio pariolino. Il “Roman” doveva garantire l’operazione dal punto di vista finanziario, dato che per varare la “Roma” occorreva liquidare i debiti consolidati dell’Alba-Audace e della Fortitudo-Pro Roma. I “romanisti” vantavano nelle loro file Renato Sacerdoti, rampollo di una dinastia di operatori di borsa che aveva saputo coinvolgere molti agenti di cambio nella febbre del football. La nuova società capitolina quindi nasceva e il Roman, ne forniva l’assetto direttivo, la lussuosa sede fornita di segreteria in via Uffici del Vicario 35 e un manipolo di giocatori. L’Alba donava la rosa dei calciatori, altri dirigenti e il prezioso campo dell’Appio. La Fortitudo-Pro Roma concedeva gli organici della sezione calcio, alcuni dirigenti e le valide sezioni ciclistica e atletica. Fu riproposta la tenuta del Roman anche per motivi pratici: il magazzino del Roman era di gran lunga il più fornito.
Nei giorni immediatamente successivi il presidente biancoceleste, Giorgio Vaccaro attaccò duramente il neo presidente romanista, avvalorando la versione dei fatti pro domo sua: era stata la Fortitudo-Pro Roma, e non la Lazio, a far fallire l’operazione. Il ravvedimento non era da rintracciare nella compagine laziale, in quanto il riconoscimento dei debiti nella forma proposta dalla Lazio era stato posto sul piatto “al preciso e solo scopo di non creare un nuovo organismo che iniziasse la sua attività con un passivo ingentissimo”. Nell’intervista fiume del presidente biancoceleste a “Il Tevere” del 15 giugno 1927 Vaccaro ribadisce appunto che la fusione delle formazioni capitoline “rimase senza conclusione non per volontà della Lazio” e che “la questione del nome (come del simbolo e dei colori, ndr) non fu neppure levata, perché le trattative caddero sulla questione finanziaria per la quale i dirigenti della Fortitudo avevano chiesto la precedenza.”.
Se la lettura attenta delle vicende costitutive del calcio romano ci riporta una storia meno romantica di quanto avremmo voluto immaginare del calcio dei primordi, l’occasione può essere ghiotta per rivalutare con la giusta prospettiva anche la situazione odierna perché, come dice un famoso proverbio tedesco, “quando il denaro bussa, le porte si spalancano, perché Dio regna nei cieli, il denaro sulla terra”. E se è pur vero che ciò che guida gli appassionati al gioco del pallone è l’amore per la propria squadra, i propri colori, la propria storia e i proprio beniamini, “ciò che distingue l’uomo dagli altri animali saranno sempre le preoccupazioni finanziarie”.