Splendida intervista di Walter Veltroni per 7- Sette, il settimanale del venerdì del Corriere della Sera, a Cinzia Bearzot, figlia dell’indimenticato Enzo Bearzot.
Di seguito un estratto:
«Mio padre era un personaggio complesso. Era un uomo intransigente, molto rigoroso. Fino a essere meravigliosamente testardo, quando era convinto delle sue idee. Al tempo stesso si mostrava molto attento ai rapporti umani. Come dice nell’intervista riportata nel suo film, la sola cosa che avrebbe consigliato ai suoi successori era di “sbagliare con la propria testa”. Era del tutto indifferente alla popolarità facile, seguiva un imperscrutabile filo di coerenza interiore. Forse proprio quello, alla fine, lo fa ricordare con tanto affetto dagli italiani. E dai suoi ragazzi. Li chiamava così, i suoi giocatori».
Su Paolo Rossi… «Nel film Federica, la moglie, racconta il loro ultimo incontro. Papà era già malato, morì poco dopo. Voleva un gran bene a Paolo. Lo riteneva non solo un campione di calcio ma un ragazzo intelligente e per bene. Lui, ad esempio, non ha mai creduto a quella storia del calcio- scommesse. Se non fosse stato convinto della totale innocenza di Paolo, con il carattere che mio padre aveva, certo non lo avrebbe aspettato, protetto e persino portato in Spagna. Lui era convinto che quella nei confronti di Paolo fosse qualcosa che oscillava tra l’equivoco e la persecuzione. II giorno del loro incontro, io ero presente, papà era come si rivitalizzasse e ritrovasse, nel ricordare i tempi del 1982, energie che la malattia gli stava togliendo. Voleva bene a Paolo, molto».
“[…] I giorni della preparazione del Mundial furono carichi di malinconia e di rabbia, per lui. In fondo la Nazionale fin lì non aveva certo demeritato, come dimostra la Coppa del Mondo in Argentina. Molti critici non si limitavano a contestare le sue scelte, ma lo attaccavano personalmente, in modo spietato. Lui non ha mai ceduto alle pressioni per convocare questo o quel giocatore. Diceva “Io so che devo gestire un gruppo e conosco gli equilibri necessari per farlo”. […] Attaccati e vilipesi da tutti e tornati vincitori. Cose davvero da racconto epico. Quando lui tornò a casa non volle feste particolari. Era un uomo sobrio. Noi della famiglia gli regalammo due carte geografiche del mondo antico. Tutto qui».
«Papà fu mandato in collegio a dieci anni. Il suo destino era diventare medico ma poi decise di giocare al calcio. Con grande sconcerto in famiglia. Aveva una cultura variegata, con grande passione per il mondo classico. Passione che mi ha trasmesso. Era curioso. Conosceva la storia dell’arte, era appassionato di jazz. Amava la letteratura americana, Steinbeck e Hemingway in particolare, che diceva avessero molto influenzato la narrativa italiana del dopoguerra. Diceva che una squadra di calcio è come un’orchestra jazz: “Si suona tutti insieme e poi partono i solisti…”.
Relativamente al soprannome, «Il Vecio»: «Era un soprannome che gli piaceva molto. Glielo aveva dato il suo amico Giovanni Arpino, scrittore appassionato di calcio. Gli piaceva perché gli sembrava avesse a che fare con la sua friulanità, alla quale teneva molto. La caratteristica caratteriale, che lui confermava, era l’essere chiusi, riflessivi, discreti, sobri […]