RIVISTACONTRASTI.IT (Matteo Mancin) – Corrado Orrico è una strana creatura. Siamo proprio di fronte al prototipo di allenatore che entra nel mito, senza sapere di preciso cosa l’abbia spinto fino a quelle latitudini del nostro immaginario collettivo. Eppure sta lì, a prendersi delle magnanime pacche sulle spalle da chiunque ne parli, anche se ritrovare i motivi di cotanta bontà derivanti dal suo mestiere di allenatore sia un’operazione complessa. Senza dubbio Orrico ha la caratteristica basilare che distingue questo tipo di allenatori da tutti gli altri sulla piazza: una certa allergia per la diplomazia, una lingua sempre pungente, che disseta gli avidi taccuini dei cronisti che lo assediano. E questa è una peculiarità che sicuramente sarebbe piaciuta oggi, ma che allora suscitava una simpatia derivata dalla curiosità del personaggio, che appariva fuori dagli schemi.
E proprio gli schemi erano il santo Graal promesso al popolo interista da questo toscano verace. Infatti Orrico ha avuto, a differenza di altri allenatori, la possibilità di un giro sulla giostra delle grandi, per poter dimostrare teorie e idee innovativeapplicate al gioco del calcio. Nell’estate del 1991 l’Inter arriva da una stagione vissuta da protagonista, l’ultima con alla guida il gran timoniere Trapattoni, che aveva riportato la beneamata a vincere in campo nazionale ed internazionale, col trionfo in coppa UEFA nel maggio del 91. Era l’Inter dei tedeschi, della solidità, e dello spettacolo distillato col contagocce, sacrificato sull’altare del risultato: una squadra da tre anni ai vertici, sempre nelle prime posizioni e protagonista fino al finale di stagione. La piazza però mormora, infastidita dalla spettacolarità dei cugini milanisti, guidati da Sacchi in panchina e dagli olandesi in campo, che ricamano calcio in Europa e nel mondo fieri di esportare il bel gioco, una novità assoluta per il pragmatico calcio italiano.
In questo contesto di velata insoddisfazione si consuma la rivoluzione di quella calda estate del 91. Trapattoni torna all’ovile bianconero, richiamato alla Juve da Boniperti dopo le bizzarrie della stagione targata Maifredi (nefasto presagio per questa storia); Sacchi viene chiamato a furor di popolo a guidare la nazionale, sostituito dal pragmatismo di Fabio Capello che imposterà non una squadra, ma una macchina da guerra infallibile. Pellegrini, presidente dell’Inter, va in controtendenza. Desidera ardentemente vedere i tifosi nerazzurri fieri della propria squadra, desidera regalare loro lo spettacolo mancato negli ultimi anni di vittorie. Mette gli occhi quindi su Orrico, che all’epoca allena la modesta Lucchese in serie B, dopo averla portata alla promozione nella stagione precedente.
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Orrico in verità ha però una prima esperienza, lontana, in serie A, che avrebbe dovuto suonare come un campanello d’allarme. 22 gare, nell’Udinese della stagione 79/80, catapultato in A dopo aver trascinato la sua Carrarese dalla serie D ad un passo dalla serie B in tre anni. 22 partite con un bilancio disastroso, appena 2 vittorie 11 pareggi e 9 sconfitte. Dopo quel primo traumatico impatto, Orrico ritrova il bandolo della sua carriera nella natia terra toscana, tornando alla Carrarese, passando per Prato fino ad approdare alla Lucchese, presa in carico nella stagione 88/89 in C1, mentre l’Inter di Trapattoni triturava record su record in serie A.
Approdato in B si rende protagonista di una stagione brillante, condotta addirittura tra le posizioni di testa in lotta per un posto in A, ma è il gioco espresso dalla squadra a catturare gli occhi. Difesa a zona, magari un tantino allegra, ma all’avanguardia per l’epoca. Squadra corta e stretta, che si muove “a drappelli”, come ama ripetere lui. Metodi di allenamento incentrati alla condizione fisica esasperata, e la curiosa e per alcuni mitica “gabbia”, un campo d’allenamento delineato da 4 muri che impediscono alla palla di uscire dal campo, per allenare intensità e gioco veloce.
Appena Orrico sbarca ad Appiano Gentile, il primo acquisto che chiede alla società è il muratore che dovrà erigere i muri della sua gabbia, dove da adesso si alleneranno Matthaus e compagni. I tifosi sorridono, digrignano i denti di fronte alle ironie dei cugini milanisti, e sperano di prendersi la loro rivincita a maggio.L’Inter inizia il campionato contro il Foggia, neo promosso guidato da Zeman, l’altro allenatore che aveva regalato spettacolo in serie cadetta l’anno precedente. Le battutine e i sorrisini ironici lasciano spazio alla preoccupazione. Finisce 1-1 la prima a San Siro, e la sensazione è che Pellegrini non abbia azzeccato il messia della panchina, prendendo il rivoluzionario sbagliato dalla serie B. Non aiuta la successiva eliminazione al primo turno di Coppa Uefa, da campione in carica, contro il modesto Boavista. La squadra non gira, un gruppo per anni abituato alla solidità difficilmente si lascia andare agli svolazzi calcistici con naturalezza. Anche i nuovi acquisti, come Desideri arrivato dalla Roma, non si integrano.
La cosa è aggravata dalla marcia trionfale già impostata dal Milan destinato a concludere il campionato da imbattuto. La sensazione è che Orrico sia un allenatore troppo filosofo per fare breccia in un gruppo forgiato dalla praticità trapattoniana. Fioriscono leggende di varia natura a riguardo: dalle lunghe conversazioni con Klinsmann su Heidegger a quelle sulla finanza con Matthaus. Orrico sembra tutto fuorché l’allenatore sperato, sembra più interessato alla crescita umana dei suoi giocatori che ai risultati espressi sul campo. Le sue interviste in sala stampa sono però uno spettacolo nello spettacolo, con quella sua faccia così lunga e gli occhi scuri mai spalancati, parla di squadra in rodaggio, di progetto tecnico in avanzamento, ma sono parole che rimbombano vuote perché si ripetono fino alla fine del girone d’andata, con il Milan oramai sparito dalla linea d’orizzonte.
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Ovviamente Pellegrini rivoluziona tutto, chiamando il traghettatore Suarez a portare un po’ di tranquillità in attesa di affidare la squadra ad Osvaldo Bagnoli, per un’inversione totale del piano strategico. Da quel momento Orrico vede disintegrarsi la sua carriera d’allenatore. Si parla di lui più per alcune leggende e bizzarrie del suo essere verace che per le sue qualità da mister. Le altre esperienze in panchina sono fallimentari, compreso un fugace ritorno in A nel 1999 alla guida di un disastrato Empoli dove perde 10 partite su 13, prima di essere esonerato.
Trova però la sua dimensione come opinionista tv, proprio per quel suo essere mai banale che lo contraddistingue. Sembra magari un pesce fuor d’acqua in certi contesti mondani della tv odierna, ma proprio questa sua diversità lo eleva rispetto al piattume di commenti senza originalità che spesso infarciscono le trasmissioni. Mettere un uomo così peculiare, così colto e con dichiarate simpatie di sinistra nei salotti del commento calcistico nostrano, sembra davvero un ossimoro, che Orrico però volge a suo vantaggio, dichiarando la sua missione di allenatore dei pensieri di chi ascolta. Ecco forse è proprio questa la sua giusta dimensione di allenatore. I risultati avuti sugli schermi televisivi sono probabilmente migliori di quelli avuti sui campi ad alti livelli.
Rimane comunque un mistero come un allenatore così fallimentare nelle sue esperienze in serie A sia ancora ricordato con affetto dai tifosi interisti ad esempio, a cui ha fatto passare una mezza stagione d’inferno, illudendo tutto l’ambiente con la promessa di una bellezza rimasta solo a parole, quelle dove Orrico eccelle. È quindi la dimensione umana a rimandarci un’immagine di Corrado Orrico degna di essere ricordata, più che quella dell’allenatore. Una persona in grado di non essere mai banale, di avere idee nette e schiette, e di superare anche immani tragedie familiari come il suicidio del figlio Orlando.
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