GAZZETTA DELLO SPORT (Andrea Schianchi) – Più o meno è grande come un pacchetto di sigarette. Il regolamento stabilisce che la superficie massima non può superare i 50 centimetri quadrati, ma in questo caso l’importanza è inversamente proporzionale alla dimensione: per quel pezzetto di stoffa, cucito, applicato o ricamato che sia, ci si batte per un anno intero con tutte le proprie forze, che il cielo mandi sole o pioggia, e non si perde di vista l’obiettivo nemmeno quando le energie scarseggiano e la fatica annebbia il pensiero. Questo piccolo oggetto, simbolo di successo, di felicità e di gloria, è lo scudetto. La prima volta apparve appiccicato alle maglie di una squadra di calcio il 5 ottobre 1924: il tricolore spiccava sui colori rossoblù del Genoa, vincitore del campionato precedente, che sfidava (e batteva 4-0) la Cremonese. La Federcalcio, in una lunga riunione che si era tenuta a Torino e durante la quale era stata sancita una sorta di «pace sociale» tra i litigiosi club, aveva infatti stabilito che i campioni d’Italia avessero il fregio tricolore sul petto. Nessuno, da allora in poi, avrebbe potuto contestare (come era accaduto in passato) il risultato del campo: quel simbolo parlava chiaro a dirigenti, giocatori e tifosi. Anche a quelli che soffiavano sul fuoco e aizzavano la folla contro arbitri e avversari perché non erano stati assegnati un gol o un calcio di rigore: a quel tempo bastava poco per accendere risse e moti di piazza che presto si trasformavano in pericolosi fenomeni di violenza sociale, e poi dovevano intervenire i carabinieri del Regio Esercito, o addirittura i soldati.
L’EDUCAZIONE FISICA INSERITA NELLA COSTITUZIONE
A ideare lo scudetto non furono però i papaveri della Federazione, impegnati com’erano a scrivere comunicati, elaborare progetti, sedare liti. La scintilla scoccò grazie al genio di un poeta: Gabriele D’Annunzio. Tutto accadde a Fiume, oggi la croata Rijeka, nell’inverno del 1920. E lo sport, come succedeva quasi sempre quando c’era di mezzo il Vate, non era che lo strumento di un’azione politica basata sulla propaganda. D’Annunzio, che dell’intervento italiano nella Prima Guerra Mondiale era stato il principale fautore (spalleggiato dal Corriere della Sera e dalla grande borghesia del Paese), non si rassegnò alla fine del conflitto e trovò nella causa di Fiume il pretesto per proseguire la sua battaglia. La città, italiana per popolazione e dunque reclamata dal nostro Paese, era oggetto di una trattativa internazionale: il presidente americano Wilson, in particolare, si opponeva all’annessione al Regno dei Savoia. Il Vate, nel settembre del 1919, la occupò con un manipolo di legionari, molti dei quali disertori dell’esercito regolare, allo scopo di influenzare l’andamento della conferenza di pace. Per sedici mesi Fiume fu la patria, oltre che l’idea fissa, del Poeta che qui arrivò addirittura a proclamare uno stato indipendente, la Reggenza italiana del Carnaro, con tanto di carta costituzionale nella quale, tra le altre norme, si prevedeva un ufficio specifico per l’educazione fisica e lo sport.
UNA PASSIONE CHE SBOCCIO SULLA SPIAGGIA DI FRANCAVILLA
Nel bel mezzo di quest’impresa, da alcuni storici liquidata come l’ennesima goliardata di D’Annunzio e da altri considerata la madre naturale del successivo periodo fascista, il Vate, tutto infervorato e ringalluzzito dall’amore della gente, si dedicò alla scherma, al nuoto, all’ippica e pure al calcio, la sua vera passione. Più di trent’anni prima, nel 1887, aveva chiesto al suo amico musicista Francesco Paolo Tosti che gli acquistasse a Londra un pallone di cuoio con camera d’aria inglese: voleva giocare, sulla spiaggia di Francavilla, con lo stesso oggetto che utilizzavano i Maestri nel campionato di Sua Maestà. In un’occasione, durante una sfida più accesa del solito, D’Annunzio perse due denti in uno scontro di gioco, ma non per questa ragione si demoralizzò o abbandonò il campo. Nel 1902, dovendo recarsi a Genova, si fece precedere da una lettera indirizzata al padrone dell’hotel nel quale avrebbe dovuto alloggiare e dove era ospite anche il dottor James Spensley, socio fondatore del Genoa Cricket and Football Club. Auspicando un incontro in sala da pranzo con il famoso inglese, il Vate promise con il solito tono gladiatorio: «Oscurerò la gloria del dottor Spensley». Il calcio scorreva nelle sue vene, proprio come la poesia.
LA NAZIONALE COL TRICOLORE CHE APPARTENEVA A TUTTI
Durante il periodo di Fiume pensò di formare, con i suoi legionari, una specie di nazionale e di sfidare, in via del tutto amichevole, una rappresentativa composta dai migliori giocatori della cittadina. Diede ordini precisi, fece sistemare il campo sportivo di Cantrida e fissò il giorno dell’evento: domenica 7 febbraio 1920. Per l’occasione aveva in mente qualcosa di speciale: disegnò personalmente uno scudetto tricolore e lo fece applicare alla maglie dei suoi giocatori, che dovevano essere rigorosamente azzurre. Il simbolo era verde, bianco e rosso nella foggia che la terminologia araldica definisce «sannitico-antica». All’epoca la nazionale di calcio ufficiale indossava la maglia azzurra con lo scudo crociato bianco e rosso dei Savoia. D’Annunzio, scegliendo quel tricolore, voleva far capire che la sua era una squadra che apparteneva all’Italia tutta, e non soltanto al potere ufficiale rappresentato in quel momento dalla monarchia dei Savoia e dal governo Nitti, che lui apertamente osteggiava per i tentennamenti sulla vicenda di Fiume (d’altronde il re e il primo ministro, nel caso in questione, non potevano fare altro che attendere le decisioni degli altri Paesi).
REFERENDUM DELLA GAZZETTA LO SPORTIVO DELL’ANNO
La partita tra i legionari del Vate e i fiumani, arbitrata dal tenente Masperi, si concluse 1-0 per questi ultimi (gol di tale Tomag), ma il risultato poco interessava a D’Annunzio. Gli premeva soltanto che la sua azione propagandistica avesse effetto e fece in modo che la notizia dello scudetto sulle maglie fosse data con ampio risalto sui principali quotidiani. Era convinto che anche quel gesto avrebbe giovato alla causa di Fiume, e di conseguenza alla sua. Da quel giorno, pur con tutti gli ostacoli che dovette superare (a cominciare dal drammatico epilogo dell’esperienza della Repubblica del Carnaro), l’idea dello scudetto cominciò a farsi largo fino a diventare argomento di discussione sui giornali e nelle importanti riunioni politiche. D’Annunzio, uomo dallo smisurato coraggio e dall’infallibile fiuto, aveva fatto centro ancora una volta: attorno a un piccolo pezzetto di stoffa si poteva riunire un intero popolo. E che il Vate fosse, per la gente, un eroe da venerare al pari dei grandi campioni lo dimostrò, nel gennaio del 1922, un sondaggio della Gazzetta dello Sport che intendeva proclamare lo sportivo dell’anno: vinse, con un ampio distacco sul secondo, proprio Gabriele D’Annunzio che delle parole e della retorica fu certamente un atleta impareggiabile.
Articolo pubblicato sulla Gazzetta dello Sport del 10 marzo 2019