«Verissimo, servivano a pagare gli stipendi. Raccogliemmo circa 800 mila lire, che non bastavano. Non fu una cosa molto simpatica. Decidemmo di devolverli agli alluvionati del Vajont».
Poi, nel 1965, il presidente della Fiorentina, Nello Baglini, offrì alla Roma 250 milioni di lire e si prese De Sisti.
«Allora non era come oggi, decidevano tutto le società. Ricevetti la notizia mentre facevo il militare a Orvieto. Il caporale mi portò una copia del Corriere dello Sport: “De Sisti, qui dice che t’hanno venduto”».
«Il giorno stesso della cessione un messo della Roma andò a casa mia a riprendersi l’abito da trasferta, giacca e pantaloni. Ci rimasi malissimo».
Alla Fiorentina diventò un idolo dei tifosi, ma litigò con l’allenatore, Gigi Radice. E così tornò a Roma.
«Per scelta di cuore. Mazzola voleva portarmi all’Inter, mi avevano offerto aumento di ingaggio, villa e Mercedes. A Roma, però, c’era la mia vita. E poi mi voleva Nils Liedholm».
De Sisti parla di Liedholm.
«Che uomo straordinario. Non si incazzava mai, il famoso self control, ma quando succedeva era una furia. Un giorno prese un giocatore e lo sollevò letteralmente in aria prendendolo per la maglia».
Che aveva fatto?
«Prima di una amichevole con la Samp Liedholm disse una cosa del tipo: facciamo attenzione a tutti, anche a Spadetto. Un calciatore borbottò: seee, mo’ conta pure Spadetto. Spadetto segnò. Tornati negli spogliatoi il Barone fece il finimondo».
Nel 1979 De Sisti si ritirò dal calcio giocato.
«Non ce la facevo più, i ragazzini correvano troppo più di me».
Interviene nel dibattito sul doping nel calcio degli anni Settanta:
«Brutte abitudini ce ne sono sempre state e temo ci saranno. Di Micoren ne girava tanto, e anche ricostituenti. Però una cosa deve essere chiara: potevi rifiutarti e molti, me compreso, non li prendevano. Della Fiorentina degli anni Settanta si è parlato come fosse un ospedale da campo, non era così».
Sapeva già che avrebbe fatto l’allenatore?
«Pensavo di no per tre motivi: ero stanco dei ritiri, non volevo più viaggiare in aereo, non sopportavo che chiunque ti potesse insultare. In Italia semo tutti allenatori».
Poi, però, nel gennaio del 1981 lo chiamò la Fiorentina. Fu anche l’anno del drammatico infortunio alla testa di Giancarlo Antognoni, che rischiò di morire in campo.
«Dopo lo scontro con Martina, portiere del Genoa, non ricordo chi dei miei giocatori venne da me in panchina e disse: Antognoni è morto».
Nel 1984 la Fiorentina gli comprò il brasiliano Socrates, il tacco di Dio.
«Lo spogliatoio era spaccato e Socrates non aveva tanta voglia, fumava pure sul pullman verso lo stadio. Un giorno Eraldo Pecci lo afferrò per la barba mentre era steso sul lettino a fare massaggi: te sei preso un miliardo e non voi fatica’?».
Che uomo era Socrates?
«Un contestatore nato. Ricordo che eravamo in ritiro a Pinzolo in Trentino e dovevamo giocare in amichevole a
Novara. Lui non si capacitava e si mise vicino a me sul pullman per farmi vedere sulla cartina quanta strada dovevamo fare. Due ore a lamentarsi. Quando so’ sceso gli ho detto: a’ Socrate, me le hai fatte quadrate».
Quell’anno fu lei a rischiare di morire.
«Successe all’inizio della stagione, sub-ascesso dentale, operazione al cervello, avrei dovuto fermarmi sei mesi. Andavo in panchina con gli psicofarmaci. Il presidente Pontello mi disse: ti affianco Valcareggi, ma io non me la sentivo, in squadra ci deve essere un capo solo e lasciai».