LA GAZZETTA DELLO SPORT (Roberto Beccantini) – Anche i gol compiono gli anni. Ce n’è uno che la memoria continua a palleggiarsi golosa, uno di quelli che appartengono a tutti: non solo all’autore, alla sua squadra, ai suoi tifosi. A tutti. Come gli slalom di Leo Messi. Come le rovesciate di Cristiano Ronaldo. Come la traiettoria che Marco Van Basten disegnò sulla tela di uno sbigottito Rinat Dasaev. E potrei continuare, potrei o forse dovrei, per non fare torto alla bellezza, dalle perle di Pelé alle scintille di Omar Sivori. È di un gol di Diego Armando Maradona che voglio parlarvi. Non quello agli inglesi, il più bello su azione. Il gol alla Juventus, il più bello da fermo. Era il 3 novembre 1985, e sul San Paolo diluviava. Nona giornata di campionato. Veniva, la Juventus di Michel Platini e non più di Zibì Boniek, da otto vittorie: e ad aprile, «via» Roma–Lecce, sarebbe tornata regina. Arbitrava Giancarlo Redini di Pisa. Potete immaginare l’attesa: il sentimento popolare, allora come oggi, invocava un argine alla tiranna. A Napoli regnava Corrado Ferlaino, l’ingegnere. Ha sempre adorato le donne, ma in quei giorni si era invaghito di un uomo, Maradona. Lo strappò alle lusinghe ambigue delle Ramblas attraverso la tessitura cavouriana di Antonio Julianodetto «Totonno». La partita diventò ben presto una foresta di aspri corpo a corpo e occasioni avare, nel segno della più italianista delle tradizioni. Se l’allenatore della Juventus era Giovanni Trapattoni, il domatore del Napoli era Ottavio Bianchi, una frusta puntata sui professorini dell’ovvio. Era la seconda stagione di Diego: lo scudetto sarebbe arrivato alla terza, nel 1987. Platini cercava Michelin Laudrup fra reticolati muniti e minati. Le espulsioni di Sergio Brio e Salvatore Bagni furono il segnale di un’ordalia tesa, aggrovigliata, lontana dalle rime baciate che ci si aspetta dagli alluci degli artisti. Il pomeriggio buio e tempestoso stava rotolando verso uno 0-0 non meno cupo, tutti a caccia di tutti, Juventus rannicchiata, Napoli aggressivo. Ogni zolla sembrava IwoJima, ma vai a sapere chi fossero gli americani e chi i giapponesi, in quel ribollir di baionette. Fino a quando, al minuto 72, per un gioco pericoloso di Gaetano Scirea su Daniel Bertoni in area, Redini non fischiò una punizione indiretta, da posizione laterale. Lo slargo si riempì di postulanti. La barriera, a distanza non proprio protocollare, ebbe l’onore di ospitare persino il petto del re francese. Sulla palla si piazzarono Eraldo Pecci e Maradona. Sono circostanze dalle quali, di solito, emergono baruffe da cortile per la conta dei metri, bolge dantesche, rimbalzi randagi. «Toccamela un po’ dietro», sibilò Diego. «Ma dai, Diego, da lì non passa», replicó Eraldo. «T’ho detto toccamela», rispose stizzito. Pecci si arrese, «Sei tu il Genio». Quando il muro si mosse e avanzò, Maradona aveva già deciso. Con un colpetto d’interno sinistro, trasformò la parabola in un arcobaleno. Tutto e tutti vennero sorvolati e folgorati: ultimo, Stefano Tacconi. Il Pibe centról’unico pertugio in grado di accoglierne l’eresia. C’era solo quello li, all’incrocio dei pali. E quello fu. «Diego, visto che assist?», chiosò poi Pecci. Il Pibe gli dedicò il più affettuoso «vaffa» del mondo. Nella «Nausea» di Jean-Paul Sartre, l’Autodidatta definisce così l’avventura: «un avvenimento che esce dall’ordinario senza essere necessariamente straordinario». La punizione di Diego uscì dall’ordinario per essere, necessariamente, straordinaria. Altro che.
“Articolo della Gazzetta dello Sport dell’8 Novembre 2018”