Dalle piste di atletica ai campi di calcio. Vent’anni vissuti correndo a cento all’ora e con un unico denominatore comune: l’amore incondizionato per lo sport. Questa è Adele Marsiletti
Una degli esterni più forti e completi, che con le sue sgroppate sulla fascia ha fatto ammattire le difese avversarie ed impazzire di gioia i tifosi delle sue squadre.
Quando ha cominciato a tirare i primi calci ad un pallone?
“Lo sport mi è sempre piaciuto in tutte le sue declinazioni. Inizialmente ho praticato l’atletica leggera anche con ottimi risultati. Poi durante una gara di velocità, che si svolse allo stadio “Bentegodi”, la pistola dello starter fece cilecca per cinque volte! Le lascio immaginare: io ero piccolina e mi trovavo sulla linea di partenza, col cuore in gola perché si trattava della mia prima gara importante, e la pistola non ne voleva sapere di darci il segnale di partenza. Rimasi così traumatizzata che allora decisi di passare al calcio! Al di là degli scherzi sono stata veramente molto combattuta se scegliere di praticare l’atletica o il calcio ed alla fine scelsi quest’ultimo perché era effettivamente uno sport che mi piaceva tantissimo. Ho iniziato nel 1975 nell’Ortoflor Verona ma venni tesserata solamente l’anno successivo perché da regolamento l’età minima era di dodici anni. Alla fine non ho mai avuto rimpianti per la scelta fatta perché giocando a pallone mi sono divertita molto.”
Quale era la sua collocazione sul rettangolo di gioco?
“Adoravo correre e mi piaceva tanto sia offendere ma anche difendere per dare una mano alla mia squadra. Quindi ho iniziato da punta ma poi, anche per le mie doti atletiche, sono stata spostava sulla fascia. Logico che poi pian pianino, crescendo e maturando calcisticamente, ho trovato la mia collocazione ideale ricoprendo il ruolo di mezz’ala sinistra. Quindi possiamo dire che ero un esterno sia basso che alto e sfruttavo la mia velocità e la corsa per mettermi al servizio delle compagne. Invece in Nazionale giocavo come terzino. L’intuizione a schierarmi in quella posizione venne a Mister Ninni Maffa, allenatore della Rappresentativa Sardegna, in occasione del Torneo di Castelsardo del 1981. Infatti convocò anche alcune calciatrici che non erano sarde, come me, Luana Pavan e Puntel. E nella partita contro l’Italia mi mise a terzino e mi affidò il compito di marcare Ida Golin. La partita andò bene perché vincemmo per 1-0 e da allora anche in Nazionale ricoprii quel ruolo.”
Dopo l’inizio a Verona come si sviluppa la sua carriera?
“Nel 1982 arrivò la proposta del Trani, che accettai con entusiasmo. In Puglia sono rimasta per quattro anni ed è stata un’esperienza meravigliosa, coronata dalla vittoria di due scudetti e una Coppa Italia. Poi sono ritornata per una stagione al Verona Ritt Jeans, quindi ho fatto un anno al Modena e dal 1987/88 sono passata alla Reggiana dove avrei messo la firma a vita perché avevamo un Presidente che si è dedicato tanto, non solo economicamente, al calcio femminile.
L’esperienza in Emilia è stata veramente bella. Quando sono arrivata la squadra era molto giovane ma a me piacevano le sfide e mettermi in gioco. Ricordo che disputammo un campionato intenso ma entusiasmante. Negli anni successivi la squadra venne rinforzata e arrivarono due scudetti. Lasciai Reggio Emilia dopo sette stagioni per passare a Lugo, con cui giocai per due anni. Nel 1995/96 tornai ancora una volta a Verona dove vinsi lo scudetto con la Gunther. Anche in quel caso avevamo una squadra veramente competitiva. Tra l’altro mi trovai a giocare come punta esterna insieme a Carolina Morace con cui ho sempre avuto un’intesa, a livello calcistico, molto forte.
Dopo il Verona passai ad Ascoli, nell’Autolelli Picenum del Presidente Lucidi che in passato aveva provato più volte a portarmi nella sua società. Però dopo poche partite mi accorsi che ero veramente stanca ed erano venute meno le motivazioni che mi spingevano a proseguire. Fu un campanellino d’allarme che mi fece capire che dovevo cambiare qualcosa e dedicarmi ad altro. Così dissi al Presidente che non me la sentivo di concludere la stagione e decisi di dire basta col calcio.”
Quali sono state le piazze o le tifoserie più passionali che porta ancora oggi nel cuore?
“Sicuramente Trani. È stata veramente un’esperienza unica, tenga presente che in ogni partita avevamo circa 12.000 spettatori sugli spalti. Il primo scudetto che vincemmo è stata l’apoteosi. Ricordo che ad un certo punto tutti i seggiolini dello stadio tremavano e c’era un frastuono incredibile. E poi il suono assordante delle trombette e la macchina che a fine partita entrò in campo. Insomma ci fu il putiferio. È stato bellissimo perché c’era una cittadina che ci stava vicina. All’epoca ero molto giovane, avevo appena 16 anni, ma mi trovai bene. Infatti è stata una delle migliori società in cui sono stata, molto organizzata e con uno staff tecnico e dirigenziale di alto livello.”
Con quali allenatori ha avuto il miglior feeling?
“Ricordo con molto piacere il mio primo allenatore, Danilo Madinelli. Quando ho iniziato mi disse: “Tu sei la Schnellinger del calcio femminile”. E pensare che all’epoca neppure sapevo che si trattava di un calciatore del Milan! (sorride ndr). Ero molto piccola e lui mi incoraggiò facendomi capire che potevo fare strada. Una persona veramente deliziosa ed importantissima per l’inizio della mia carriera. Poi ho avuto un grande feeling con Mister Domenico Cannatello, che ebbi a Reggio Emilia. E poi inserisco Anna Mega, con cui ho vinto lo scudetto a Verona. Sinceramente fui contentissima di avere una donna come allenatrice e che per di più dimostrò di essere anche una vincente. L’avevo ammirata tanto da calciatrice e l’ho apprezzata molto anche come allenatrice.”
Per tanti anni ha vestito la maglia azzurra. Quali sono state le partite memorabili che ricorda ancora oggi?
“La prima che mi viene in mente, nel bene e nel male, è la semifinale degli Europei che giocammo nel 1989 in Germania. Affrontammo a Siegen le padrone di casa e ricordo che feci, secondo me, una partita molto molto bella. Ai rigori, però, sbagliai il penalty e questo macchiò la mia prestazione.
Poi ci metto la partita di ritorno contro la Svezia nei play-off per l’accesso alla fase finale dell’Europeo del 1991. Ricordo che giocammo a Castellammare di Stabia ed il pubblico fu qualcosa di spettacolare. Infatti fu veramente il dodicesimo uomo in campo perché fece diventare matte le svedesi. Tra l’altro il campo era campo pesantissimo perché aveva piovuto da poco ma nonostante ciò le svedesi andavano come dei treni. In trasferta avevamo pareggiato per 1-1 e così difendemmo con i denti lo 0-0 che ci permise di qualificarci anche per la prima edizione dei Mondiali.”
La delusione più grande vissuta in Nazionale?
“La fase finale degli Europei che si giocò in Italia nel 1993 forse mi ha regalato sia la gioia più grande che la delusione più cocente. Infatti riusciamo ad eliminare la Germania ai rigori prendendoci la rivincita della sconfitta subita quattro anni prima. E tra l’altro questa volta misi a segno il mio rigore.
In finale incontriamo la Norvegia. Noi eravamo veramente una squadra molto valida ed io ci credevo nella conquista del titolo continentale. Contro le norvegesi abbiamo disputato un primo tempo stupendo. Ricordo che giocavo come mezza punta perché come terzino era stata schierata Bavagnoli. Ci siamo rese più volte pericolose e Carolina Morace ha colpito anche la traversa. Poi, invece, nel secondo tempo ci furono delle mosse tattiche sbagliatissime e questo ha inciso tantissimo. Tant’è che non siamo più riuscite a portare una palla avanti e non abbiamo più avuto occasioni perché eravamo troppo chiuse dietro, troppo impaurite.
E a pochi minuti dal termine la Norvegia ne ha approfittato ed ha segnato il gol vittoria. È stata una delle mie più grandi delusioni. Alla fine di quella partita mi arrabbiai tantissimo e fu lì che presi la decisione di iniziare ad allontanarmi dalla Nazionale. Giocavamo in casa, eravamo molto motivate, insomma avevamo tutte le carte in regola per vincere quell’Europeo. Poi nel calcio ci sta tutto, ci sta qualsiasi risultato però in quel caso – a mio parere – fu decisivo proprio l’atteggiamento con cui scendemmo in campo nella ripresa.”
Cosa pensa dell’avvento del professionismo nel calcio femminile?
“Posso solamente dire: Finalmente! In Italia il calcio femminile è stata una realtà sempre un po’ scomoda a causa dell’egemonia del calcio maschile. Noi abbiamo lottato e ci abbiamo provato per tanti anni, per avere quanto meno un semi professionismo, ma veramente sbattevi contro un muro perché da noi il calcio maschile è considerato lo sport in assoluto.
L’introduzione del professionismo per tutto il movimento e per le calciatrici non deve rappresentare un punto di arrivo ma di partenza. E soprattutto spero che le ragazze assumano la consapevolezza che in questo momento hanno un ruolo importantissimo non solo a livello sportivo ma anche a livello sociale, in qualità di donne. Per me è importante anche questo aspetto perché per una donna è sempre più difficile affermarsi, rispetto ad un uomo, in tutti gli ambiti. Infatti non vorrei che tutto si riducesse ad un semplice aspetto di natura economica e mi auguro che in loro rimanga sempre accesa la passione per questo sport, che implica tanto sacrificio.”
Si ringrazia Adele Marsiletti per la documentazione fotografica messa a disposizione.
Giovanni Di Salvo “Le pioniere del calcio. La storia di un gruppo di donne che sfidò il regime fascista” della Bradipolibri
Giovanni Di Salvo “Quando le ballerine danzavano col pallone. La storia del calcio femminile con particolare riferimento a quello siciliano” della GEO Edizioni.
Ingegnere palermitano con la passione per il giornalismo e il calcio femminile. Autore di due libri: "Le pioniere del calcio. La storia di un gruppo di donne che sfidò il regime fascista" e "Quando le ballerine danzavano col pallone. La storia del calcio femminile".