GLIEROIDELCALCIO.COM (Giovanni Di Salvo) – “Un raggio di sole violento“. Così fu definita Elena Schiavo da Bramante Munaro nel libro “La Donna nel pallone”, scritto dal compianto Angelo Caroli. E probabilmente non vi fu una perifrasi migliore per descrivere una delle stelle più luminose nel firmamento del nascente universo calcistico femminile. Tecnica e grinta, doti atletiche e carisma, Elena Schiavo è stata una sintesi perfetta di tutte queste qualità, grazie alle quali ha guidato da vero leader la nazionale. Infatti è stata il “Capitano coraggioso” delle azzurre nel primo Mondiale non ufficiale, il Trofeo “Martini & Rossi”, giocatosi nel 1970 in Italia ma soprattutto nell’edizione successiva disputatasi in Messico. E la fascia sul braccio poi ha continuato a portarla anche nella selezione guidata da Amadeo Amadei. Sono passati circa cinquant’anni dai suoi successi calcistici ma ancora oggi le sue parole trasudano un’esuberanza genuina che è capace di risucchiarti e travolgerti in un tourbillon di ricordi ed aneddoti.
Quando nasce la sua passione per il calcio?
“Fin da piccolissima, quando vivevamo a Colloredo di Prato, giocavo scalza in piazza. Quando avevo 9 anni la mia famiglia si trasferì a Passons ma la mia passione per il calcio non si spense perché all’uscita dalla scuola invece di tornare subito a casa andavo a giocare con i miei compagni di classe. Non sa quanti colpi di tacchetti ho preso nelle gambe e quanto faceva male calciare il pallone a piedi nudi, visto che quelli di allora erano molto più pesanti di quelli che si usano oggi! Un giorno, era il 1963 ed avevo tredici anni, il podestà Cavaliere Luigi Cuttini rimase colpito nel vedermi giocare e così mi regalò il mio primo paio di scarpe da calcio. In quell’anno nel nostro paese vennero le Furie Rosse di Cormons per disputare un incontro. In quel periodo non c’erano molte squadre di calcio femminile perciò fui ben lieta di potermi unire a loro. Nella mia partita di esordio battemmo per 3-1 le Indomite di Turriaco.”
L’altro suo “grande amore” è stata l’atletica leggera
“Proprio così. Nel 1964 il barbiere di Passons mi segnalò ad Ovisio Bernes (ex campione italiano di salto in alto ndr) e su suo consiglio il figlio del barbiere mi portò in lambretta a Paderno, dove c’era il centro sportivo di atletica. Lì il Prof. Zanon mi testò nei 100 m, nei 200 m, nel salto in alto, nel pentathlon, nel salto in lungo e negli 80 m ad ostacoli ma si rese conto che avevo una buona resistenza per il mezzofondo. Così mi fece provare anche nei 400 m e negli 800 m, dove ottenni grandi risultati. Infatti nel 1966 sono diventata campionessa italiana junior negli 800 m. Nel 1969 stabilii il nuovo record regionale sui 400 m e sugli 800 m ed ai Campionati Assoluti, disputatisi a Milano, conquistai il secondo posto negli 800 m dietro Paola Pigni e presi parte alla staffetta 4×4 dove ci classificammo al terzo posto. Inoltre venni convocata due volte nella nazionale juniores ed una volta in quella senior, dove c’era anche Maria Stella Masocco (madre di Gianluigi Buffon ndr). Nel frattempo continuavo a giocare a calcio con le Furie Rosse. Lo facevo di nascosto al Prof. Zanon perché una volta presi un calcione e mi procurai un grosso ematoma. Lui si arrabbiò molto perché riteneva che questi due sport non fossero compatibili e da allora, pur di continuare a giocare a pallone, decisi di mettermi in porta.”
Ai successi sulle piste ben presto si aggiungono quelli col pallone.
“Ero in ritiro ad Asiago ed un giorno chiesi a Matteucci, uno dei nostri allenatori, di mettersi in porta e gli tirai due staffilate. Vincenzo Leone, un altro tecnico, si accorse che col pallone ci sapevo fare e mi disse che la Roma cercava una giocatrice per sopperire all’assenza di Stefania Medri, che si era infortunata, e così mi segnalò alla Prof.ssa Bellei. Con le giallorosse giocai tre partite e nello spareggio di Grosseto contro il Genova feci il cross grazie al quale Barbara Ostili siglò il gol che valse lo scudetto. Si concluse, così, un anno magico.
È proprio il caso di dire che ad ogni angolo della strada può cambiare la tua vita! Se non fossi andata a quel raduno di Asiago forse non avrei fatto la calciatrice a questi livelli.”
La sua carriera decolla l’anno seguente col trasferimento a Torino. Tutti i giornali dell’epoca la definirono la prima “professionista” del calcio femminile.
“I giornalisti ingigantirono la cosa e ciò procurò grossi problemi alla mia famiglia perché il Comune ci aumentò il reddito, e di conseguenza le tasse, e dovemmo presentare ricorso. Ritorniamo al raduno di Asiago. Lì c’era un altro tecnico, Tino Bianco, che mi aveva notato e che fece il mio nome ai fratelli Rambaudi. Così venne a trovarmi un emissario del Real Torino per chiedermi se volevo trasferirmi nella loro squadra. Andare a Torino significava un grosso cambiamento per la mia vita tenuto anche conto che, comunque, già lavoravo in una ditta che produceva lettini per l’infanzia, la Cosatto. Perciò non potevo andare allo sbaraglio e partire da casa mia senza avere delle garanzie. Mi rivolsi al notaio Occhialini di Udine per predisporre una scrittura privata in cui era prevista una parte fissa, i premi partita e per le convocazioni in Nazionale, vitto e alloggio, le ferie e la copertura assicurativa. In caso di inadempienza da una delle parti era prevista una penale. Era una cosa fatta bene ed il Real Torino si dimostrò una società all’avanguardia, basti pensare che in squadra vi erano anche diverse calciatrici straniere: le inglesi Sue Lopez e Dot Cassell e la tedesca Muller. L’anno dopo, nel 1971, passai alla Astro Corsetterie Torino, che mi garantì le stesse condizioni. Ricordo che quando vivevo a Torino acquistai tanti vinili visto che sono una grande appassionata di musica!”
Come prosegue la sua carriera?
“Dal 1972 vesto la maglia della Falchi, che poi si sposta da Crescentino a Montecatini Terme. Nel 1974, nella partita della nazionale contro la Scozia giocatasi a S. Siro, mi infortunai al ginocchio e nel febbraio del 1975, in un’amichevole giocatasi a Viareggio, facendo una rovesciata me lo ruppi completamente: mi saltarono menisco, crociati e legamenti, quelli che i medici chiamano la “triade sfortunata”. Mi dovetti operare al “Rizzoli” di Bologna e per un anno feci riabilitazione a Paderno col Prof. Zanon. Lui fu una persona molto importante per tutta la mia carriera da atleta, basti pensare che quando ero andata al Real Torino mi aveva predisposto una scheda ed un programma giornaliero personalizzato di allenamento, ed ancora oggi lo ricordo con grande affetto. Perciò, sebbene nel 1975 fossi nella Juventus, di fatto in quella stagione non giocai mai. Riparto nel 1976 col Valdobbiadene ma dopo quell’intervento avevo perso il 50% del mio potenziale atletico e pertanto dovetti arretrare e giocare nel ruolo di libero. L’anno seguente passo al Padova, nel 1978 al Bologna e chiudo la carriera nel 1979 col Gorgonzola.”
Cosa la spinse ad appendere le scarpe al chiodo?
“In quel campionato, dopo aver scontato tre turni di squalifica, rientrai per la trasferta di Roma. Durante quella partita subii un brutto fallo e chiesi all’arbitro di ammonire l’avversaria. In tutta risposta mi sventola il cartellino giallo: non ci ho visto più e gliene ho dette di tutti i colori. Così fui espulsa e mi inflissero altre cinque giornate. A seguito di questo duro intervento il Dottor Alicicco mi diagnosticò la rottura dell’apofisi trasversa. Dovetti portare per un periodo un busto e sopportare forti dolori alla schiena. Tra l’altro ero stata assunta da poco dal Comune di Udine e non potevo più rischiare di farmi male e di perdere il posto di lavoro perché questa era l’ultima chance della mia vita visto che avevo già 30 anni. Pertanto capii che era il momento di dare l’addio al calcio. Ho buttato alle spalle tutto il mio passato da atleta ed ho iniziato una vita nuova. E sono diventata un buon ufficiale di stato civile.”
Azione di gioco con Falchi Astro
Quanti trofei ha vinto tra scudetti e Coppa Italia?
“Prendendo in considerazione sia la Federazione di Viareggio che quella Unificata, ho conquistato quattro Scudetti: con la Roma nel 1969, col Real Torino nel 1970, con la Falchi Astro nel 1974 e col Valdobbiadene nel 1976. Onestamente il primo scudetto fu quasi tutto merito delle mie compagne perché con le giallorosse giocai solamente tre partite. Poi ho vinto due Coppe Italia con la Falchi Astro nel 1972 e nel 1973.”
Quali sono le emozioni più grandi che le ha regalato lo sport?
“Non potrò mai dimenticare la partita giocatasi allo stadio “Azteca” di Città del Messico nel 1971 per il Mondiale (seconda edizione del Trofeo “Martini & Rossi” ndr). Al di là di come andò la partita contro le padrone di casa (la direzione dell’arbitro Frere risultò molto penalizzante nei confronti delle azzurre ndr) sugli spalti c’erano più di 100.000 persone. Se ci penso mi sembra di sentire ancora i loro cori e le loro urla: quando battevano i piedi per terra sembrava che venisse giù lo stadio! Tra l’altro anche le primule che adesso vanno tanto in voga, visto che sono usate come simbolo per la campagna vaccinale, mi riportano alla mente questa straordinaria esperienza perché le avevamo raffigurate nelle magliette che usavamo quando andavamo al ristorante dell’hotel che ci ospitava. La delusione più grande, invece, è stato il rigore sbagliato nella finale del 1970 contro la Danimarca sul risultato di 1-0 per le nostre avversarie (prima edizione del Trofeo “Martini & Rossi” ndr). Questo dispiacere me lo porto ancora dentro perché io ero il capitano, le mie compagne credevano in me e purtroppo non sono riuscita a dare questa soddisfazione a loro ed al nostro pubblico. E poi c’è un’altra data indelebile: l’8 marzo 1986. Quel giorno mi venne consegnata, al Comune di Udine, la proposta di nomina a Cavaliere per meriti sportivi, che nel mese di dicembre venne ratificata e firmata da Craxi e Cossiga.”
Cosa era per lei il calcio all’epoca?
“Per me il calcio era un modo per reclamare i diritti delle donne. In campo spesso ci fischiavano perché andavamo ad invadere un campo prettamente maschile. Nel 1972 rilasciai un’intervista in cui spiegavo che non erano gli insulti o i fischi in sé a disturbarmi. Infatti se giocavo male potevo accettarli ma se erano fatti per svilire il mio essere donna allora assolutamente no. Di fronte a questa ottusa ironia dovevo rivendicare i diritti delle donne! Purtroppo nelle cronache di oggi leggo ancora tanti casi di femminicidi o di insulti sessisti ed allora penso che nonostante siano passati cinquant’anni ancora ne dobbiamo fare tanta di strada.”
Infine quale è il suo pensiero sulla questione linguistica sorta durante l’ultimo Mondiale relativo al termine più corretto da utilizzare tra portiere o portiera?
“Quando giocavo non davo molta importanza a queste cose ed usavo entrambi i termini.”
Si ringrazia Elena Schiavo per la documentazione fotografica messa a disposizione.
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Per chi volesse approfondire l’argomento:
“Le pioniere del calcio. La storia di un gruppo di donne che sfidò il regime fascista” della Bradipolibri (Prefazione scritta dal CT della nazionale Milena Bertolini)
“Quando le ballerine danzavano col pallone.” della GEO Edizioni