La Penna degli Altri
Poli e la Lazio, un amore senza fine…
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6 anni agoon
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RedazioneSSLAZIOFANS.IT (Stefano Greco) – Ci sono amori che durano una vita intera, altri che bruciano e si consumano nell’arco di poche settimane o pochi mesi ma con un’intensità tale da segnarti per tutta la vita, da lasciarti ricordi indelebili e da farti galoppare il cuore a distanza di decenni al solo ricordo di un bacio o di un episodio. Vale per la vita di coppia, come per quell’amore folle che si instaura tra i tifosi e i calciatori, un amore che spesso e volentieri si trasforma in odio quando il divorzio è improvviso, brusco e magari subito. E, a quel punto, l’ex amato diventa qualcuno da odiare, un traditore. Ma ci sono storie che, anche se chiuse con un divorzio improvviso, in realtà durano per sempre, come quella che sto per raccontare: breve, ma intensissima.
Il 22 novembre del 1962, in un piccolo paesino dell’Emilia a circa 400 chilometri da Roma, nasce un bambino destinato a scrivere, 25 anni dopo, una pagina importante, anzi, fondamentale nella storia della Lazio. Il suo nome è Fabio Poli! Pensi a lui e la prima immagine che ti viene in mente è un volo in cielo, un pallone incornato a un’altezza per lui insolita e dopo un istante che sembra durare un’eternità di silenziosa speranza, ecco la rete che si scuote, il boato e una corsa di 120 metri per andare a esultare sotto 25.000 tifosi impazziti di gioia rinchiusi dentro una curva. Pensi a Fabio Poli e la prima immagine che ti viene in mente è quel gol al Campobasso, quello che insieme alla prodezza di Giuliano Fiorini di due settimane prima contro il Vicenza ha fatto la storia di quella stagione e ha consegnato alla leggenda la “Banda del meno nove”. A distanza di 30 anni da quel giorno, la voce di Fabio Poli è sempre la stessa: la cadenza emiliana inconfondibile, ma anche la simpatia e la disponibilità non sono cambiati in questi 6 lustri. Come l’amore per la Lazio. Quando sente la parola Lazio, Fabio entra in un altro mondo e apre il suo scrigno privato dove sono racchiuse gioie e dolori, le soddisfazioni e i rimpianti per quella grande avventura che si è interrotta in modo improvviso e decisamente brusco.
“Se mi dici Lazio”, confessa dopo una piccola pausa per raccogliere le idee e pesare bene le parole, “la prima cosa che mi viene in mente è: calcio. A Roma ho imparato a vivere. Sia come uomo che come calciatore. Quell’esperienza mi ha insegnato tantissimo e mi ha segnato profondamente, nel bene e nel male. A Roma il calciatore è considerato una sorta di essere divino. I tifosi ti trattano così e tu devi sempre ripagarli facendo qualcosa di importante. In questa città, straordinaria e un po’ estrema, è come se Paradiso e Inferno si toccassero, perché il confine tra quei due mondi è infinitesimale, senza un Purgatorio a separarli. E basta un niente per passare dall’esaltazione alla contestazione feroce. Ma a Roma ho imparato che cosa è veramente il calcio, perché in nessun altro posto succedono le cose che ho visto succedere a Roma o che sono pronti a fare i romani. Te ne racconto una, per me indimenticabile. Io vivo in un piccolo paesino vicino a Bologna, dove ogni tanto passano dei tifosi della Lazio per farmi un saluto, per scambiare due chiacchiere e bere qualcosa ricordando quel periodo fantastico. Un giorno, trovo un camper parcheggiato davanti a casa mia con due ragazzi: uno, appena mi vede si inginocchia. Io penso a un matto, mi avvicino e quello, sempre inginocchiato, mi tocca una mano e mi dice: ‘Sono passato solo per dirti grazie, Fabio. Da laziali non dimenticheremo mai quello che hai fatto per noi con quel gol che ci ha ridato la vita’. Poi, quasi con le lacrime agli occhi, si alza e mi abbraccia, continuando a ripetere: ‘Grazie, grazie’. Se la racconto a Bologna questa cosa, mi prendono per matto, ma tu a Roma la puoi capire bene. Da noi una cosa del genere non potrebbe mai succedere. Forse in nessuna parte d’Italia potrebbe succedere, neanche a Napoli, ma a Roma sì. I tifosi laziali, poi, sono particolari, direi quasi unici. Io sono orgoglioso di aver indossato quella maglia e mi sento un uomo veramente fortunato per aver lasciato un segno così importante nella storia della Lazio segnando quel gol”.
Già, quel gol. Lui ha segnato la rete che ha messo fine all’incubo, il gol che ha salvato la Lazio. Ma da sempre, quando si parla di quella stagione tutti ricordano per prima cosa il gol di Fiorini al Vicenza: le foto sul web della rete del bomber e della sua esultanza si sprecano, mentre quelle di Poli a Napoli sono praticamente introvabili. Anche su YouTube, il gol di Fiorini con l’audio originale, oppure commentato da Sandro Piccinini o Gianni Walter Bezzi (ora telecronisti Mediaset e Rai, ma all’epoca semplici cronisti di radio e tv locali), ha decine di migliaia di cliccate, mentre del suo di gol quasi non c’è traccia. Fabio ride quando glielo faccio notare e nella sua voce non neanche c’è un filo d’invidia per questo: anzi, è lui il primo a dire che il gol di Fiorini è stato molto più importante del suo.
“Come faccio a essere invidioso di Giuliano… è impossibile. E poi, quello al Vicenza è stato molto più determinante, perché senza quella sua zampata a pochi minuti dalla fine, noi a Napoli non ci saremmo neanche arrivati e io non avrei avuto la possibilità di lasciare quel segno nella storia della Lazio. In più, io ero meno personaggio rispetto a Fiorini, quindi ho pagato forse anche questo mio modo di essere un po’ timido e riservato, mentre i tifosi, si sa, amano quelli estroversi come Giuliano, in grado di esternare le loro sensazioni e di coinvolgere la gente. Quindi è giusto che il simbolo di quella stagione sia, e resti per sempre, il suo gol al Vicenza. Soprattutto per quello che è successo dopo».
“La morte di Giuliano è una di quelle ferite impossibili da rimarginare”, mi dice Fabio Poli dopo una lunga pausa e un sospiro che tradisce dolore e nostalgia, “perché io e Giuliano eravamo amici, inseparabili. Ci siamo conosciuti giocando qualche mese insieme nel Bologna e il rapporto è nato spontaneo, immediato. Le nostre strade si sono divise per qualche anno, poi ci siamo ritrovati a Roma, scelti entrambi da Giorgio Chinaglia. E nella Lazio siamo diventati quasi due fratelli. Spesso, dopo le partite tornavamo in macchina insieme a Bologna e durante il viaggio verso casa parlavamo per ore della nostra vita a Roma e della Lazio, dei tanti problemi che avevamo dentro e fuori il rettangolo da gioco. Tutte quelle difficoltà ci hanno unito ancora di più. Lo so che a prima vista può sembrare assurdo o difficile da credere, ma noi due eravamo simili. Io ero pazzo, forse anche più di lui, ma ero un pazzo silenzioso, mentre lui non si teneva niente dentro, esternava tutto. E anche per questo suo modo di essere la gente lo amava alla follia: i compagni, i tifosi, ma anche gli avversari e gli arbitri che spesso scoppiavano a ridere per le sue battute. In campo Giuliano era un gran rompicoglioni: borbottava in continuazione, voleva sempre la palla tra i piedi, una vera pentola di fagioli. Ma fuori dal terreno di gioco, era un ragazzo straordinario. Eravamo simili in tutto e per questo ci siamo capiti fin dall’inizio. L’unica grande differenza tra noi due era nel modo di vivere, o meglio, di affrontare e assaporare la vita. Lui non si è mai negato nulla, io invece sono stato sempre più prudente. Per farti capire che tipo era, ti racconto un episodio: in una partita ai tempi del Bologna, al rientro negli spogliatoi per l’intervallo lo cerco e non lo trovo: a un certo punto, sento un odore strano e vedo una nuvola uscire dal bagno. Era lui che stava fumando una Marlboro, appoggiato comodamente alla parete. Mi guarda e mi dice: ‘Lo so Fabio, non dire nulla, ma non riesco a resistere, ne avevo proprio bisogno. Ora sto bene, possiamo tornare in campo e andare a vincere la partita’. E andò proprio così”.
L’allegria nata riaprendo il libro dei ricordi per parlare di Lazio si spegne all’improvviso quando parla di Giuliano Fiorini. Ma basta tornare a quella sfida con il Campobasso per riaccendere la luce, per ritrovare il Poli di prima, sorridente e con una gran voglia di rituffarsi nel passato.
“Quello è stato un anno terribile e la vigilia di quella partita forse anche più allucinante degli 11 mesi precedenti. Eravamo tesissimi, sapevamo di essere nettamente più forti di loro, li avevamo battuti due volte su due in campionato, ma quella sconfitta con il Taranto nel primo spareggio ci aveva messo con le spalle al muro. Loro avevano due risultati buoni su tre, mentre noi dovevamo per forza di cose vincere e per tutta la settimana ci eravamo portati addosso la tensione e il peso dell’importanza di quella partita. Negli allenamenti i nervi erano tesi, nessuno aveva voglia di parlare, di ridere o di scherzare. Un clima mai visto, neanche prima della sfida con il Vicenza. Ci giocavamo tutto, quella per noi era la partita della vita. In albergo, la notte prima in molti giravano per i corridoi come fantasmi, passando da una stanza all’altra. Io stavo in camera con Massimo Piscedda, il più laziale del gruppo, perché lui nella Lazio ci era nato e cresciuto: un tifoso vero. Parlavamo, cercavamo di preparare mentalmente la partita facendoci coraggio uno con l’altro, poi in campo lo scherzo del destino: cross di Piscedda e gol di Poli. Neanche a provarlo e riprovarlo in allenamento sarebbe venuto così bene come quel giorno al San Paolo”.
Tutto quello che è successo in quella giornata è scolpito nella memoria, indimenticabile. La colazione silenziosa di quella mattina, la riunione tattica, l’arrivo allo stadio.
“C’era un clima assurdo, sia dal punto di vista ambientale che meteorologico. Napoli era avvolta da una cappa che rendeva difficile respirare. Ricordo l’arrivo di Enrico Montesano in albergo, il suo tentativo di allentare la tensione con qualche battuta. Iniziò a parlare imitando alcuni dei suoi personaggi storici e riuscì a strapparci un sorriso, fu bravissimo. Ricordo il silenzio quasi irreale che c’era in pullman in quel breve tragitto dall’albergo allo stadio, la gente con le bandiere che urlava, ci incitava e al tempo stesso piangeva. Poi. di nuovo il grande silenzio degli spogliatoi, rotto solo dal rumore dei tacchetti di metallo sul cemento. Infine, il boato all’ingresso in campo, l’urlo disperato ‘Lazio, Lazio’ e quel muro biancoceleste con la curva stracolma da una parte e poche migliaia di tifosi nell’altra curva, semideserta. Guardando prima da una parte e poi dall’altra, abbiamo capito che non potevamo perdere”.
Della partita Fabio ha ricordi confusi. Nulla o quasi del primo tempo, poco del discorso di Fascetti durante l’intervallo negli spogliatoi.
“Mi ricordo soprattutto il terrore provato pochi istanti prima del gol, quando Boito si è ritrovato praticamente da solo davanti a Terraneo che ha salvato un gol già fatto. E, come succede spesso nel calcio, da quell’episodio è nato tutto il resto. Ho visto Piscedda che crossava e mi sono buttato d’istinto in area, saltando come mai avevo fatto prima in vita mia per arrivare su quel pallone. E volando leggero in aria ho segnato il mio primo e unico gol di testa con la maglia della Lazio. Se non è destino questo…”.
Dopo il gol, il boato lungo e feroce dei 30.000 laziali presenti al San Paolo accompagna quella folle corsa di 120 metri che Fabio fa, senza fermarsi e senza girarsi mai, per andare a esultare sotto la sua gente.
“Non ho visto il pallone entrare in rete, ho sentito il boato e come d’istinto sono partito per andare sotto la curva, ma mi sono reso conto che i tifosi della Lazio stavano dalla parte opposta. Allora ho deviato, sono passato sulla pista d’atletica sotto la tribuna e sono arrivato dall’altra parte: 120 metri di corsa folle in cui non sono riuscito a pensare a nulla, fatti tutti d’un fiato e senza sentire un filo di fatica. Quando sono arrivato sotto la curva non mi volevo fermare e mi sono detto: ‘Ora scavalco e li vado ad abbracciare tutti, uno per uno’. E forse lo avrei pure fatto se non ci fosse stato il fossato, ma appena mi sono fermato sono stato travolto dall’abbraccio dei compagni che mi avevano inseguito per tutto il campo”.
Quella folle esultanza, però, gli è costata cara. Carissima. E da uomo onesto qual è, a distanza di anni Fabio Poli recita il mea culpa per l’errore commesso.
“Ho fatto una cazzata, una grandissima cazzata. Il mio rapporto con Fascetti era teso già da qualche settimana. Avevamo litigato di brutto a Pisa, poi, alla ripresa degli allenamenti a Tor di Quinto avevamo fatto pace e ci eravamo chiariti davanti a tutti, perché c’era la partita con il Vicenza e tutte le questioni personali dovevano passare in secondo piano. Ci eravamo parlati, ma qualche ruggine era rimasta. Dopo il gol al Campobasso, non lo so se per istinto o perché inconsciamente ancora offeso per quel diverbio, invece di passare davanti alla panchina e dividere quella gioia con Fascetti e tutti gli altri, sono passato dietro. E lui, che per certi versi è ancora più permaloso di me, quella cosa se l’è legata al dito. E già negli spogliatoi a fine partita mi ha fatto un paio di battute. Ho capito subito che ci era rimasto molto male e che quell’errore mi sarebbe costato caro. E, purtroppo, è andata proprio così”.
Il momento più bello, coincide con la fine di tutto. Come tanti altri di quella squadra, infatti, Fabio Poli a fine stagione è costretto a lasciare la Lazio, contro la sua volontà.
“Io non me ne sarei mai andato. A Roma stavo benissimo e dopo quel gol la gente mi adorava. Venivo da un anno e mezzo difficile, una brutta polmonite e una frattura alla mano il primo anno mi avevano impedito di rendere per quello che ero stato pagato e per quello che sapevo di poter dare. Quell’anno le cose erano andate meglio, anche se intorno a me c’era sempre troppo scetticismo. E io questo lo sentivo e ne soffrivo. Una domenica, dopo il gol segnato al Taranto mi sono lasciato andare, mi sono sfogato con un gesto polemico verso la Monte Mario, dove c’erano i tifosi più critici e i giornalisti. Me lo ricordo come fosse ieri. Ma con quel gol al Campobasso in un colpo solo ero riuscito a spazzare via tutto: malumori, critiche e scetticismo. Ero diventato un eroe, quasi intoccabile. Ma la società usò quello screzio con Fascetti per farmi fuori. Ufficialmente per incompatibilità con l’allenatore, ma in realtà perché avevano trovato una società disposta a spendere molti soldi per comprarmi e perché intanto loro avevano già acquistato sia Muro che Savino per sostituirmi. Per un po’ ho provato a fare resistenza, mi sono chiarito con Fascetti che mi ha detto che per lui potevo restare tranquillamente e giocarmi il posto, ma in società non ne volevano sapere. Mai conosciuta gente simile: fredda e senza un briciolo di riconoscenza. Erano dei comandanti, senza nessun rispetto per il prossimo, capaci solo di dare ordini e di pensare elusivamente ai loro interessi. Quindi, ho capito che per me la storia con la Lazio si era chiusa proprio sul più bello. Peccato, forse se avessi coinvolto Fascetti in quell’esultanza dopo il gol al Campobasso sarebbe cambiato tutto e i Calleri non avrebbero avuto nulla a cui attaccarsi per farmi fuori. Invece ho fatto quella cazzata e l’ho pagata veramente a caro prezzo”.
Nonostante i problemi con i Calleri e quella rottura traumatica, però, anche a distanza di più di 30 anni per lui la Lazio è sempre la Lazio.
“Un ambiente strepitoso. A parte qualche episodio, qualche tifoso pagato dalla società per contestarci o crearci problemi, a Roma ho trovato della gente meravigliosa, pronta a fare qualsiasi sacrificio per la squadra e per rendere la vita facile a chi indossa quella maglia. I tifosi e il gruppo hanno fatto il miracolo. Senza il loro appoggio non ce l’avremmo mai fatta. Ma sono stati fondamentali anche il carattere e l’esperienza di Fascetti. Dopo aver appeso gli scarpini al chiodo l’ho incontrato molte volte e abbiamo capito che tra noi c’è, alla base di tutto, un rapporto di stima reciproca. E all’improvviso ogni ruggine è sparita. Ora che tutto è stato chiarito posso dire che è stato veramente un grande allenatore. Lui è stato decisivo fin dall’inizio, da quel discorso fatto a Gubbio in ritiro quando è arrivata la mazzata della retrocessione in serie C. Molti era spaesati, perché c’era gente che arrivava da società importanti di serie A che in un istante si era trovata in serie C, con i Calleri che dicevano: ‘Fate quello che volete, siete liberi di restare o di andare via, noi non tratteniamo nessuno perché non possiamo dare garanzie e non sappiamo che cosa succederà’. È stato Fascetti a rimettere insieme i pezzi e a creare, in poche ore, un gruppo solido e unito, capace di resistere a qualsiasi cosa. Se in uno spogliatoio hai dei giocatori bravi ma non intelligenti, il gruppo non si crea. Noi, prima che bravi calciatori abbiamo dimostrato di essere uomini, persone coraggiose e intelligenti. Tutto il resto è arrivato di conseguenza”.
Una storia bellissima, quindi, con un brutto finale. Come da tradizione consolidata di questa società straordinaria ma per certi versi maledetta, quasi incapace di scrivere un epilogo a lieto fine anche nelle storie e nei rapporti più belli. È successo con tanti prima e dopo di lui. E Fabio Poli sa cosa si prova.
“Nonostante la Lazio mi avesse ceduto alla fine al Bologna, la squadra della mia città e in cui era nato calcisticamente, io non me ne volevo andare. Era diventata quasi una questione di orgoglio per me, volevo arrivare fino in fondo. Chinaglia mi aveva comprato per riportare la Lazio in serie A e dopo averla salvata dalla retrocessione in serie C volevo concludere l’opera. Invece la storia si interrotta sul più bello. E come succede anche nelle storie d’amore, quando un rapporto finisce in quel modo e si interrompe così bruscamente, ti resta addosso un senso di incompiuto che ti lega forse ancora di più a quella storia. Ecco, per me la Lazio è come una bella storia d’amore, la più importante della mia vita calcistica, spezzata sul più bello e contro la mia volontà. Ma è un amore destinato a durare per sempre…”.
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