GLIEROIDELCALCIO.COM (Flavio Mecucci) – Nelle ultime settimane in più occasioni la cronaca nera dei quotidiani e dei telegiornali è tornata ad occuparsi del fenomeno Ultras: omicidi, estorsioni, misteriosi suicidi hanno riempito le pagine dedicate al tifo organizzato. Una minoranza criminale ha monopolizzato il racconto del fenomeno, rendendo esplicita l’incapacità del mondo della comunicazione di descrivere i tratti salienti e le caratteristiche fondanti di una sottocultura autoctona, ovvero della parte più “calda” dei tifosi organizzati. Per analizzare in maniera scevra da pregiudizi un fenomeno che coinvolge migliaia di cittadini italiani, dalle Alpi alle isole, di qualsiasi estrazione sociale, occorre anzitutto descriverne chiaramente i protagonisti.
Andando per punti, dobbiamo partire dal significato dei termini in gioco. Con tifoso indichiamo comunemente colui che coltiva una passione sportiva accesa ed entusiastica. Sul finire degli anni Venti fa comparsa questo neologismo, diffuso dalla penna dei giornalisti sportivi. L’origine sembra sia dovuta al termine greco thypos: fumo, vapore. Altra ipotesi, forse più probabile, vuole che la parola sia nata dal gergo degli spalti, operando una trasformazione del termine medico tifico in quello sportivo di tifoso, per descrivere l’atteggiamento smodato dei nuovi supporters, assimilando il tifo sportivo a una sorta di epidemia mentale, il cui contagio produceva effetti di offuscamento, tipici degli eccessi della malattia tragicamente familiare agli italiani dei primi decenni del ‘900.
Con il termine ultras, vengono descritti comunemente, i tifosi più passionali delle squadre di calcio. L’origine sembra risalire alla Francia dell’800 con il significato di “intransigente, oltranzista”. Il termine viene utilizzato, nella sua accezione moderna, per la prima volta a Genova sul finire degli anni ’60 dai sostenitori della Sampdoria (anche come acronimo alla frase minacciosa rivolta agli avversari genoani: “Uniti Legneremo Tutti i Rossoblù a Sangue”). Tale componente violenta ne caratterizza immediata la sfera semantica: in effetti sin dagli esordi della partecipazione popolare alle partite di calcio sono poche le stracittadine, o le partite segnate da accesa rivalità, che non abbiano fatto registrare disordini tra i tifosi delle due squadre, prima o dopo la partita, o anche sugli spalti durante l’incontro.
Tale situazione conflittuale trova ragione anche nel fatto che i comportamenti più assurdi, le ire più violente, le delusioni più cocenti sono dettati dalla passione per il calcio; lo spettatore sente di dover partecipare attivamente al gioco, alla sfida, allo scontro. Se per molti lettori sembrerà impossibile capire la motivazione che porta allo scontro fisico per un semplice gioco, può aiutare nella comprensione decifrarne l’importanza nella vita di così tante persone. Per molti “il calcio è la cosa più importante delle cose meno importanti”, come recitò il grande Arrigo Sacchi, ma per altri forse è anche di più.
Nel secolo scorso, il calcio ha assunto il ruolo di punto fermo, in tempi di profondi mutamenti politici e sociali. Con il crollo delle grandi ideologie e la crisi della religiosità, il calcio si erge a fenomeno religioso. Come osservò Pier Paolo Pasolini “il calcio diventa l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo”. I comportamenti della folla adunata all’evento sportivo hanno un sapore cerimoniale: i fedeli esprimono la loro partecipazione emotiva e scandiscono le azioni che si svolgono in campo con parole, canti convenzionali, gesti, atteggiamenti codificati. L’abbigliamento (sciarpe, capelli, maglie, bandiere) contribuisce alla metamorfosi delle apparenze e dei comportamenti che caratterizzano il tempo rituale. Il calcio diventa rito, teatro della modernità. La partita è la celebrazione, ecumenicamente condivisa via etere, con tanto di liturgia cantata.
E nel periodo di massimo mutamento religioso, politico, sociale ed economico nasce il fenomeno ultras: è la fine degli anni ’60, gli anni della grande contestazione quando a Milano nasce la Fossa dei Leoni (1968), che si riuniva nell’attuale secondo anello arancio (solo qualche anno dopo nell’anello superiore della Curva Sud). Nei primi giorni del 1969 nascono invece i Boys furie nerazzurre (divenuti nel 1981 Boys San, squadre azione nerazzurre con una più marcata collocazione politica di destra)
Fino a quel momento, si erano formate aggregazioni più o meno organizzate di appassionati: nei primi anni ’50 nacque a Torino il club dei “Fedelissimi Granata”, a Roma videro la luce in contemporanea i Circoli Biancocelesti e l’associazione giallorossa “Attilio Ferraris” mentre a Firenze i giocatori in maglia viola potevano contare sul sostegno del Club Viesseux e del club Settebello. Ma la comparsa del modello Ultras cambia i connotati alle tifoserie italiane: nel 1969 nascono i gruppi ultras di Sampdoria e Torino. I sampdoriani sono i primi ad utilizzarne l’espressione nel nome (Ultras Tito Cucchiaroni). A Torino i più esagitati dei Fedelissimi Granata fondano la sezione Commandos (dal 1971 adottando il nome Ultras Granata).
Nel 1971 fanno la loro comparsa altri gruppi che entrano di diritto in questa particolare storia: a Verona nascono le Brigate Gialloblù dell’Hellas da alcuni militanti dell’area movimentista di Borgo Venezia. I veronesi portano nel panorama italiano un nuovo stile che prende spunto dal mito del tifo inglese tanto nell’estetica quanto nei cori (anche grazie al gemellaggio con la tifoseria inglese del Chelsea). In questi anni lo stile ultras fiorisce anche nel centro sud: nel 1971 si costituisce in maniera pionieristica il Commando Monteverde Lazio, diventato una realtà nel 1974 (nello striscione, CML’74, viene riportata proprio quest’ultima come data di fondazione). Sempre a Roma, sulla sponda giallorossa del Tevere, nel 1972 nascono altri due storici gruppi ancora attivi, inizialmente agli antipodi: I Boys nati per iniziativa di Antonio Bongi, gruppo di estrazione borghese e politicamente destroide, dei quartieri bene della città (come Vigna Clara, Parioli e Balduina) ed i Fedayn guidati da Roberto Rulli, con tendenze di sinistra e anarchiche ed origini popolari (principalmente dal Quadraro e Cinecittà). Più a sud, Nel 1972 nasce il Commando Ultrà Curva B a Napoli, da Gennaro Montuori, detto Palummella, uno dei capi tifosi più celebri della storia italiana, da uno zoccolo duro di tifosi dei rioni Sanità e Cavour.
A cavallo dell’Appenino nascono negli stessi anni i primi gruppi ultras della Fiorentina (i Superstars Supporters, che a seguito di un’ondata di arresti per incidenti con i tifosi romanisti, cederanno presto le redini del tifo al Collettivo Autonomo Viola nato nel 1978) e gli Ultras del Bologna (1974). Infine a Genova i sampdoriani trovano un degno avversario con la Fossa dei Grifoni del Genoa, esempio negli anni di tifo di matrice britannica e di scenografie mozzafiato. Inoltre in molte città i modelli si rafforzano immediatamente grazie a processi di aggregazione tre le neonate formazioni ultras: oltre all’ascesa del nuovo modello a Milano con la rapida espansione dei gruppi originari in sponda rossonera e nerazzurra, dall’esperienza iniziale del 1975 con i Panthers della Juventus, si svolta nel tifo bianconero con la nascita dei Black and White Fighters di Beppe Rossi nel 1977); Nello stesso anno a Roma i due gruppi ultras originari si uniscono ad altri di minor importanza (i Guerriglieri, la Fossa dei Lupi e le Pantere) e fondano il Commando Ultrà Curva Sud, esempio di stile e passione nel decennio successivo. Nella sponda biancoceleste al CML si affiancano gli Eagles (progenitori dei successivi gruppi della curva nord biancoceleste).
Alla fine degli anni ’70 quindi tutte le grandi città hanno un gruppo ultras organizzato che ne caratterizza il rituale domenicale. Seppur nelle differenze di colori e cori, tutte le piazze condividevano un nuovo stile di militanza. Le caratteristiche comuni erano la partecipazione, militanza, fede, all’ortodossia. Nel nuovo “rito” domenicale, ogni tifoso, specialmente se radicalizzato sceglieva di esserlo in maniera acritica, fideistica, istintiva e passionale. Il successo dello stile italiano del tifo si contrappose al modello nord europeo: nel resto d’Europa, si avvicendavano il modello ultrà italiano (Spagna, Olanda, Francia meridionale, Portogallo, Jugoslavia) e quello Inglese, (Germania, Francia settentrionale, Belgio, Grecia, Svezia, Ungheria, Polonia).
Ciò che caratterizzava il modello italiano, era la concezione politica, antagonista e conflittuale del tifo, che rivendicava una sorta di “proprietà morale della squadra, una sorta di cittadinanza del tifo”. Il modello inglese si presentava invece come una forma conflittuale essenzialmente impolitica, basata essenzialmente sullo scontro fisico e sul tifo durante la partita. Nell’evento sportivo il gruppo hooligan tendeva ad aggregarsi in piccole formazioni e le attività collettive (cori e sciarpate) non implicavano un particolare impegno extra-partita, né tantomeno gruppi di lavoro o responsabili di settore per le varie attività. Nel modello da torcida all’italiana, l’ultras (o meglio, ultrà) esalta la sua militanza in forme aggregative mutuate dall’esperienza politica di quegli anni (gli stessi gruppi ultras ne portano chiari riferimenti nei nomi come brigate, commandos, collettivo, nuclei d’azione ecc.). Queste strutture organizzative consentirono un tipo di attività superiori in termini di spettacolo (ad esempio con coreografie che coinvolgevano l’intera curva), comportando un forte carico economico e di lavoro.
Queste caratteristiche, strutture organizzative metapolitiche e sforzo economico, porteranno al successo negli anni ’70 e ’80 del modello italiano. Ma saranno anche una delle cause della degenerazione di tale modello negli anni ’90. Infatti se negli ultimi anni “il dodicesimo uomo in campo” (come amano definirsi i sostenitori di una squadra di calcio), ha subito un forte crollo iconografico nella società, questo è dovuto anche all’insostenibile peso di tali strutture. Ad aggravare la situazione ci sono stati poi anche dei fattori esogeni: infiltrazioni di formazioni politiche estreme e di ampi settori della criminalità hanno portato a cambiare il ruolo del 12° da aiutante della propria squadra a, in alcuni casi particolari, pericoloso antagonista. Ma questa è un’altra storia.