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Fischiare il ritorno dell’Albiceleste sconfitta: una tradizione argentina (1928-1966)

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Fischiare il ritorno dell’Albiceleste sconfitta: una tradizione argentina (1928-1966)

Come sappiamo bene noi anche noi italiani (si ripensi ai pomodori coi quali furono accolti gli azzurri di Fabbri di ritorno dall’Inghilterra, nel 1966), un’eliminazione precoce al Mondiale, ieri come oggi, provoca sempre rabbia fra i tifosi rimasti a tifare in patria, e spesso contestazioni al momento del ritorno dei giocatori: grazie alla lettura dello stupendo libro di Osvaldo Bayer, Fútbol.

Una storia sociale del calcio argentino (trad. italiana Edizioni Alegre, 2020), possiamo vedere come sulle sponde meridionali del Rio de la Plata fosse incominciata, sin dagli anni Venti, una vera e propria tradizione, che poi si rafforzerà nei decenni successivi. Si trattava di un’epoca in cui l’Albiceleste, composta da giocatori singolarmente presi di una qualità immensa – si pensi anche solo agli oriundi come Luisito Monti e Raimundo Orsi, non a caso razziati dalla Nazionale italiana in vista del Mondiale del 1934 – incorse in una serie di incredibili sconfitte nella manifestazioni internazionali dell’epoca, ossia il torneo olimpico, i Mondiali e il Campeonato Sudamericano, ossia l’attuale Copa América.

Partiamo dal torneo olimpico di Amsterdam 1928, al quale gli argentini si presentarono certi «di poter vincere il titolo. Avevano la squadra migliore e i complessi verso i padri uruguaiani», vincitori dell’edizione precedente (Londra 1924), eppure considerati « ormai superati». Ciononostante, gli argentini giocarono sì meglio degli avversari, ma «gli uruguaiani dimostrano più personalità: non si fanno mettere sotto, e sono meglio disposti sul campo»(p. 37). Ricorderà il nazionale albiceleste Pancho Varallo, a sessant’anni di distanza: «Sinceramente, ci hanno messo sotto. Gli uruguaiani ci han dato dentro, e gli argentini si sono fatti mettere sotto […]. Nel calcio vince chi è più guapo, chi vuol vincere la partita» (p. 40). Così, al rientro a Buenos Aires, «per i gladiatori vinti c’è il disprezzo dei portegni, che li aspettano con il pollice rivolto verso il basso. Il capro espiatorio è Monti. Lo accusano di scarsa virilità, e gli gridano “cagasotto!”» (p. 41).

Nel 1935 l’Argentina reinconterà l’Uruguay sul proprio cammino, nella finale del Campeonato Sudamericano. Gli avversari questa volta avevano «una squadra di poco valore. Secondo i giornalisti sportivi e gli habitué dei caffè portegni, avremmo fatto a pezzi gli uruguaiani. E invece, come sempre, vinsero loro 3 a 0. Non ci fecero neanche muovere. Ci trattarono come una squadra di serie C. 3 a 0. E ora come si fa a tornare a Buenos Aires?» (p. 57).

La paura degli argentini di ritornare a casa dopo una figuraccia troverà però il suo apice nel 1958, ai Mondiali in terra svedese, in cui «arrivammo ultimi nel gruppo A. In tre partite ci fecero 10 gol. La peggiore vergogna del calcio argentino. La Cecoslovacchia ci inflisse una goleada: 6 a 1» (p. 94). Pipo Rossi, uno dei giocatori di quella nazionale, ricorda: «Noi giocavamo con gli occhi bendati, non sapevamo cosa fosse un Mondiale. L’ultimo che avevamo giocato era nel 1930, poi fino al 1958 siamo rimasti fuori» (p. 95) – un interessantissimo caso di rimozione dalla memoria collettiva, come se il Mondiale d’Italia 1934, in cui era stata eliminata con una squadra formata solo da dilettanti, l’Argentina non l’avesse mai giocato! In ogni caso, in quel 1958, «all’arrivo all’aeroporto internazionale di Buenos Aires, a Ezeiza, 250 poliziotti dovettero intervenire a difesa dei calciatori della Nazionale.

Che ricevettero ogni tipo di insulto e una densa pioggia di monetine. Per ordine superiore, alla dogana vennero sequestrati ai calciatori i regali che avevano comprato per le loro famiglie. Bisognava trovare un colpevole» (p. 95), a costo di procedere a questa stramba forma di giustizia proletaria in salsa nazionalista.

Quando finalmente, ai Mondiali d’Inghilterra 1966, gli argentini si fecero eliminare con onore dai padroni di casa (favoriti oltremodo dall’arbitraggio amico), Roberto Perfumo e compagni temevano comunque «di essere presi a sputi al ritorno in Argentina» (p. 111). Evidentemente, si trattava di una tradizione dura a morire. Quella volta, però, «il dittatore di turno a Buenos Aires prese la palla al balzo per considerare gli argentini “campioni morali”. Così, con qualche esagerazione, i calciatori argentini divennero “eroi nazionali”. La partita si trasformò in un pretesto per aumentare la xenofobia tra i popoli» (p. 113), in attesa delle Malvinas e della mano de Dios di Messico 1986.

GLIEROIDELCALCIO.COM (Marco Giani)

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