FOGGIASPORT24.COM (Domenico Carella) – Fra un anno, fra due, fra tre… a Foggia si parlerà ancora di questa partita e di questa vittoria: e lo sguardo di molti s’illuminerà ancora di soddisfazione quando, ricordandone e raccontandone gli episodi, potranno dire: io c’ero”.Questa frase l’ha scritta Gino Palumbo, grande giornalista sportivo e direttore de La Gazzetta dello Sport. Era lui l’inviato del Corriere della Sera allo Zaccheria, il 31 gennaio 1965.
Era a Foggia per raccontare quella che avrebbe dovuto essere la più facile delle vittorie per l’Inter. La Grande Inter. Quella di Jair, Mazzola, Facchetti, Domenghini, Guarneri e Picchi. Una squadra che in quegli anni era quella che oggi rappresentano il Real Madrid o il Barcellona per noi. Pensate. Due anni prima aveva vinto lo scudetto, per poi perderlo l’anno successivo in uno spareggio con il Bologna. Ma quell’Inter si era subito rifatta vincendo una Coppa dei Campioni e l’Intercontinentale. Quello che chiameremmo oggi Mondiale per Club. Una macchina da vittorie orchestrata dal Helenio Herrera, quello che introdusse il concetto di “Mago” nel calcio. Ora. Immaginate questa grande squadra. I suoi campioni. Gli stadi in cui giocava abitualmente. E trasportatela nello Zaccheria degli anni sessanta. Mettetela davanti a quel Foggia Calcio. Davanti a undici ragazzi che hanno conquistato la prima storica promozione in Serie A solo qualche mese prima. Pochi soldi nelle casse e uno stadio che regala un paesaggio quasi lunare. Non c’è nemmeno un filo d’erba. Il rettangolo di gioco è in sansa, il tritato del nocciolo d’oliva. Quando soffia forte il vento si alza la polvere e diventa impossibile respirare a pieni polmoni.
Insomma, questa è la storia di Davide contro Golia, trasportata nel mondo del calcio. Più che una storia una fiaba. Quella che i nonni raccontano oggi ai nipoti. “Foggia – Inter 3-2. 31 gennaio 1965, l’impresa degli eroi di Pugliese”. Questo è il titolo che io, Domenico Carella, direttore di Foggiasport24.com, ho dato al mio libro, edito da Il Castello Edizioni. Qualcuno mi ha chiesto… “Ma come hai fatto a scrivere un libro su una sola partita?”. Bè, non ho potuto far altro che rispondere che nel libro, della partita vista sul campo, se ne parla in sole 4 pagine. Nelle restanti 200 viene raccontato altro. Aneddoti, segreti, storie.
Innanzitutto proviamo a capire perché questa partita è degna di essere ricordata. Forse perché per anni alcuni cinema della città hanno proiettato il secondo tempo ai tifosi famelici di gloria o perché un chiosco della villa ogni domenica ha mandato in diffusione la radiocronaca di quella partita. O magari, ancor più semplicemente, perché è stata una vittoria meritata. Non dettata da errori di presunzione da parte dell’Inter ma da una serie di fattori quasi totalmente legati al campo. Il Foggia è stato semplicemente più forte, almeno per una domenica. Un’impresa contro una squadra, l’Inter, che prima dello Zaccheria aveva fatto registrare 37 vittorie in 38 partite. IM-BAT-TI-BI-LI. O quasi.
Ma com’è il mondo del 1965. Per divertirsi si va al cinema, dove spopolano pellicole americane. Totò, svestito dai panni di marionetta, gira il film “Uccellacci e uccellini” di Pierpaolo Pasolini, mostrando le sue qualità per la prima volta in un ruolo drammatico, a pochi anni dalla sua scomparsa. Nella musica i Beatles preparano il lancio di Help!, brano che sarebbe diventato di lì a poco un successo internazionale. In Italia, invece, il Festival di Sanremo sta per proporre “Se piangi, se ridi” di Bobby Solo. In questo mondo si colloca Foggia, una città piccola del Sud Italia a vocazione agricola. La gente lavora tutto il giorno e la sera, soprattutto d’estate, si raduna davanti ai pianterreni disponendo le sedie in circolo. A queste latitudini la domenica è una tradizione a schema fisso. Si indossa il vestito buono, si va a messa, poi il ragù delle massaie e le paste come dolce.
Nel pomeriggio i primi a lasciare la tavola sono gli appassionati di calcio. Per loro c’è il rito del pallone. Dimenticate la Serie A di oggi. Nel 1965 tutte le partite si giocano nello stesso giorno ed alla stessa ora. Si attende la partita per l’intera settimana e si vive come un evento. Ancor più per Foggia dove il calcio è anche riscatto sociale, valvola di sfogo dalle amarezze di tutti i giorni. Allora ecco un fiume di persone con bandiere in mano solcare le vie principali della città, puntando verso lo Zaccheria. Tutti con una radiolina in mano, di quelle che gracchia se non è orientata bene l’antenna, puntata sulle frequenze di “Tutto il Calcio minuto per minuto”. Mica c’è internet. I risultati dagli altri campi si apprendono solo in questo modo.
Il Foggia attira appassionati. E’ una realtà in crescita sotto la direzione del presidente Mimì Rosa Rosa, che ha rilevato il 4 novembre 1961 la presidenza da Piccapane. Rosa Rosa è un gigante dallo sguardo austero e dalle grandi capacità imprenditoriali. Alla guida della squadra, invece, c’è un vulcanico signore di Turi. Oronzo Pugliese.
Ciccio Patino, capitano di quel Foggia, racconta nella sua biografia che fu proprio lui a favorire l’arrivo del tecnico allo Zaccheria. La cosa, secondo l’ala barese, è andata in questi termini. Pugliese vuole strappare Patino al Foggia, per costruirci attorno la sua squadra e nell’estate del 1961 decide di andare a casa sua, al quartiere Madonnella di Bari, per convincerlo. Patino rifiuta il corteggiamento e, quasi scherzando, fa una proposta: “Se mi vuole così tanto, perché non viene ad allenare il Foggia? Cercano un allenatore”. Poco tempo dopo Pugliese siederà sulla panchina dello Zaccheria. Si narra una leggenda secondo la quale don Oronzo avrebbe detto: “Presidente, io sono Pugliese di nome e di fatto. Il Foggia lo allenerei anche gratis”. Davanti a tale entusiasmo è impossibile dire di no.
Da un’intuizione all’altra. Il primo atto di Pugliese da allenatore è quello di bloccare la cessione al Napoli di Cosimo Nocera. Proprio quando tutto sembra già fatto, con un buon bottino di denaro pronto ad entrare nelle casse del club e i giornali che danno l’annuncio dell’operazione. Il Foggia ha due centravanti e voleva liberarsi di uno tra lui e Piero Merlo. “Nocera non si muove”, dice Don Oronzo sbattendo i pugni sul tavolo. Una scelta quantomai azzeccata. I gol di Cosimo (o Vittorio per i foggiani), trascineranno la squadra in A nel giro di tre anni. «Lui è il ‘mago’ del Nord, io sono il ‘mago’ del Sud. E lui mi deve riconoscere come tale». A una manciata di giorni dalla sfida del 31 gennaio, Oronzo Pugliese parla così al suo capitano, amico e confidente, Ciccio Patino. Pugliese attaccava continuamente Helenio Herrera. Ritiene di poter essere considerato anche lui un ‘mago’ e fa di tutto per riuscire a guadagnare quella qualifica. L’arma principale di Pugliese è la dialettica, cerca di stuzzicarlo continuamente in attesa di una reazione, ma l’argentino, serafico, non si scompone mai più di tanto. Almeno fino a quel 31 gennaio.
Ma la battaglia tra i due maghi inizia già nel match di andata a Milano, seconda partita del Foggia in Serie A. La panchina di Pugliese, secondo quello che lui stesso dichiarerà alla stampa, viene posizionata inaspettatamente sotto al settore dei distinti del Meazza. Il tecnico di Turi, che aveva l’asciugamano sul collo anche in inverno, figuriamoci a fine estate, viene sposto alla luce del sole per tutta la partita. Una sofferenza. Una posizione scomoda, anche perché molto vicina al pubblico di casa. E non sono mancati, a dire di Pugliese, parolacce e sputi. Uno sgarbo che il tecnico non digerisce e lo testimoniano le numerose interviste, rilasciate nella settimana prima della partita di ritorno allo Zaccheria. Don Oronzo inscena una polemica a mezzo stampa degna di Mourinho. Anzi, forse lo special one avrà carpito qualche segreto dal nostro mago.
Pugliese accusa Helenio Herrera di aver volutamente spostato la sua panchina e dichiara al Corriere dello Sport: «Medito vendetta sul campo, non con i dispettucci che il comportamento seguito da Herrera potrebbero suggerirmi! Il signor Herrera a Foggia sarà accolto con la massima cortesia. Non lo metterò ad essiccare al sole, come fece lui con me». Una partita nella partita perché da Milano si leggono articoli contro il comportamento del pubblico e della popolazione foggiana nei confronti del Milan e dei cronisti al seguito, con tanto di descrizioni di intemperanze del pubblico e presunti furti di portafogli.
Per farla breve, quel 31 gennaio 1965 a Foggia c’è più i un conto da saldare. Il furore agonistico di Pugliese risalta nelle dichiarazioni rilasciate sempre al Corriere dello Sport. Dice: «Se la qualifica di ‘mago’ spetta a chi ottiene dei buoni risultati con una squadra che costa miliardi io non sono affatto il collega del ‘mago’ Herrera. Il mio Foggia, lo sanno tutti, costa la decima parte dell’Inter. […] È inutile che stia qui a fare il supermodesto. Il Foggia domenica giocherà per vincere». Sminuire l’avversario, fargli perdere le sicurezze tipiche dei campioni del mondo e impostare una gara sulla voglia di riscatto personale e del gruppo. Pugliese destituisce il silente Herrera del suo ruolo di ‘mago de la pelota’, un comportamento per certi versi vicino al sacrilegio per gli esperti di Serie A. Ma l’uomo di Turi non sembrava curarsene.
Insomma, per don Oronzo l’Inter aveva cessato di essere campione del mondo, non era la squadra più forte del campionato e il tecnico argentino non era il migliore sulla piazza, perché aiutato in modo determinante dalla qualità del gruppo a sua disposizione. Gli effetti delle sue parole si vedono subito. La piazza s’infiamma e le richieste di biglietti mandano in tilt la segreteria del club di Rosa Rosa. L’intera Puglia si mobilita per l’evento e da Bari giungono notizie dell’allestimento di 10 pullman diretti allo Zaccheria, la cui tribuna è già esaurita dal mercoledì. La società annuncia il ‘sold out’, 48 ore prima del match.
Ad attendere i calciatori sulla banchina c’è un ospite inatteso: don Oronzo Pugliese in persona. Sì, proprio lui, nell’atto iniziale di quella che Il Corriere della Sera definirà come una vera e propria «operazione simpatia». In realtà Pugliese approfitta della partenza del Potenza Calcio, allenato dal cognato Egizio Rubino, per presenziare all’arrivo della squadra avversaria e continuare nel suo pressing psicologico.
Angelo Pinasi de “Il Giorno” di Milano racconta: «Pugliese ospitale. Accoglie l’Inter in stazione. Accompagna i giornalisti allo stadio nella sua ‘Giulia’ e offre l’aperitivo in albergo». Insomma il vero personaggio della vigilia deve essere lui, e lo spettacolo che ha preparato per H.H. è appena all’inizio. L’Inter, come detto in precedenza, arriva a Foggia alle 10.15, ma alle 10.30 è già allo Zaccheria, pronta a scendere in campo per la rifinitura del sabato. Una seduta che dura molto più del previsto, forse perché la squadra ha usufruito di due giorni di riposo in più nell’arco della settimana e dove tornare a sudare per acquisire ritmo. Scelta sbagliata.
«Mi è andata bene», dice Pugliese al Corriere dello Sport, mentre presenzia in tribuna alla rifinitura degli avversari. Sia chiaro, non per spiarli (o quantomeno non solo per spiarli), ma soprattutto per sottrarre al nemico visibilità e attenzioni. «Se Herrera insiste, col terreno duro com’è, domani voglio proprio vedere le gambe dei neroazzurri […]. Eccoli – disse indicando l’Inter sul campo -, sono tutti purosangue. Il peggiore, sarebbe il mio più grande campione. Eppure domani ci divertiamo. Per battere il Foggia, campioni del mondo o no, bisogna arrivare al 90’».
Qualche cronista di Milano fa notare come Herrera si aspettasse un campo fangoso, annacquato dalle precipitazioni tipiche di gennaio. «Ma se non piove da 15 giorni», risponde con un sorriso beffardo don Oronzo, che aveva dato mandato di non innaffiare il fondo del campo per alcuni giorni. E il nervosismo sale, al punto che il silenzio stampadell’Inter, indetto prima della partenza, prosegue anche alla vigilia del match con punizioni salatissime: qualora un calciatore avesse rilasciato dichiarazioni alla stampa avrebbe rischiato una multa di ben 100 mila lire. Il ritiro dell’Inter è programmato presso l’Hotel Santa Maria delle Grazie di San Giovanni Rotondo. Al termine della rifinitura mattutina il gruppo di Herrera si sposta nel piccolo centro garganico, reso famoso in Italia e nel mondo dalla presenza di Padre Pio, il frate con le stimmate. Dopo aver pranzato e riposato, i calciatori si ritrovano alle 16.30 sul sagrato della Chiesa di Santa Maria delle Grazie per essere ricevuti in udienza dal frate di Pietralcina.
Ezio De Cesari del Corriere dello Sport racconta l’incontro con queste parole. «Padre Pio è uscito da una porticina dietro l’altare maggiore, ha alzato la mano destra e ha benedetto i presenti. Herrera, con il capo chino, le mani giunte all’altezza del torace, come tormentato nell’intimo, era serenissimo. Un silenzio di piombo è calato nella chiesa all’apparizione del vecchio frate».
Anche Sandro Mazzola, centravanti di quell’Inter, ha commentato l’evento in una delle mie trasmissioni di qualche anno fa. «Eravamo tutti lì in fila davanti a lui – disse Mazzola -. In testa c’era Herrera in compagnia del capitano Picchi ,che a nome della squadra porse a Padre Pio una busta con un’offerta in denaro. Il frate, quasi in dialetto, si rivolse a uno dei fraticelli a lui vicino dicendo: “Questi cosa credono? Facendo un’offerta pensano di vincere?”».
E viene la notte e viene il giorno. Il giorno del match. Il piccolo centro di San Giovanni Rotondo dorme sonnacchioso in un’alba livida, nella quale i raggi del sole tardano a farsi vedere. Ma nel gelo delle 5, due uomini sono già svegli: Sandro Mazzola e Armando Picchi. Scappano dal ritiro blindatissimo ordinato da H.H. per farsi confessare da Padre Pio. Anche per il Foggia il prepartita inizia alle 5 di quel 31 gennaio. A casa Nocera, ad esempio, non si dorme. Una luce illumina il corridoio mentre Vittorio, in pigiama, cammina nervosamente da una parte all’altra dell’appartamento. Cammina borbottando il mantra di Pugliese. “Undici siamo noi, undici sono loro. Possiamo vincere”. Mentre la moglie Anna, assonnata, lo canzona. Poi Vittorio, come ogni domenica, parte per San Giovanni Rotondo per portare allo stadio uno dei nipoti di San Pio.
Che attesa. Il tempo vola e in poco tempo arriva l’orario del match. Ecco la folla di cui parlavo prima. Corre per accaparrarsi un posto vicino al passamano della vecchia tribuna, per essere vicini alla linea del centrocampo. Fa freddo, il cielo è grigio, ma Foggia è presente. Come benzina sul fuoco, si aggiunge la verve di Oronzo Pugliese, che amplifica, qualora ce ne fosse stato bisogno, la rabbia agonistica di una piazza affamata di grande calcio. Il cocktail perfetto per il Foggia, ma letale per l’Inter.
Le due squadre arrivano qualche ora prima allo Zaccheria e scendono subito in campo, in abiti borghesi, per visionare il fondo del terreno di gioco. No, non è assolutamente cambiato. Come poteva cambiare? E’ ancora lì, duro e polveroso, fastidioso, insopportabile per chi non vi era abituato. Il Foggia è da una parte dello Zaccheria, l’Inter dall’altra, con le gambe ancora dolenti per la rifinitura del giorno prima.
Mentre Mazzola rientra nello spogliatoio gli si fa incontro Pugliese. Un saluto cordiale di Mazzola, un ghigno del tecnico foggiano. “Eh, oggi perdete”. Mazzola rimane di sasso. Ammetterà molti anni dopo di aver pensato che Pugliese era proprio uno con la faccia tosta per dire certe cose con tanta sicurezza. In realtà era semplicemente uno che aveva capito come poter battere la squadra più forte del mondo. Non aveva paura di niente, caricava i suoi e, se poteva, scaricava gli avversari.
La scena si sposta negli spogliatoi. Pugliese prende uno a uno i componenti della sua squadra per catechizzarli. Giusto qualche indicazione tattica sull’avversario da marcare: ognuno aveva venti metri di campo di sua competenza e un calciatore dell’Inter da prendere in consegna. Prendeva Lazzotti e gli diceva: “Suarez? E chi è Suarez? Sei più forte tu…”. Alla fine i ragazzi cominciano a crederci. Manca poco alla partita. Dal gruppo si alza il capitano Patino che chiede di scendere in campo per riscaldarsi. Pugliese sbarra la via per la porta dello spogliatoio con il corpo. Riecheggia il suo “no” tra i muri del ventre dello Zaccheria, quasi a coprire il brusio dei tifosi che intanto prendono posto in tribuna.
E’ lì, braccia aperte davanti alla porta. Indossa quella che i calciatori chiamano scherzosamente “La camicia dei cento bottoni”. Se l’è fatta cucire dalla sua signora ed ha una lunga fila di bottoni tenuti insieme da un filo di cotone sottile. Con la faccia spiritata afferra i due lembi e inizia a far saltare uno dietro l’altro tutti i bottoni fino a rimanere a petto nudo. E giù di discorso motivazionale.
I calciatori sono delle molle ma la carica dura poco. Il tempo di uscire e presentarsi nel tunnel. Accanto a mostri sacri come quelli dell’Inter i piccoli atleti del Foggia si sentono poca cosa. In fondo gli uomini di Herrera hanno vinto ogni competizione possibile. Loro, invece, venivano dalla B. A restituire la carica a Patino e compagni ci pensa lo stadio. Appena entrano in campo le squadre… il boato è agghiacciante. Immaginatelo. Il paesaggio lunare dello Zaccheria, senza un filo d’erba. Un terreno duro, scuro, polveroso. Gli spalti fatti di tubi innocenti e tavoloni di legno. Venticinquemila persone che all’unisono sbattono i piedi con un suono cupo, sordo. Quasi spettrale. Lo Zaccheria è la degna casa del Foggia: un inferno. Per venti minuti l’Inter rimane stordita, poi prova a spingere, ma il primo tempo si chiude sul risultato di zero a zero. Il Foggia non riesce a rendersi pericoloso, è vero, ma anche il nobile avversario non sfonda il muro organizzato da Pugliese. Sulle tribune, dove anche il presidente Angelo Moratti trova posto, mentre si attende il rientro in campo delle squadre, mai nessuno può immaginare che i secondi quarantacinque minuti di gioco saranno un concentrato di emozioni e prodezze balistiche da cristallizzare nella storia del club rossonero.
Dopo solo quattro minuti della ripresa Guarneri, in affanno, stende Majoli al limite dell’area. ‘Gambadilegno’ (questo era il suo soprannome) si appropria della sfera e calcia con precisione verso la porta avversaria. Il tuffo disperato di Di Vincenzo è vano ma la traversa respingere quel tiro. La palla rimbalza docile verso il dischetto del rigore davanti agli occhi dei difensori nerazzurri, fermi come statue. Dalla barriera guizza fuori Lazzotti per ribadire la palla in rete a porta sguarnita. 1-0. Dalle tribune i cronisti milanesi pensano al fuorigioco ma l’arbitro convalida senza esitazioni.
Cinque minuti dopo ecco il secondo gol foggiano. Micelli consegna palla a Majoli, filtrante per Nocera, dribbling su Guarneri e Picchi (non due calciatori qualsiasi) e tiro preciso a beffare Di Vincenzo in uscita. 2-0. Il boato è terrificante. La sensazione incredibile. Il piccolo Foggia è in vantaggio di due gol sulla squadra più forte del mondo. Ed ha anche la possibilità di triplicare con un tiro-cross di Favalli, di poco alto. La folla invoca a gran voce il nome di Pugliese e lui, il mago del Sud, sembra dirigere il pubblico dalla panchina, instaurando il consueto rapporto fatto di gesti e sguardi.
Ma una reazione l’Inter deve pur averla. La classe degli uomini di Herrera è troppa per soccombere due a zero senza un guizzo d’orgoglio, al cospetto del piccolo Foggia. Tutto avviene in pochi minuti. Al 18′ Corso inventa un diabolico slalom tra le linee rossonere, salta tre uomini e serve a Peirò un pallone d’oro da tramutare in gol; lo spagnolo supera Moschioni con un tiro preciso. 2-1. Suarez diventa un attaccante aggiunto nello scacchiere di Herrera, avanza il suo raggio d’azione e i guai per la difesa rossonera aumentano a dismisura. Alla mezz’ora Moschioni capitola nuovamente.
Luisito mette giù di petto, da campione, un passaggio di Mazzola e dal limite dell’area scaglia un dardo di rara potenza e precisione nella porta foggiana. 2-2. Il pubblico raggela sugli spalti e non di certo per il freddo. Davanti agli occhi dei venticinquemila dello Zaccheria si palesa l’orrido spettro della sconfitta, della beffarda rimonta dei più titolati avversari, proprio quando tutti avevano già fatto la bocca a una sontuosa vittoria. Già, perché l’inerzia della gara adesso è tutta per l’Inter che ha dimostrato in pochi minuti di poter segnare senza tradire affanno, grazie alla smisurata classe dei suoi campioni.
Eccolo il gol. Quello decisivo. Ma è del Foggia. Majoli supera Malatrasi e serve Nocera spalle alla porta al limite dell’area. Vittorio finge di voltarsi a sinistra, per poi girarsi repentinamente verso destra. Guarneri e Picchi abboccano e perdono l’attimo per chiudere il tiro del bomber. Un dardo potente e preciso che si infila alle spalle del portiere Di Vincenzo. 3-2. Boato. Vittorio rimane con le braccia in alto quasi stordito, calamitando la corsa dei compagni di squadra. Patino lo abbraccia, lui risponde intontito. “Si u’mast, Cicco. Si u’mast”.
Gino Palumbo, nello stesso articolo da cui è tratta l’introduzione di questo speciale, ha scritto sul Corriere della Sera. «Non ha vinto solo il Foggia: ha vinto tutta Foggia. Ha vinto la città e il suo successo non si rispecchia solo nel risultato; non è contabilizzato soltanto dal numero dei gol. È una vittoria che hanno costruito tutti insieme; i giocatori, Pugliese, la folla. L’obiettivo non era solo quello di superare l’Inter, era anche quello di dissipare ogni sospetto sulla maturità sportiva della città e della sua gente. L’impresa è riuscita perché tutti hanno voluto fortemente che riuscisse. Una questione d’orgoglio. Ora dalle strade affollate giunge l’eco di applausi, di canti, di grida, l’intera città è in festa. “Ora possiamo anche tornare in Serie C – si è sentito dire -. Abbiamo battuto i campioni del mondo”. Fra un anno, fra due, fra tre a Foggia si parlerà ancora di questa partita e di questa vittoria: e lo sguardo di molti s’illuminerà ancora di soddisfazione quando, ricordandone e raccontandone gli episodi, potranno dire: “Io c’ero”».