GLIEROIDELCALCIO.COM (Antonio Mattera) –
ANIMA MIA
“Col viso in alto di chi il mondo sfida/ E tiene in piedi un uomo con un sì /Nel cuore aveva un volo di gabbiani/ma un corpo di chi ha detto troppi sì/ Negli occhi la paura del domani” (Anima mia-I Cugini di Campagna).
Sembra scritta per lui, Francesco Rocca, il mitico “Kawasaki” della Roma.
La canzone è del 16 gennaio 1973.
Francesco, il 27 marzo 1973 esordisce in Serie A, contro il Milan a San Siro.
Gli inizi da mediano, terzino, destro o sinistro è indifferente, dopo.
La canzone sembra essere dannatamente profetica, per uno dei più forti calciatori italiani in quel ruolo, una carriera veloce come solo lui lo sapeva essere su quella fascia, annichilendo l’avversario diretto con prove di forza, resistenza e intensità che sfiancheranno campioni acclarati come il polacco Lato o funamboli come Causio.
Lui, Rocca, che ha prima il compito di limitarli ma che poi, in un crescendo degno della “Cavalcata delle Valchirie” di Wagner, riesce a mettere sulla difensiva i suoi diretti avversari, costretti a rincorrerlo, rintuzzarlo, stargli dietro sé sono capaci.
Incomincia in una squadretta di periferia, il Bettini Quadraro, e solo per un caso la Roma riesce a soffiarlo alla Juventus.
Lo nota, nelle giovanili giallorosse, Helenio Herrera, allora allenatore della Roma, e lo porta in prima squadra.
Il “Mago”, così come era oramai conosciuto dai tempi prestigiosi, dell’Inter, forse non ha più la bacchetta magica per risollevare le sorti di una allora Rometta, ma ne capisce di calcio, eccome, al di là del lato folkloristico della sua persona.
Non esista a definire Francesco Rocca, quel mediano dalle doti atletiche spaventose, ancorché ancora grezzo tecnicamente «il calciatore più rivoluzionario che sia nato in Italia»
È il periodo che si va affermando la scuola olandese del calcio totale, dei giocatori capaci di ricoprire più ruoli, forti tecnicamente e con classe cristallina nei piedi.
Ruud Krol è uno di questi eclettici infatti, un terzino che sa giocare a centrocampo e finirà la carriera da libero.
Il tedesco Paul Breitner e il carioca Francisco Marinho sono, insieme all’olandese, forse i terzini più forti al mondo all’epoca.
Gente che difende, imposta e attacca con la stessa facilità.
Quindi, per Francesco Rocca, questa dichiarazione è una laurea a pieni voti.
A sgrezzarlo ci penserà poi Liedholm, trasformandolo tatticamente e limandolo tecnicamente.
Ore e ore ad allenarsi, lui che è destro, a giocare sulla fascia sinistra, imparando a crossare con precisione e a marcare a zona.
Trasformarlo da baluardo in difesa a catapulta offensiva nella stessa partita, ecco l’intento dello svedese più napoletano della storia del calcio.
Anni dopo Liedholm adotterà lo stesso sistema, a piedi e zona di campo invertite, con Sebino Nela e i risultati li conosciamo tutti.
Rocca corre su quella fascia, annichilisce gli avversari, difende e offende con la stessa facilità, frutto di una natura che gli ha donato polmoni d’acciaio e gambe veloci.
“Col viso in alto di chi il mondo sfida/ E tiene in piedi un uomo con un sì”, appunto.
C’è una nazionale da ricostruire, dopo il disastro germanico del 1974, e l’Italia, affidata a Bernardini, lancia due giovani: uno è Giancarlo Antognoni, stella della Fiorentina, il “ragazzo che giocava guardando le stelle” (guarda caso, lanciato sempre da Liedholm).
L’altro è Francesco Rocca, oramai Kawasaki per tutti per via di quelle sue galoppate sulla fascia.
Sembra l’inizio di una favola bella, bellissima.
È l’inizio invece di un incubo.
Per Francesco, per la Roma, per i tifosi, per il calcio.
L’INIZIO DEL CALVARIO.
È appena iniziato il campionato di Serie A del 1976/77.
Francesco è ormai una colonna di una Roma giovane e spigliata (Di Bartolomei e Bruno Conti fanno parte di quella squadra) e si è preso la fascia sinistra della Nazionale, dove appena qualche mese prima ha segnato anche il primo goal contro gli Usa.
È il 10 ottobre 1976, il giorno dopo il mio compleanno, il calcio da seguire solo da una radiolina.
Seconda giornata di campionato, la Roma ospita il Cesena.
Poco più di tre minuti separano il sogno dall’incubo.
Quando dura la traccia di “Anima mia” sull’omonimo album dei cugini di campagna, uscito nel 1973, quasi insieme a Francesco.
Un’entrata da dietro di Bittolo, centrocampista del Cesena, su Rocca, per contendere un pallone che sta placidamente adagiandosi in fallo laterale.
Il ginocchio scricchiola, fa un movimento innaturale, ma sembra finire tutto lì.
Francesco continua a macinare chilometri e prestazione da urlo, mentre il ginocchio continua a gonfiarsi.
Il dolore anestetizzato dall’adrenalina e dalla carica agonistica del giocatore.
Il destino, ingrato e ignobile, celato dietro alla voglia matta di percorrere un rettangolo verde.
Una borsa di ghiaccio e via, pronto alla convocazione in nazionale qualche giorno dopo.
Si gioca col Lussemburgo per accedere ai mondiali di Argentina ’78.
Anche lì, l’indomito guerriero, fa quello che ha sempre fatto nella vita: lavora e corre.
Solo che, stavolta, lo fa veramente male, gioca da schifo, il dolore è insopportabile e adrenalina e forza agonistica non possono niente.
«Se mi fossi fermato in tempo, – dichiarerà Rocca anni dopo – non mi sarebbe accaduto quello che mi è successo. Non avrei dovuto dare retta a chi mi disse di andare a giocare in Nazionale in quelle condizioni».
Torna a Roma, torna ad allenarsi, un movimento con la gamba destra e la sinistra cede di schianto.
Tra lo stupore, e la paura, dei compagni Kawasaki cappotta a terra, sviene finanche dal dolore.
Il risultato è un bollettino di guerra: coinvolti i legamenti, il menisco esterno, la capsula e c’è un distacco osteo-cartilagineo del condilo femorale interno.
Deve operarsi, conscio che sono tempi nei quali un semplice menisco ti teneva fuori per mesi, altro che i 25 giorni di Franco Baresi che gli consentirono di partecipare ai mondiali USA nel 1994, benché fosse infortunato!
Kawasaki ha, però, una forza interna che fa il pari con quella potenza che esprime sul rettangolo di gioco.
Nel cuore ha “quel volo di gabbiani” cantato dai Cugini di Campagna e non ha nessuna voglia di mollare.
Ha annichilito il polacco Lato, reso a miti consigli Causio e chiunque gli si parasse di fronte su quella fascia, non possono fargli paura gesso prima e fisioterapia, rieducazione e pesi in palestra.
Così che, pochi mesi dopo torna in campo.
È come un secondo esordio, anche per via della quasi coincidenza delle date.
È il 17 Aprile del 1977, lui che aveva esordito il 19 Aprile del 1973 in Serie A.
Sembra un segno del destino, è l’ennesima beffa.
Il campionato termina, non lo stesso il gonfiore al ginocchio.
Nonostante questo Rocca deve partire per una tournée in Usa con la Roma.
E deve giocare, non fosse altro che per motivi contrattuali, visto che è il giocatore più richiesto.
La prima partita va uno schifo, pochi minuti e Francesco è costretto a farsi sostituire.
Nella seconda, Kawasaki parte dalla panchina ma, per i motivi detti sopra, è costretto a entrare nel secondo tempo.
Un lancio lungo dalle retrovie, Rocca pronto a fare quello che gli è riuscito naturale mille volte, con ferocia indomita: scattare sulla fascia!
È il primo scatto di Francesco in quella partita, forse sarà l’ultimo del Rocca calciatore.
Kawasaki si ferma di colpo, il ginocchio ha ceduto ancora una volta.
Le lacrime di Rocca sono le lacrime di chi ha capito tutto.
Hanno l’amaro sottofondo del restante della strofa dei cugini di Campagna “…ma un corpo di chi ha detto troppi sì/ Negli occhi la paura del domani”.
Nei seguenti cinque anni seguiranno altre cinque operazioni, più o meno riuscite, errori sulla sua pelle, su quel maledetto ginocchio.
Seguiranno altre rieducazioni, altra fatica da fare, sudore e lacrime che si mescoleranno, rientri speranzosi vanificati da verdetti impietosi.
È il 3 agosto del 1981, quando Francesco Rocca dirà basta, a soli 27 anni.
«Per il mio ginocchio ormai non ci sono più possibilità di un recupero serio – spiega quel giorno Kawasaki – e allora, con grande rimpianto, ho deciso di abbandonare l’attività. Ho preso questa decisione e mi sembra che la testa mi scoppi. È il momento più brutto della mia vita, anche più brutto di quella lunga serie di cinque interventi fatti su questo ginocchio sinistro»
Forse la sua carriera si è interrotta prima, a 22 anni, in quella maledetta domenica di ottobre.
A niente gli è servita la sua indissolubile etica del lavoro, la sua feroce tenacia nel conseguire un obiettivo, l’abitudine al sacrificio, la forza immensa d’animo contro un destino barbaro che lo ha spazzato via nel tempo di una canzone, “Anima mia” per l’appunto.
Che ha un testo che inizia racchiudendo l’intera sua carriera, un testo che inizia come finisce la corsa di Kawasaki.
È il 29 agosto 1981, a Francesco “Kawasaki” Rocca viene concessa l’ultima passerella all’Olimpico, un amichevole contro l’International di Porto Alegre dell’ottavo re di Roma, Paulo Roberto Falcao.
C’è un Olimpico pieno per tributare il saluto al suo sfortunato gladiatore, forse la speranza di vederlo macinare di nuovo quella fascia per 90 minuti, spezzare un incubo.
Migliaia di voci rauche, catartiche, invocano il nome di Francesco come un mantra a esorcizzare quel malefico sortilegio.
Niente, 20 minuti e Francesco deve arrendersi.
«Questo pubblico mi ha ripagato di tutte le sofferenze, ero sicuro che i tifosi mi volessero bene, ma non fino a questo punto» dice Kawasaki, braccia levate e lacrime copiose sul viso pallido a salutare quei tifosi, segno di quell’amore breve ma potente e indomito come lo è stato lui sui campi di calcio
ROCCA OGGI
«Chi, più di Francesco Rocca, sarebbe stato l’uomo ideale per la mia Nazionale? Un fisico da leone, un fiato da vendere, uno stantuffo che mi avrebbe permesso di marcare con durezza un uomo e di piantare una spina nel fianco di qualunque difesa. Lo perdiamo per via di un ginocchio a pezzi dopo che avevo deciso che lui era uno dei punti fermi della mia Nazionale» dirà di lui Bearzot.
Francesco non può separarsi dal calcio, Francesco è calcio.
Farà il dirigente della Roma, dalla quale poi si separerà da amante tradito.
Fara il selezionatore delle nazionali giovanili, con l’unico rammarico di non aver avuto mai una vera possibilità per dimostrare quanto valga veramente.
Ha un carattere spigoloso e una cultura del lavoro quasi fanatica, due cose che non sembrano tanto andare d’accordo con un mondo del calcio che ha perso forse la cultura del sacrificio.
Ma lui, ancora oggi continua a ad avere “quel viso alto che il mondo sfida”, un po’ più smagrito, un po’ più segnato e che gli permette di fare spallucce a infami striscioni (“Zaniolo come Rocca…Zoppo di Roma” esposto da tifosi laziali) che accomuna la sfortuna di un giovane calciatore alla sua.
Giovani calciatori ai quali non ha mai fatto mancare il suo sostegno, un suo consiglio.
«In 27 anni di carriera da allenatore e preparatore nessuno dei miei ragazzi ha mai patito un infortunio muscolare. Zero assoluto. Ho passato le notti sui libri di biomeccanica e su quelli sull’alimentazione e il mio lavoro sul campo è sempre stato mirato. Dicono che facevo allenamenti durissimi. È vero, ma conoscevo sempre fin dove potermi spingere. Vi sembra un record da poco?»
Feroce nell’apprendimento, tenace nel migliorarsi come lo sapeva essere solo lui sul campo.
Corsa e lavoro, sacrifico e sudore, le cose che Francesco Rocca conosce meglio.
Si è fatto male più volte, è ritornato più volte, è stato curato male più volte.
Con la continua caparbietà e forza d’animo di chi ci vuole provare fino alla fine a non gettare la spugna.
Quella borsa di ghiaccio su quella gamba martoriata, ancora oggi, forse è la miglior medaglia che possa appuntarsi.
Una medaglia che parla di dolore e paura, ma anche di una straordinaria storia di valori morali, etica e dignità.