Storie di Calcio

Gaetano Scirea: il libero gentile

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Gaetano Scirea, parte 1: la vita

“Mi chiamo Gaetano, puoi vedermi se vuoi/ Gioco da libero in cielo, con la numero 6/ Fra tutte le stelle, quella che parla un po’ meno/ Ma prova elegante a brillare di un amore sincero/ E timidamente accenna un lieve sorriso/ Perché un avversario che ha perso, non va di certo deriso” (Mi chiamo Gaetano – di Giuseppe Fulcheri)

16 anni di carriera calcistica, iniziata con l’Atalanta e terminata con la Juventus con in mezzo 78 partite con la maglia azzurra dell’Italia. 7 campionati vinti, due Coppe Italia, tutto ciò che c’era da vincere in ambito europeo e internazionale di club con la perla di un titolo Mondiale per nazionali nell’82. Più di 700 partite giocate nel ruolo di difensore, solo 16 ammonizioni e nessuna espulsione. “Libero con il saio” lo definì Trapattoni. E forse Gaetano Scirea, perché di lui stiamo parlando, se non fosse stato un grande calciatore, avrebbe potuto facilmente diventare un frate di quelli in odore di santità.

Mai un atteggiamento scomposto in campo, mai la necessità di urlare, umile, sensibile, generoso e disponibile. Umano. O forse sovraumano. Un angelo, come lo ebbe a definire Enzo Bearzot: “La prima volta che stette in ritiro con me, a Lisbona con l’under 23, dissi che un ragazzo così era un angelo piovuto dal cielo. Non mi ero sbagliato. Ma lo hanno rivoluto indietro troppo presto”

In un Fiorentina-Juventus, dopo un fallo di uno dei suoi compagni di squadra e la stizzita risposta degli avversari, redarguì entrambe le parti: “Le vostre mogli vi guardano!”

Un fuoriclasse non solo nel calcio ma nella vita di tutti i giorni. Il tutto condito con una eleganza calcistica che appartiene ai numeri “10” nel calcio. Lui l’ha portata nella sua area di rigore, diventando un “trequartista” della difesa.

Un libero insuperabile

Libero insuperabile in difesa, centrocampista sofisticato quando impostava, e fine finalizzatore quando serviva come dimostrano le 40 reti che, per un difensore non sono poche. La versione tutta italiana di un altro grande, molto simile, per inizi calcistici, classe e ruolo: Franz Beckenbauer. Inutile ripercorrere la sua magnifica carriera, snocciolando anni, numeri e trionfi. Ci sono giocatori che, nell’immaginario collettivo e superando le barriere del tifo, vanno al di là dei titoli vinti, delle reti segnate, delle vittorie e delle sconfitte.

Sono, guarda caso, spesso i Capitani, quella con la “C” ( e forse anche tutto il resto) maiuscola, di club avversari ma ai quali vengono riconosciuti valori morali che vanno al di là dei meriti sportivi. Picchi, Riva, Di Bartolomei, Dino Zoff, Scirea per l’appunto, i primi nomi che mi vengono in mente, senza far torto ad altri. I trofei veri, per questi uomini, sono le parole dei compagni e degli avversari in campo, degli allenatori, dei dirigenti, dei semplici tifosi. Segna due goal in un derby col Torino, una delle poche volte che esterna la sua gioia al di là del solito aplomb.

E’ l’eccezione che conferma la regola. In un altro derby, in uno scontro forrtuito, rompe il setto nasale a Paolino Pulici che così ricorda il fatto: “ Quando mi risvegliai all’ospedale, dopo l’operazione, la prima faccia che vidi, oltre a quella di mia moglie, era di Scirea. Un grande, Gaetano”

La sua umiltà

Ha vinto tanto, ha perso il giusto (una finale di Coppa Campioni, ad esempio) ma sempre con la moderatezza di chi sa che il calcio resta un gioco, un sogno di un fanciullo diventato poi professione per un adulto. Puoi salire sul tetto del mondo  nel 1982 e rimanere umile, come testimonia Dino Zoff, altro esempio di rettitudine morale che precede la grandezza da calciatore:

“Dopo la finale, Gaetano mi aspettava in albergo. Mangiammo un boccone, bevemmo un bicchiere, ci sembrava sciocco festeggiare in modo clamoroso: mica si poteva andare a ballare, sarebbe stato come sporcare il momento. Tornammo in camera e ci sdraiammo sul letto, sfiniti da troppa felicità. Però la degustammo fino all’ ultima goccia, niente come lo sport sa dare gioie pazzesche che durano un attimo, e bisogna farlo durare nel cuore. Eravamo estasiati da quella gioia, inebetiti. […] “.

Inebititi, come noi tutti quella notte del 3 settembre 1989, sette anni dopo quel trionfo.

 

Gaetano Scirea, parte 2: la morte

“In fondo è solo una partita/ E pensa che strana, che assurda la vita/ Quel giorno in settembre che si è presentata/ Lontano da casa, su una strada d’Europa/ Come un arbitro è scesa, per dirmi è finita/ Poi un fuoco improvviso, più rosso di un lampo/ E quel cartellino mai preso sul campo/ Mi chiamo Gaetano, puoi vedermi se vuoi/ Gioco da libero in cielo, con la numero 6”. (Mi chiamo Gaetano – di Giuseppe Fulcheri)

“Con Gaetano Scirea se n’è andata una delle facce più pulite del nostro calcio” (Gianni Mura) 

E come tanti altri gentiluomini nel calcio (Picchi, Di Bartolomei ad esempio) Gaetano se ne va via improvvisamente, tragicamente, trovando, come in un beffardo contrappasso, un clamore che non ha mai cercato. Gaetano viene estirpato via dal calcio, dalle nostre vite e in un oceano di amare lacrime senza colore sportivo,  su una strada in Polonia, di ritorno dall’aver osservato, come vice allenatore del suo amico-fraterno Dino Zoff, i prossimi avversari della”sua” Juventus, il Gornik Zabrze, squadra più difficile da pronunciare che da affrontare. Stavolta non è lui a tamponare un attaccante avversario, ma un furgone a investire l’auto sulla quale viaggia per tornare a casa. 

Il cartellino rosso, quello che per sempre lo espelle dalla vita, è l’incendio che scoppia a bordo con Gaetano intrappolato, benchè illeso nell’urto, in quella Panda. Incapace per la prima volta di uscire,  come faceva sempre palla al piede, dalla sua area di rigore. 

Insieme ad altre due persone, morirà per le ustioni subito dopo i primi soccorsi.

Il destino, quello bastardo.

Già, perchè poteva partire qualche ora prima, e chissà che oggi non lo avremmo ancora qua. 

Il libero con il saio

Ma lui era il ““libero con il saio”, era domenica, e un ragazzo come Gaetano, ai quali tutti darebbero la propria figlia in sposa (cit. Sergio Brio), era voluto andare a Messa prima di partire.
Perchè Gaetano era così. Troppo perfetto per essere vero. Un angelo caduto dal cielo che se lo è ripreso troppo presto, invidioso della nostra fortuna da amanti del calcio.

La notizia raggiunge la famiglia, la moglie Mariella e il figlio Riccardo, noi tutti, di notte come nel peggiore degli incubi, attraverso la voce di Sandro Ciotti, resa ancora più roca del solito dall’immenso dolore:

“È inutile spendere parole su un uomo che si è illustrato da solo per tanti anni su tutti i campi del mondo, che ha conquistato un titolo mondiale con pieno merito, e soprattutto era un campione non soltanto di sport ma soprattutto di civiltà.“ (Domenica Sportiva, 3 settembre 1989).

Gaetano Scirea, parte 3: la sua eredità

“Mi chiamo Gaetano, gentiluomo in difesa/ Tra i piedi una palla e in mano, in mano una rosa/ Mi puoi ritrovare nei silenzi dell’alba/ Non ho mai amato il rumore, le luci della ribalta/ Io continuo a giocare nel cuore di ogni bambino/ E se anche mi ha fatto del male, l’ho perdonato il destino”. (Mi chiamo Gaetano – di Giuseppe Fulcheri)

Cosa lascia Gaetano a chi ama il calcio? La sua semplicità, la sua umiltà, la sua grandezza d’animo, la sua umanità.

Cose che fanno a pugni con il mercanteggiare di oggi di dirigenti,  procuratori e giocatori. La rabbia che si riversa in campo di genitori che vedono nei loro figli conti bancari piuttosto che ragazzini che devono inseguire un sogno e vada come vada. Gli scandali che affliggono questo mondo tanto dorato quanto dannato. Un mondo, non solo calcistico, diventato caotico, fatto di dichiarazioni assurde, velenose, di valori azzerati, di visibilità ricercata. Un mondo dove gli Agostino, i Gaetano avrebbero potuto essere esempi per i ragazzi. Avrebbero potuto spiegargli che correre dietro a un pallone è ancora il gioco più bello del mondo. Rimane, però, il mestiere più stupido, più insignificante se non trasporti sul campo dei valori che vadano al di là di un goal, di un tackle, di una parata.

Ci lascia in eredità il suo essere semplicemente un bravo ragazzo. Fatto di gesti misurati, di silenzi che dicono tutto più di tante parole vacue. Ecco, forse ciò che veramente ci mancano sono i suoi silenzi.

GLIEROIDELCALCIO.COM (Antonio Mattera)

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