GLIEROIDELCALCIO.COM (Massimo Prati) – Alcuni di voi forse ricorderanno la scena di “Quadrophenia” in cui due mods arrivano a Brighton e cercano un riparo per la notte. Trovano un locale abbandonato e privo di illuminazione, in cui dormono già altri ragazzi, e si ci infilano. Ma il mattino seguente i due mods scoprono che i ragazzi in questione appartengono alla banda rivale, quella dei rockers. Alla fine riusciranno a salvarsi solo facendo finta di essere ancora addormentati, ben imbacuccati dentro i loro sacchi a pelo.
È una brutta sensazione, quella di risvegliarsi una mattina nella tana del proprio nemico. Io quella sensazione l’ho vissuta per circa trent’anni.
Tutto nacque da un errore di fondo. Un genoano non avrebbe mai dovuto stabilirsi a Sampierdarena, centro nevralgico del tifo avverso. Cosa che, invece, fece mio padre, genoano e genovese cresciuto prima nel vecchio quartiere di via Madre di Dio, e poi al Molo, nei pressi di Porta Siberia, nel centro di Genova (i famosi “caruggi“, i vicoli della città vecchia raccolti intorno al porto antico). Era l’estate del 1962 e mio padre, appena sposato, trovò casa in Via Walter Fillak, nel rione del Campasso a Sampierdarena, nella periferia industriale della città.
La fede calcistica, come per la stragrande maggioranza dei genoani, era una questione di tradizione familiare. Mio padre l’aveva ereditata da un suo zio, il “barba” Tillio. Io ho ereditato quella fede da mio padre, ed essendo nato e cresciuto a Sampierdarena, ho dovuto presto imparare a difenderla in un territorio calcisticamente ostile.
Sono nato nel 1963. A volte mi sembra che la mia generazione sia stata come sospesa in mezzo a due epoche. Siamo nati nel periodo del “boomeconomico“ e del consumismo, della rivoluzione dei costumi, dell’imporsi della televisione e degli eventi di massa: i lanci spaziali, le contestazioni studentesche, i mega concerti, le partite di coppa in eurovisione, i campionati di Città del Messico o i grandi incontri di pugilato in mondovisione (Cassius Clay-Frazier, Monzon-Benvenuti). In qualche parte degli Stati Uniti, probabilmente, in quegli anni si stavano già progettando i primi “personal computer”.
Eppure, se guardo indietro nel tempo, vedo ancora il pescivendolo che spinge a mano il carretto, lungo il viale, al grido di “Ancioe!” (acciughe !) e lo spazzino che, quando è il momento di portar giù la “rumenta”, cioè la spazzatura, entra nel nostro cortile e chiama a raccolta le massaie suonando una trombetta, oppure il carro a cavalli pieno di sacchi di iuta che dal porto si dirige verso Certosa, o ancora la fabbrica del ghiaccio a San Teodoro e i diurni in via Sampierdarena (eh sì, perché erano anni in cui mica tutti avevano il bagno o il frigo in casa).
Oggi, nell’epoca della globalizzazione, questo rione di Sampierdarena per certi aspetti assomiglia più ad un “barriolatino“ che ad un borgo genovese: una volta c’era il fruttivendolo, Gino il “bisagnino”, e d’estate ti compravi le “perseghe” o la “pateca” (cioè le pesche o l’anguria), oggi c’è la “tienda de frutas y hortalizas de Miguel”, che vende il platano, il mango, e l’avocado. È il segno dei tempi, anche se continuo a preferire le “perseghe” e, soprattutto, la “pateca”. Migliaia di ecuadoriani sono venuti a stabilirsi da queste parti. Ma spero e penso che possano vivere in armonia con gli italiani. Del resto, in un mondo in cui milioni di persone si spostano da un continente all’altro, l’unica speranza di pace è che si possano trovare nuove forme di convivenza e rispetto tra le varie culture.
Ma io ho ancora in mente come era il quartiere negli anni Sessanta, quando si faceva la coda per comprare la farinata normale, quella con le cipolle, quella con i bianchetti oppure quella fatta con la farina di castagne (la “castagninn-a”), nella bottega all’altezza di Piazza Palmetta, e c’erano ancora molti operai della “töre di ballin” (la torre dei pallini: la vecchia fonderia) che facevano colazione con la focaccia e il brodo di trippa, sui tavoli scolpiti nel marmo della tripperia di piazza Masnata (che allora, senza badare alla toponomastica, la gente del posto chiamava semplicemente “a Ciassa de San Martin”: la Piazza di San Martino).
È in quel periodo che ho iniziato ad amare il Genoa: tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta. In realtà ero stato a vedere il Genoa anche prima, ma non me ne ricordo. Ad essere precisi, sono stato in Gradinata Nord prima ancora di nascere, perché mio padre andava alla partita con mia madre incinta. Ma questo forse non fa testo… …o forse sì. Forse, le prime vibrazioni che solo la Nord sa trasmettere ho iniziato a percepirle prima ancora di venire alla luce.
Erano anni mitici. Lo so che si dice così di qualsiasi epoca, ma come non definire mitico un periodo in cui calcava i campi di gioco un fenomeno chiamato Edson Arantes do Nascimento, in arte Pelè? E poi Jairzinho, Rivelino, ma anche Gianni Rivera e Sandro Mazzola, o Bonimba e Domingo, Helmut Haller e Karl Schnellinger. E ancora Jair, Amarildo, Nené. Io però impazzivo per Sidio Corradi, per Ramon Turone e per Attilio Perotti: tutti giocatori del Genoa di quand’ero bambino.
Devo dire che in quegli anni, pur abitando in una zona a prevalenza blucerchiata, non avevo moltissimi compagni sampdoriani. Certo, ce n’erano un po’, ma la maggior parte dei miei coetanei stava con l’Inter, la Juve, il Milan, qualcuno con il Napoli o con il Palermo, e qualcuno addirittura non aveva mai visto una partita di calcio (fino a quando mio padre, con il permesso dei suoi genitori, non decise di portarlo alla partita con noi).
Poi, improvvisamente, alla fine degli anni Settanta e soprattutto negli Ottanta, con i successi calcistici dell’era Mantovani, tutti si scoprirono sampdoriani fino al midollo. Ma che passione può essere quella di chi salta sul carro del vincitore?
È questo che mi ha fatto sempre sentire profondamente orgoglioso di essere un genoano: il fatto di non essere un tifoso dell’ultima ora. Il fatto di non legare la passione ai successi calcistici. Il fatto di avere una storia, perché, come diceva spesso mio padre, un uomo senza storia è come il pesto senza basilico.
Mi è capitato una volta di parlare con un amico sampdoriano, mio coetaneo, e ricordare uno dei tanti gol di culo che ci hanno fatto nei derby (la casistica in merito è certamente nutrita: si va dalle rovesciate di Maraschi all’ultimo minuto, alle svirgolate di Genzano che assumevano traiettorie imprevedibili e diventavano tiri micidiali). Nella fattispecie si trattava del gol di Gigi Del Neri (con un tiro effettuato direttamente dalla bandierina del calcio d’angolo, sotto la sud lato distinti, in un derby del 1980, se non mi sbaglio). Ebbene, con un certo stupore ho scoperto che il mio interlocutore non era nemmeno al corrente del fatto che Gigi Del Neri avesse giocato nella sua squadra del cuore (quelli lì hanno una memoria storica che non va più indietro della settimana appena passata, al massimo si ricordano di Vialli e Mancini, se parli loro di Battara, Cristin, Sabadini o Morini ti guardano come se stessi parlando arabo).
E a fronte di tutto questo, mi viene in mente come per noi, che stiamo col Vecchio Grifo, siano importanti anche i giocatori e gli allenatori di cui ci hanno parlato i nostri padri o i nostri nonni: il mitico Dottor Spensley, figura centrale del nostro club e John Quertier Le Pelley, centrocampista della squadra dei primi scudetti; Percy Walsingham, proveniente dal Millwall: la squadra dei quartieri “caldi” del sud di Londra; William Garbutt il primo “mister” nella storia del calcio italiano e Giovanni De Prà, mitico portiere degli anni Venti; Renzo De Vecchi “Figlio di Dio” e Guillermo Stabile “El Filtrador” (che i vecchi genoani assicurano essere stato il miglior rossoblù di tutti i tempi); e poi, ancora, Virgilio Levratto che sfondava le reti, Juan Carlos Verdeal, Riccardo Carapellese, e lo sfortunato Gigi Meroni.
Era sempre stato un rammarico per me non avere mai visto giocare “El Pardo”, cioè Julio Cesar Abbadie, di cui mio padre mi parlava entusiasticamente (ricordo che quando mi raccontava del derby del 1957, vinto per merito suo, gli brillavano gli occhi dalla contentezza). Era un grande calciatore, l’uruguagio, e a giusto titolo viene citato sin dalla prima pagina (e sottolineo il fatto che si tratta della pagina numero uno) di quello che forse è il libro più intelligente, divertente ed interessante mai scritto sul gioco del football: “Splendori e Miserie del Gioco del Calcio”.
Poi, in occasione del centenario del Grifo e della pubblicazione di una videocassetta sulla storia del Genoa, ebbi l’opportunità di vedere l’uruguaiano all’opera e allora compresi perché mio padre, Eduardo Galeano (l’autore del suddetto libro), e chissà quante altre migliaia di persone ancora, a Genova come a Montevideo, si erano entusiasmate per quel giocatore che “faceva scorrere la palla sulla linea bianca laterale e si lanciava con gli stivali delle sette leghe distendendosi senza sfiorare il pallone né toccare i propri avversari”.
Insomma, era un calciatore ammirato ed applaudito anche dagli avversari del Peñarol (il club dove Abbadie era cresciuto), cioè i tifosi del Nacional di Montevideo, squadra – quest’ultima – che una quarantina di anni dopo (o poco meno) avrebbe lanciato un altro futuro grande campione del Genoa, Carlos Aguilera detto “Il Pato” (che, tra le altre cose, si sarebbe rivelato determinante nel battere il Liverpool all’Anfield Road).
Il Genoa, Genova, Montevideo, Buenos Aires, l’America Latina. È un rapporto oramai secolare, che ha lasciato traccia di sé anche nella letteratura sudamericana. Non solo in quel “Splendori e Miserie del Gioco del Calcio” appena citato (e dove, naturalmente, Abbadie rientrava nella categoria degli splendori), ma anche in “Fútbol”, la raccolta di racconti del giornalista sportivo e scrittore argentino Osvaldo Soriano, in cui un agguerrito anarchico genovese guidava la squadra nazionale italiana in un fantomatico e surreale campionato del mondo, giocato nella Patagonia argentina del 1942. È un grande feeling, quello tra il Grifo e gli scrittori sudamericani: ricordo ancora lo scrittore cileno Luis Sepúlveda festeggiare, una ventina di anni fa, il proprio compleanno con la sciarpa del Genoa al collo (e per di più al teatro Gustavo Modena di Sampierdarena). E poi, ancora, Paco Ignacio Taibo II, lo scrittore naturalizzato messicano che, in due interviste a Repubblica, nel 2003 e nel 2008, dichiara il suo amore per il Genoa. Qui, riporto alcuni passaggi della prima, quella del 18/09/2003: “La squadra più antica e gloriosa d’Italia che finisce in serie C. Che decadenza. Mi sono innamorato subito. Mettimi tra i tifosi rossoblu. Avete le bandiere del Che, vero? Sì, questo Genoa sembra la squadra giusta per i tipi come me. Ci vediamo allo stadio, compare. Forza Genoa!, scrivilo grosso”.
Parli del Genoa e dell’Argentina, e allora viene alla mente la tournée sudamericana del 1923 e la sfida dei nostri contro la nazionale a Buenos Aires.
Buenos Aires, la città dove ci sono altri genovesi, o come dicono loro: “xeneizes”; cioè quelli del Boca Juniors, la squadra in cui ha militato, tra gli altri, Diego Armando Maradona, “El Pibe de Oro”. Ma anche la squadra i cui nomi dei fondatori e dei primi giocatori sono già di per sé indicativi del loro luogo di origine: Pedemonte, Moltedo, Bricchetto, Baglietto, Carrega, ecc. D’altra parte, la squadra rivale del Boca, il River Plate, non è che abbia origini meno genovesi. Anzi, ad essere precisi i sopraccitati Moltedo e Carrega prima di giocare nel Boca giocarono proprio nel River, sotto la guida del presidente Salvarezza e del tesoriere Ratto, anch’essi originari della nostra città.
La storia di Genova e del Genoa è tutto questo e tanto altro ancora. Il Genoa è l’anima sanguigna, coriacea, ribelle e popolare della città. Agli altri i personaggi patinati e precisini, tipo Fabio Fazio e Corrado Tedeschi, a noi la scorza dura e la mente libera di Fabrizio De Andrè o la simpatia e la spontaneità di Don Andrea Gallo.
Il Genoa è la vecchia “lalla”, la vecchia zia, che quando la vai a trovare ti guarda e ti chiede: “Comme anemmo…?” (“Come va?”), e poi senza aspettare la risposta aggiunge: “…e o Zena?” (“..e il Genoa”). E non ti fa finire di rispondere alla prima domanda perché sa che la prima risposta non è separata dalla seconda, nel senso che se il Genoa non sta andando bene, allora anche tu non stai andando completamente bene.
Il Genoa è il ricordo dei compagni di scuola del Firpo, l’Istituto Turistico, a quei tempi frequentato anche da uno dei migliori terzini del Grifo: Sebino Nela. È il ricordo degli appuntamenti alla domenica (niente anticipi, niente posticipi) per andare tutti insieme alla partita. Ci si vede in piazza, a De Ferrari; lì quelli dei “Caruggi”, di Ravecca, le Erbe e San Bernardo -che stanno a due passi- aspettano gli altri che arrivano dall’entroterra, dai quartieri alti o dal ponente della città: da Sestri, da Sampe, da Ronco o da Oregina e poi, in gradinata, ci si unisce a quelli di Prato e Molassana che, abitando vicino allo stadio, arrivano sempre per primi.
Il Genoa è il rapporto di amicizia che hai costruito con quei vecchi compagni di scuola con i quali continui ad andare allo stadio da più di quarant’anni.
Il Genoa è la lingua inglese, la lingua della nazione che ha inventato il gioco del football. E allora mi vengono in mente i vecchi genoani che dicono “out”, “off-side” e “pennarchi” oppure “pennarty” (storpiando la parola “penalty”) per dire rispettivamente “fuori”, “fuori gioco” e “rigore”. E allora mi viene in mente mio zio che aveva imparato l’inglese negli anni Cinquanta, a bordo della nave Andrea Doria, ascoltando le canzoni di Little Richard sulla rotta tra Genova e New York, e che mischiando genovese, italiano e inglese diceva spesso: “Se dixe Zena, vuol dire Genova,but write it Genoa”. Si dice Zena, vuol dire Genova ma si scrive Genoa.
Il Genoa è la lingua genovese, quella che non sono abituato a parlare (e ancor meno a scrivere, senza l’aiuto di un dizionario), perché mio padre e mia nonna mi dicevano “studia e impara l’italiano, che altrimenti resti ignorante”. Ma che è la lingua del cuore, quella che ho sempre sentito parlare in casa tra mio padre e mia nonna, ed è quella che mi commuove o mi diverte (a seconda dei casi) ogni volta che la sento parlare in gradinata
E allora mi vengono in mente i mille frammenti di commenti in dialetto ascoltati allo stadio Luigi Ferraris. Come quando a margine di un derby agli inizi degli anni Ottanta, un amico di Sestri Ponente, commentando l’ennesima prova incolore -a livello di cori- effettuata dalla gradinata sud, mi disse: “I doriani g’han ûn sciôu che no asmortan manco ûn bricchetto” (traduco per i non genovesi: “I doriani hanno talmente poco fiato che non sarebbero in grado di spegnere neanche un fiammifero“).
Oppure mi viene mente il commento sarcastico, ma irreprensibile, di un vecchio genoano di fronte ad uno dei tanti “bidoni” stranieri: “E no ghe n’aveivimo zà a basta de grammi nostrani, ne mancavan anche i foresti“ (Come se non avessimo già avuto abbastanza giocatori scarsi nostrani, ci mancavano anche gli stranieri).
Ma, il commento in dialetto che forse fotografa meglio la fede smodata, cieca e irrazionale nei confronti del Vecchio Grifo è stato quello che ho sentito dire allo stadio durante una giornata dal tempo variabile, e dal risultato per noi piuttosto improbabile (credo fosse un Genoa-Cagliari del 1982): “Primma ciêuve… poi sciorte o sô… o Zena guägna trei a zero… no ghe capiscio ciù ûn belin“ (“Prima piove…. poi esce il sole… il Genoa vince tre a zero… non ci capisco più un ca…).
Siamo così: siamo talmente abituati ai dispiaceri che ci riserva la nostra squadra del cuore che quando il destino ci dispensa qualche sporadica gioia rimaniamo disorientati, increduli, attoniti. Eppure, o forse proprio per questo, il tempo passa e noi continuiamo gioiosi ad innalzare i nostri colori e a cantare felici le nostre canzoni. E, a partire da questo 7 settembre 2020, fanno 127 anni. Scusate se è poco.