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Germania 2024: Euro storie

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Germania 2024: Euro storie

Le grandi competizioni sportive da sempre arricchiscono la loro leggenda grazie alle grandi e piccole storie che i tanti personaggi che le vivono inevitabilmente generano.

I Giochi Olimpici e i campionati del mondo di calcio sono le manifestazioni più ecumeniche e ricche, da questo punto di vista, di tutte, grazie veramente al coinvolgimento mondiale che comportano, ma anche quelle più “piccole” finiscono per avere le loro storie, come i campionati europei di calcio che vanno ad iniziare.

Una manifestazione limitata al continente europeo, ma comunque coinvolgente urbi et orbi per i grandi campioni che mette in mostra, che ha avuto una genesi travagliata e recente tra quelle continentali.

Addirittura al 1916 risale la prima edizione della Copa America, troppe guerre avevano funestato la Vecchia Europa perché si potesse pensare ad un torneo unico continentale, questo fu possibile solo alla fine degli anni Cinquanta, quando si raggiunse una pace almeno apparente. E che fosse apparente lo dimostra la stessa prima edizione del 1960, allorché alle semifinali del mini torneo da disputarsi in Francia si qualificò l’Unione Sovietica senza colpo ferire: abbinata alla Spagna, arrivò l’ordine perentorio del governo franchista di non andare a Mosca, le Furie Rosse furono costrette al ritiro e i sovietici arrivarono fino in finale, vincendo davanti a poche migliaia di spettatori quella prima edizione della coppa “Henri Delauney”, come è denominato il trofeo.

 

La sfida si sarebbe rinnovata di nuovo all’atto finale dell’edizione del 1964 proprio in Spagna, in questo caso i “rossi”  sovietici non si fecero problemi a giocare in casa del Generalissimo Franco, pur perdendo, con Luisito Suarez sugli scudi per gli iberici.

Nel 1968 toccò all’Italia, appena uscita dalla sconfitta coreana al mondiale inglese del 1966. Qualificatisi per il torneo finale da disputarsi proprio nel Bel Paese, gli azzurri di Ferruccio Valcareggi si ritrovarono l’Urss, ancora lei, in semifinale e per superarla dovettero affidarsi alla buona stella di capitan Giacinto Facchetti, che fece la scelta giusta al lancio della monetina, essendo da venire i tiri di rigore. Non solo: in finale l’Italia si trovò di fronte la forte Jugoslavia, il regolamento dell’epoca nelle gare che assegnavano titoli prevedevano la ripetizione in caso di pareggio dopo i supplementari, così fu quella volta, con il trionfo azzurro al secondo match grazie a Gigi Riva e Pietro Anastasi.

Giacinto Facchetti, capitano dell’Italia vincitrice dell’Europeo ’68. (AP Photo)

Ancora i sovietici, che evidentemente avevano una nazionale di rilievo in quegli anni, potendo contare nelle varie edizioni su campioni conclamati, Lev Jašin su tutti, protagonisti nel 1972 fino alla finale in Belgio, dove a sbarrare loro la strada fu stavolta la Germania Ovest di Franz Beckenbauer, dominatrice assoluta in quegli anni, vincendo anche il mondiale casalingo del 1974 e arrivando in finale pure all’europeo in Jugoslavia nel 1976.

Qui all’ultimo atto si trovarono di fronte la Cecoslovacchia, il pareggio portò, essendo nel frattempo cambiate le regole, ai tiri di rigore, forse inventati proprio da un arbitro tedesco all’inizio degli anni Settanta. Un momento storico, quindi, anche perché ci fu il primo “cucchiaio”, al rigore decisivo, quello di Antonin Panenka, che pensò di risolvere così, in modo spettacolare, la contesa, dando la vittoria alla propria nazionale.

Poco male, i tedeschi si sarebbero rifatti in Italia quattro anni dopo, nella prima edizione che vide la fase finale allargata a otto nazionali, con l’Italia di Enzo Bearzot protagonista mancata, decimata, soprattutto in attacco, dalle squalifiche per il calcio scommesse. Gli azzurri arrivarono quarti, sconfitti nella finale di consolazione dalla Cecoslovacchia, vincente di nuovo dopo un’interminabile serie di tiri di rigore.

L’edizione francese del 1984 inaugurò un ciclo di vittorie non pronosticate: in quell’anno si colmò il primo “errore storico”, che aveva visto la Francia regalare competizioni e grandi dirigenti al calcio, Jules Rimet, Henri Delauney, ma mai vincente. Fu l’estro di Le Roi Michel Platini a guidare i transalpini a iscrivere per la prima volta il loro nome in un Albo d’Oro, così come quattro anni dopo fu quello di Marco Van Basten a regalare all’Olanda il primo, e finora unico, alloro internazionale, colmando il secondo errore storico. Dopo due finali mondiali perse (1974 e 1978, poi sarebbe venuta quella del 2010 in Sud Africa), finalmente il “calcio totale” raggiungeva la gloria, senza più il suo mentore in campo, Johan Cruijff, ma ancora con Rinus Michels in panchina.

Nel 1992 ci fu la prima grande sorpresa nella storia di tutta la competizione.  La caduta del muro di Berlino nel 1990 aveva portato alla disgregazione dell’Unione Sovietica e di tutti i paesi del blocco orientale suoi satelliti, mentre nella maggior parte dei casi la ritrovata autonomia fu raggiunta in maniera incruenta, non così capitò in Jugoslavia, dove si scatenò quella passata alla storia come guerra dei Balcani, i cui orrori e genocidi portarono all’esclusione della nazionale plava, che si era qualificata per il torneo finale in Svezia.

Fu ripescata la Danimarca, i cui giocatori erano già in vacanza, e fu l’inizio della favola, che condusse la Danish Dynamite, come fu ribattezzata, fino alla vittoria sulla Germania in finale.  Due curiosità per questa edizione: i tedeschi per la prima volta dal dopoguerra si presentavano al proscenio internazionale come unica nazione; particolarmente toccante la storia di Kim Vilfort, centrocampista danese, autore della seconda rete in finale, che fece la spola tra la Svezia e la Danimarca, al capezzale della figlia Line che lottava, purtroppo poi perdendo, contro una grave forma di leucemia.

La disgregazione sovietica aveva portato a un aumento delle nazioni europee, il che portò l’Uefa, dall’edizione del 1996 in Inghilterra, a raddoppiare il numero di partecipanti alla fase finale, da otto a sedici. Trent’anni dopo  vittoria del mondiale del 1966 in patria, gli inglesi sognavano di bissare quel successo in Europa, ma il sogno doveva spegnersi in semifinale contro la Germania, che poté alzare la sua terza, e per ora ultima, coppa Europa grazie al golden goal di Oliver Bierhoff.

Il golden goal, voluto dalla Fifa nel 1993 per dare la vittoria alla prima squadra che segnasse nei tempi supplementari prima dei tiri di rigore in una gara di spareggio o finale avrebbe, dolorosamente per noi, deciso anche l’ultimo atto dell’Europeo che apriva il nuovo secolo. Organizzato per la prima volta in due nazioni, Belgio e Olanda, vide l’Italia arrivare in finale grazie alle prodezze sui rigori di Francesco Toldo nella semifinale contro l’Olanda, dominare anche la finale contro la Francia, ma cedere per il pareggio di Sylvain Wiltord in pieno recupero e il golden goal di David Trezeguet a inizio primo supplementare.

La seconda sorpresa nella storia della competizione si ebbe nel 2004: organizzata in Portogallo, sembrava la grande occasione per i lusitani di alzare un trofeo con la nazionale, ipotesi che sembrava più che concreta quando in finale si ritrovarono, sorprendentemente, la Grecia. Mai gli ellenici si erano trovati a questi livelli, la loro nazionale era considerata meno di un’outsider, ma il lavoro del CT tedesco Otto Rehhagel aveva creato un gruppo granitico, tutto impostato sulla difensiva e pronto a colpire in contropiede. E così fu anche in quella finale, Aggelos Charisteas si travestì da dio greco e lasciò in lacrime un giovanissimo Cristiano Ronaldo.

Ancora doppia organizzazione per gli europei del 2008 e del 2012, che videro il dominio incontrastato della Spagna, finalmente vincente. In Austria e Ungheria gli spagnoli, sempre pieni di talento ma mai vera squadra, sostanzialmente divisi nei due blocchi rappresentati da Barcellona e Real Madrid, trovarono nel CT Luis Aragonés il demiurgo capace di trovare la formula giusta, e contro la Germania in finale sollevarono il loro secondo trofeo. Dopo aver ribadito anche al mondo la loro superiorità, vincendo il mondiale del 2010, in Polonia e Ucraina, con un nuovo commissario tecnico, Vicente Del Bosque, ma identici risultati, confermarono la loro forza superando l’Italia senza problemi, unica nazionale capace di vincere due edizioni consecutive.

Nel 2016 si allargò ancora il numero di partecipanti, salito a ventiquattro, e si ritornò in Francia per la terza volta, con favoriti i transalpini di Didier Deschamps, che si apprestavano a vincere il mondiale due anni dopo, ma in finale dovettero cedere al Portogallo, per la prima volta campione e con Cristiano Ronaldo che riuscì a incrementare il suo già ricco palmares anche con la maglia della nazionale.

L’edizione del 2020 era stata pensata itinerante dalla Uefa per festeggiare i sessant’anni dalla prima, ma l’Europa e il mondo intero si trovarono a fronteggiare un nemico molto più subdolo e pericoloso della guerra stessa: la pandemia. Non fu possibile giocare, l’edizione fu posticipata di un anno e il trionfo, alla fine, arrise alla giovane Italia di Roberto Mancini, in un cammino esaltante che la portò alla vittoria ai tiri di rigore con l’Inghilterra a Wembley. L’immagine più bella e commovente fu l’abbraccio tra Mancini e Luca Vialli, che di lì a poco ci avrebbe lasciato dopo una lunga malattia.

Dopo questo lungo racconto arriviamo all’attualità, la Germania organizzerà la fase finale per la prima volta da nazione unita, Francia, Inghilterra, Spagna, oltre ai padroni di casa, sono i principali sfidanti dell’Italia campione in carica, ora affidata a Luciano Spalletti, chiamato, magari, a regalare altre notti magiche all’intera nazione.

GLIEROIDELCALCIO.COM (Raffaele Ciccarelli)

 

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