Le Penne della S.I.S.S.

Géza Kertész: l’allenatore giusto

Published

on

Géza Kertész: l’allenatore Giusto

Negli anni di relativa e apparente pace che stiamo vivendo, dopo gli orrori della seconda guerra mondiale, il mito dell’eroe si è venuto trasformando, con il grande atleta che è diventato il simulacro da osannare. Ma cosa è l’eroe? “L’eroe è innanzitutto un uomo […], perché egli ha vissuto la condizione umana all’interno del mito e grazie a ciò può consentire agli uomini di specchiarsi nella sua immagine quando essi necessitano di stabilire un rapporto più intimo con il sacro”. (Grande Dizionario Enciclopedico UTET).

Un’altra caratteristica dell’eroe è quella di essere giusto, di agire secondo giustizia, di aiutare gli altri disinteressatamente, anche a costo della propria vita.  Molteplici sono gli esempi che si possono citare, molti vengono proprio dallo sport, forse anche perché gli sportivi, seguendo gli ideali che esso insegna, hanno già insita in loro questa caratteristica: essere giusti.

La storia che vogliamo raccontare parla proprio di uno di questi, durante l’atroce periodo del delirio nazista, che costò la vita a milioni di persone, ma tante riuscirono anche a salvarsi, grazie al prodigarsi di questi eroi misconosciuti.  Siamo in Ungheria, alla fine del 1800, precisamente nel 1894, quando a Budapest vede la luce Géza Kertész.

Era un’Europa che viveva la spensieratezza della Belle Epoque, l’Ungheria ne era uno dei suoi centri, anche se ambita e lacerata nel corso dei secoli, pagando la sua centralità geografica che ne fa, in pratica, l’ombelico d’Europa, ma anche il punto strategico di controllo geopolitico sottoposto in quel periodo all’influenza dell’impero austriaco e alle ingerenze russe prima e sovietiche poi. Tutte queste vicissitudini condizionarono fortemente la vita del paese, anche se non frenarono lo sviluppo intellettuale e artistico, che si riverberò pure nello sport: con quello austriaco e cecoslovacco, il calcio ungherese dette vita alla cosiddetta “scuola danubiana”, che rappresentava l’estensione sportiva della raffinatezza di quella cultura. 

Evoluzione del Sistema inglese, quel tipo di calcio privilegiava un gioco fraseggiato, basato sul dribbling game, che ebbe la sua sublimazione negli anni Cinquanta con la “doppia M” inventata da Gusztáv Sebes, anche se molto successo lo ebbe grazie alla presenza di grandi campioni, Nándor Hidegkuti su tutti, mente del trio formato con Sándor Kocsis e Ferenc Puskás.

È con questi presupposti che Kertész inizia e dipana la sua carriera di calciatore: nato centrocampista, si rivelò molto duttile nell’interpretazione del gioco, particolarmente tecnico ma anche molto lento, tanto da essere soprannominato “bradipo”, svolgendo la sua carriera principalmente tra il Budapesti Torna Club, una delle società sportive più importanti d’Ungheria di inizio Novecento, e il Ferencvárosi Torna Club, chiudendo la carriera agonistica in Italia, allo Spezia.

Fu con i liguri che iniziò a svolgere anche il ruolo di allenatore, vincendo subito il campionato di Seconda Divisione, sulla scia della già citata scuola danubiana che vide, tra gli altri, in Italia Jeno Károly alla Juventus e, soprattutto Arpád Weisz, dal destino tragico, e anche István Tóth-Potya, che avrebbe condiviso con lui l’ultima, drammatica, parte della sua vita. Kertész dallo Spezia passò alla Carrarese, e vinse nuovamente il campionato di Seconda Divisione. 

Dopo una tappa a Viareggio, Geza scese al Sud dell’Italia dove avrebbe svolto, in pratica, tutto il resto della sua carriera, tranne una stagione all’Atalanta. Forse il suo aspetto pacifico, la simpatia che ispiravano il suo sguardo furbo e la parlantina sciolta ma pacata, la sua cultura e intelligenza, furono quei tratti caratteriali che lo aiutarono a integrarsi bene al Sud della Penisola, iniziando alla Salernitana.

La simpatia che ispirava, però, si trasformava in intransigenza e cura dell’ordine che invocava come allenatore. Estremamente pignolo nella organizzazione degli allenamenti, fu tra i primi a puntare sulla preparazione atletica scientifica e sistematica delle sue squadre, come fu il primo a far svolgere il ritiro: accadde a Catania, con orari rigidamente cadenzati dallo stesso Kertész.

Grazie anche a questi sistemi innovativi, allo studio degli avversari e a un gioco via via sempre più tecnico, gli etnei divennero subito protagonisti vincendo il campionato di Seconda Divisione nel 1933/1934 bissando, Kertész, quello vinto con la Catanzarese la stagione precedente. Dopo la vittoria con i siciliani, passò al Taranto e fu di nuovo Serie B, quindi l’unica tappa al Nord, a Bergamo, dove nella stagione 1938/1939 arrivò a un passo dal conquistare la Serie A, persa nel finale di campionato a favore del Venezia.

Tutti questi successi, naturalmente, non passarono inosservati, e arrivò la chiamata anche nella massima serie: prima fu alla Lazio, con cui conquistò un buon quarto posto nel 1939/1940, poi alla Roma nella stagione 1942/1943, subentrando al connazionale Alfréd Schaffer, che aveva condotto i giallorossi allo scudetto l’anno prima.

Erano, però, gli anni in cui l’Europa ormai bruciava nel nome del delirio nazista.

Kertész, che in Italia allenò in pratica per tutto il ventennio fascista senza mai occuparsi di politica, sentì il richiamo della Patria, ormai solo teatro di battaglia tra l’Armata Rossa e le truppe tedesche che occuparono, con l’azione bellica denominata “Operazione Margarethe”, il territorio magiaro, instaurando il “solito” regime di terrore verso gli ebrei e i partigiani ungheresi.

È a questo punto che entrò in gioco Geza Kertész: al suo ritorno in patria, dopo aver forzatamente interrotta la carriera mentre era all’Ujpesti, fu contattato dal suo ex compagno al Ferencvarosi, István Tóth, che era stato un ottimo giocatore, attaccante delle Aquile Verdi, divenuto poi allenatore anche in Italia con trascorsi alla Triestina e all’Ambrosiana Inter subentrando al citato Arpád Weisz, che si avviava a morire nel campo di Auschwitz.

Tenente colonnello dell’esercito, nazionalista, insieme a Tóth formò un gruppo di resistenza e di aiuto per gli ebrei che si trovavano nel ghetto di Budapest, salvandone a centinaia dallo sterminio nei campi nazisti.

 

Sintomatico il nome dell’organizzazione resistenziale: “Gruppo Melodia”, quasi a voler evocare quell’ordine e quella pace che il mondo sembrava aver dimenticato in nome del genocidio e dell’orrore, quell’ordine stesso che era stato il suo credo, la sua stella polare nel suo mestiere di allenatore.

Il destino era, però, in agguato, il tradimento di una spia fece scoprire il gioco di Kertész e Tóth, il 6 febbraio 1945, nel freddo del cortile del castello di Buda, con l’Armata Rossa alle porte e il Terzo Reich agli ultimi singulti, il plotone d’esecuzione pose per sempre fine alle loro vite.

Solo una settimana dopo il conflitto sarebbe finito.

È a questo punto che il cerchio si chiude: avevamo iniziato scrivendo dell’eroismo, finiamo con un Eroe.

Il valore del sacrificio di Kertész e Tóth fu subito riconosciuto dagli ungheresi, sepolti nel cimitero dei Martiri della Patria, a migliaia parteciparono ai funerali, ma poi il governo comunista lasciò scivolare quasi nel dimenticatoio questa storia, a causa delle idee nazionaliste di Kertész.

La polvere del tempo non ha obliato il ricordo, però, negli anni Ottanta lo Yad Vashem, che si occupa di preservare la memoria della Shoah, riconobbe Géra Kertész come Giusto tra le Nazioni, ovvero quelle persone “gentili”, cioè non ebree, che durante l’Olocausto avevano aiutato gli ebrei anche a costo della propria vita. 

GLIEROIDELCALCIO.COM (Raffaele Ciccarelli)

più letti

Exit mobile version