La Penna degli Altri
Giacinto Facchetti, una vita in nero e azzurro
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6 anni agoon
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RedazioneSPORTHISTORIA (Giovanni Manenti) – Spesso, descrivendo la Storia di una disciplina sportiva, si è soliti distinguere “un prima ed un dopo” determinato dalla presenza di un atleta il cui modo di interpretare la stessa ne ha modificato i connotati, ed esempi al riguardo possono essere citati Mark Spitz per il Nuoto, Eddy Merckx riferito al Ciclismo, Muhammad Alì quale icona del Pugilato e financo Michael Jordan per ciò che riguarda il Basket.
Per il Calcio, Sport di squadra per eccellenza e che, pertanto, dovrebbe basarsi più sul collettivo che non sul singolo giocatore, è indubbio che uno “spartiacque” del genere non possa che essere stato il brasiliano Pelè, primo prototipo del calciatore totale, ma vi sono anche giocatori che hanno dato una loro diversa interpretazione di un singolo ruolo, modificandolo a futura memoria.
Uno di questi è il protagonista della nostra Storia odierna, grazie al quale il terzino – sino ad allora esclusivamente impegnato al controllo dell’ala avversaria – si trasforma in un attaccante aggiunto alimentando con sempre maggior continuità le azioni offensive sino ad andare egli stesso alla conclusione.
Il soggetto in questione, non ci vuol molto a capirlo, altri non è che Giacinto Facchetti, per il quale il tecnico interista Helenio Herrera inventa il ruolo di terzino fluidificante, potendo far leva sulle sue enormi qualità fisico atletiche, visto che per molti esperti della “Regina degli Sport”, il Calcio ha letteralmente “rubato” il buon Giacinto ad un radioso – ma senza dubbio molto meno remunerato – futuro sulle piste.
L’incedere di Facchetti sulla fascia sinistra del terreno di gioco fa sì che la contromossa tattica degli altri allenatori determini la creazione dell’ala tornante, vale a dire un esterno di centrocampo non più votato solo alla fase offensiva, ma capace anche di contenere le sgroppate dell’avanzante terzino, ad in una sorta di gioco se “sia nato prima l’uovo o la gallina”, in questo caso ci sentiamo di affermare, senza tema di smentita, che abbia prima visto la luce la figura del terzino fluidificante, con la seconda una semplice e logica conseguenza.
Nato a Treviglio il 18 luglio 1942, figlio di un ferroviere e di una casalinga, il Giacinto non tarda a mettersi in luce per le sue eccellenti doti fisiche (m.1,88 per 85kg.) che ne fanno un protagonista nei Campionati studenteschi di Atletica Leggera, tanto da riuscire a coprire i 100 metri in 11” netti, anche se, come tutti i ragazzi del suo periodo, non disdegna di prendere a calci un pallone e pertanto, dopo aver giocato nella Zanconti – Società giovanile del suo Paese di nascita – entra a far parte del settore giovanile della Trevigliese, all’epoca partecipante al Campionato lombardo Dilettanti.
La sua altezza fa sì che venga impiegato come attaccante, ma una volta segnalato agli osservatori di Atalanta ed Inter, con quest’ultima a spuntarla, è il “Mago” Herrera ad intuirne le enormi potenzialità come difensore di fascia, facendolo esordire in prima squadra addirittura in campo internazionale, risalendo il “battesimo del fuoco” al 3 maggio ’61 nella semifinale di ritorno di Coppa delle Fiere che i nerazzurri disputano in Inghilterra a Birmingham, venendo sconfitti per 1-2, stesso risultato con cui erano usciti battuti all’andata a San Siro.
Passano due settimane e mezza ed ecco il debutto in Campionato, un 2-0 all’Olimpico contro la Roma il 21 maggio ’61 al termine del quale, per zittire i critici che avevano trovato da ridire sulla prestazione non proprio convincente di quello spilungone che aveva preso il posto del titolare Mauro Gatti, Herrera se ne esce con una sentenza che lo fa dichiarare senza mezzi termini che “questo ragazzo sarà una colonna fondamentale della mia Inter” …
Detto fatto, una prima risposta giunge già dalla domenica successiva per l’esordio a San Siro contro il Napoli, una franca vittoria per 3-0, risultato che però si sblocca solo in chiusura di primo tempo grazie, indovinate un po’, proprio ad una rete del non ancora 19enne Giacinto, il quale inizia così a far breccia nel cuore dei suoi tanti tifosi che avranno modo di ammirarlo per quasi un altro ventennio.
Vi sarebbe spazio per tentare la conquista dello Scudetto – per il quale l’Inter è in lotta con la Juventus – ma la sentenza della CAF che ribalta il verdetto che aveva visto assegnare ai nerazzurri la vittoria per 2-0 a tavolino sul campo dei bianconeri poiché i tifosi avevano superato le barriere degli spalti assiepandosi ai bordi del terreno di gioco con ciò impedendo il regolare svolgimento della gara, ordinando la ripetizione della stessa, e la successiva sconfitta per 0-2 al “Cibali” di Catania fanno svanire una tale ipotesi, con la Società nerazzurra a schierare, per protesta, la formazione giovanile nell’oramai inutile recupero.
Partita – passata alla storia per il clamoroso punteggio di 9-1 per i bianconeri (6 reti di Sivori …) e che segna l’esordio in nerazzurro di Sandro Mazzola, unico altro giocatore della “Grande Inter” ad aver, assieme a Facchetti, ad aver indossato tale sola maglia, un “record” poi eguagliato negli anni ’80 e ’90 da Beppe Bergomi – in cui Facchetti non scende in campo, facendo oramai parte della rosa della prima squadra, tanto che Herrera, nel successivo mercato estivo, pretende la cessione di Gatti al Napoli per ridurre la concorrenza al suo “pupillo”.
L’anno seguente – ancorché l’Inter concluda lo stesso ancora al secondo posto, stavolta a cinque lunghezze dai “cugini” del Milan – risulta decisivo per la costruzione della formazione che dominerà in Italia e nel Mondo nel successivo quinquennio, in quanto serve ad Herrera, sul conto del quale si iniziano a nutrire alcune perplessità in seno alla Dirigenza, per completare il puzzle e presentare al Presidente Angelo Moratti la sua creatura vincente.
[…]
Con una sua ben precisa fisionomia, ecco che l’Inter, dopo un inizio di stagione preoccupante – due sole vittorie di misura nelle prime 7 giornate, con sconfitte per 0-1 a Catania ed 1-2 a San Siro contro l’Atalanta – imbocca la strada giusta in concomitanza con la “partita della svolta” che si disputa l’1 novembre ’62 a Marassi contro il Genoa, ed a propiziare il 3-1 finale è proprio Facchetti. Il quale realizza in chiusura di primo tempo la rete del provvisorio 2-1 grazie ad una penetrante azione che lo porta a tu per tu con il portiere rossoblù Da Pozzo per superarlo con un tocco ravvicinato.
Sbloccatasi, la formazione di Herrera vince 16 delle successive 27 partite, laureandosi Campione d’Italia per l’ottava volta nella sua Storia con 49 punti, quattro di vantaggio sulla Juventus e sei sul Milan che, però, si aggiudica a fine stagione la Coppa dei Campioni superando 2-1 in Finale i detentori del Benfica Lisbona, così da spostare i termini della “sfida stracittadina” dai confini nazionali a quelli continentali.
[…]
Se dall’amata maglia dell’Inter si toglie il nero resta l’azzurro, quell’azzurro che Facchetti indossa per la prima volta non ancora 21enne il 27 marzo ’63 ad Istanbul, in una gara valida quale eliminatoria per i Campionati europei che l’Italia si aggiudica per 1-0, per poi essere uno dei pilastri della Nazionale di Fabbri sia nelle qualificazioni – andando anche due volte in rete, nel 6-1 di Genova sulla Finlandia e nel 3-0 a Napoli sulla Scozia nell’ultima, decisiva partita – che nelle Fasi finali dei Mondiali di Inghilterra ’66.
Rapporto, quello con il Commissario Tecnico romagnolo, ben più conflittuale rispetto a quello quasi idilliaco con Herrera, che porta anche un notoriamente composto come Facchetti a sbottare con la stampa francese dopo un pari per 0-0 a Parigi contro i transalpini, accusando senza troppi giri di parole Fabbri di impedire alla Nazionale di praticare il “gioco all’italiana” che ha fatto dell’Inter la squadra più forte al mondo, ed a testimoniare quanto avesse ragione giunge, purtroppo, la “fatal Corea” che fa fuori gli Azzurri dalla Rassegna iridata.
Già, perché, nel frattempo, l’Inter aveva completato quel percorso che il Presidente Moratti si era auspicato, succedendo ai “cugini” rossoneri nell’Albo d’Oro della Coppa dei Campioni, conquistata per due anni consecutivi superando in Finale le due corazzate iberiche, dapprima il Real Madrid per 3-1 a Vienna nel ’64 e quindi il Benfica per 1-0 nel pantano di San Siro il 27 maggio ’65, successi ai quali avevano fatto seguito i trionfi nella Coppa Intercontinentale, entrambi a spese degli argentini dell’Independiente, riuscendo a “salvare la pelle” (è proprio il caso di dire …) nelle infuocate trasferte sudamericane.
Proprio l’edizione ’65 della Coppa dei Campioni vede in Facchetti un protagonista in occasione della sua prima rete in campo internazionale con il suo Club, ma di vitale importanza in quanto ribalta l’1-3 subito a Liverpool nell’andata delle semifinali della Manifestazione, allorché, poco dopo l’ora di gioco e con l’Inter avanti 2-0 (reti di Corso e Peirò nei primi 10’ di gioco …), conquista palla a centrocampo, la smista a Mazzola il quale la passa a Corso che, con un sapiente tocco di esterno sinistro di prima intenzione, la fa proseguire in area per l’inserimento centrale del terzino che, ricordandosi dei suoi trascorsi da attaccante, non ha difficoltà a trafiggere Lawrence per il punto del definitivo 3-0 che sancisce (all’epoca non era ancora in vigore la norma del valore doppio delle reti segnate in trasferta …) la qualificazione per la Finale.
Trionfi internazionali ai quali si abbinano anche Campionati sempre al vertice in Italia che, dopo la sconfitta nel ’64 nello spareggio – unico nella Storia oramai quasi centenaria della nostra Serie A – del 7 giugno all’Olimpico contro il Bologna, vedono l’Inter compiere una strepitosa rimonta nel girone di ritorno ai danni del Milan per aggiudicarsi il titolo nel 1965, mentre l’anno seguente vede il protagonista della nostra Storia svolgere un ruolo fondamentale nel ripetere l’impresa.
A sei giornate dal termine, difatti, l’Inter è saldamente al comando della Classifica con 44 punti, 6 di vantaggio sul Bologna e 7 sul Napoli a cui il Comandante Lauro ha “regalato” i gioielli Altafini e Sivori, ma deve affrontare la doppia sfida costituita dalla semifinale di Coppa dei Campioni contro il Real Madrid, impegno che toglie energie e concentrazione ai nerazzurri che nelle due successive gara pareggiano per 0-0 a Firenze dopo aver perso 0-1 all’andata al Bernabeu e rimediano un 1-1 interno con la Sampdoria, grazie alla rete di Facchetti a poco più di un quarto d’ora dal termine, terzino andato a segno anche il mercoledì a San Siro contro gli spagnoli per un 1-1 che sancisce però l’eliminazione dalla competizione.
Con il vantaggio sui rossoblù ridotto a 5 lunghezze, l’1 maggio ’66 è di scena al “Dall’Ara” il confronto diretto che il Bologna si aggiudica per 2-1 riaprendo così una corsa Scudetto data oramai per scontata, coi nerazzurri a dover affrontare la domenica successiva a San Siro una Juventus che, ancorché fuori dai giochi, non si presta di sicuro al ruolo di “vittima sacrificale”.
Con i propri giocatori in riserva di energie, a chi può rivolgersi Herrera per evitare un clamoroso sorpasso se non al più “atleta” dei suoi, il quale, schierato in una quanto mai anomala posizione dietro le punte, ne ripaga la fiducia sbloccando il risultato dopo appena 9’ raccogliendo un cross dalla sinistra di Corso e fulminando Anzolin con una conclusione di sinistro nell’angolo dall’altezza del dischetto del rigore per poi replicare appena 4’ dopo riprendendo una corta respinta dell’estremo difensore bianconero sulla consueta punizione “maligna” di Corso, dando il la al definitivo 3-1 che scaccia i fantasmi e consente, al turno successivo, di chiudere i conti son il 4-1 a San Siro a spese della Lazio.
La doppietta rifilata da Facchetti alla Juventus, oltre al più importante fatto di aver messo la pietra tombale sulla questione Scudetto (tra l’altro il decimo, quindi quello della prestigiosa “Stella” …), ha anche un rilievo statistico non da poco, in quanto rappresenta la prima volta in cui nel nostro Campionato un difensore raggiunge quota 10 quanto a reti realizzate, terzo in stagione nelle file nerazzurre dopo Mazzola e Domenghini con 19 e 12 rispettivamente.
Dopo tanti numeri – tanto per non farci mancare niente ricordiamo i dati consuntivi di Facchetti in maglia nerazzurra, vale a dire 634 presenze complessive (terzo nella “Graduatoria All Time” dietro a Javier Zanetti e Beppe Bergomi) con 75 reti all’attivo, di cui 475 in Serie A impreziosite da 59 reti che ne fanno tuttora il difensore più prolifico nella Storia del nostro Campionato – cerchiamo di capire quale sia stato il segreto di tanta prolificità, partendo da due punti di vista, quello tattico e l’altro tecnico.
[…]
Fatta questa doverosa divagazione, per Facchetti, dopo la sfortunata stagione ’67, che vede un’Inter stremata stavolta cedere su tutti i fronti nel finale – sconfitta 1-2 in Finale di Coppa Campioni contro gli scozzesi del Celtic a Lisbona e superata sul filo di lana in Campionato dalla Juventus complice la sconfitta all’ultima giornata per 0-1 a Mantova dopo che a quattro giornate dal termine vantava 5 punti di vantaggio sui bianconeri – le gioie sul terreno di gioco cambiano colore, spostandosi dal nerazzurro al solo azzurro, essendo divenuto, alla ripresa dell’attività dopo la “disfatta coreana”, il Capitano della Nazionale italiana, fascia che non abbandonerà più sino alla data del suo ritiro, coincisa con la sconfitta per 0-2 a Wembley contro l’Inghilterra del 16 novembre ’77.
In un periodo di 15 anni, Facchetti colleziona 94 presenze in azzurro (record all’epoca) di cui ben 70 in qualità di Capitano, primato quest’ultimo toltogli dapprima da Paolo Maldini e quindi superato da Fabio Cannavaro e Gigi Buffon, guidando la Nazionale alla conquista del titolo Europeo nel ’68 – in cui ci mette del suo, con l’aiuto della dea bendata, scegliendo il lato giusto della moneta lanciata in aria dall’arbitro nel sorteggio della semifinale contro l’Urss svoltosi negli spogliatoi del “San Paolo” a Napoli – e del secondo posto al Mondiale di Messico ’70, in cui l’Italia si inchina in Finale solo al fantastico Brasile di Pelè e soci, con il Capitano azzurro, tra l’altro, a stringere un rapporto di duratura e reciproca stima con la “Perla Nera“, come si conviene tra due fuoriclasse.
Con un rigurgito d’orgoglio, la “vecchia guardia” nerazzurra – composta da Burgnich, Bedin, Jair, Mazzola e Corso, oltre che ovviamente da Facchetti – opera nel ’71 il suo “canto del cigno” rifilando un’altra rimonta ai “cugini” rossoneri, così che il “nostro” può completare un poker di Scudetti, così come quattro sono altresì le Finali di Coppa dei Campioni disputate, giungendo all’atto conclusivo l’anno seguente solo per doversi arrendere di fronte alla nuova “Stella del Calcio Europeo” Johan Cruijff, la cui doppietta decide a favore degli olandesi dell’Ajax la gara disputata a Rotterdam.
[…]
Fin qui il Facchetti calciatore, Campione di classe, ma anche di stile e correttezza – espulso solo una volta in Carriera, ma non per un’entrata fallosa, bensì per un applauso rivolto al Direttore di gara – del quale si sono “innamorati” tutti i tifosi della “Beneamata” e coloro che travalicano gli angusti confini del tifo per ammirare il “Campione senza macchia e senza paura”, come si direbbe in un poema epico cavalleresco.
Ma assieme al Facchetti giocatore, vi è anche l’uomo, il cui spessore umano non è da meno, figlio di un’Italia che sta curando le dolorose ferite della Seconda Guerra Mondiale, di quel Paese che ha voglia di riscatto e che pensa, oltre che in positivo, anche alle cose concrete, senza perdersi in valori effimeri e che fanno della famiglia il punto focale del proprio equilibrio, fisico e morale.
E’ in quest’ottica che Facchetti, rimasto orfano di padre a 17 anni e che, quindi, coi suoi primi guadagni da Professionista ha dovuto provvedere al sostentamento anche delle tre sorelle, riesce a trovare l’anima gemella nella Signora Giovanna, all’epoca impiegata a Milano e conosciuta nel 1961, lei appena 18enne, in una balera di Rivolta d’Adda dove il Giacinto accompagnava (e controllava …) le sorelle, per poi farne divenire l’altro grande amore della sua vita, un matrimonio tra gente semplice e che semplice è rimasta per tutta la vita, da cui sono nati quattro (come gli Scudetti e le Finali di Coppa Campioni …) figli, Barbara, Vera, Gianfelice e Luca.
Quanta diversità con i super idolatrati calciatori di oggi, un Facchetti cui è sempre piaciuto ritirarsi nel silenzio, quel silenzio in cui ritrovava sé stesso, come nel rito della Santa Messa domenicale nella Chiesa di Treviglio al quale ha sempre voluto partecipare da solo, sorretto da quella fede che gli è stata di conforto allorché ha dovuto fare i conti con un’avversaria troppo più forte di lui, una terribile malattia che in poco tempo ne ha debilitato il pur forte fisico portandolo alla morte il 4 settembre 2006, il giorno dopo in cui, 17 anni prima, era tragicamente scomparso in Polonia, a soli 36 anni, un altro grandissimo Campione che a Facchetti si è sicuramente ispirato, quello Scirea al quale Giacinto aveva lasciato il posto in Nazionale.
Scomparso a 64 anni, dopo che il figlio del suo Presidente Moratti, Massimo, con il quale aveva stretto sincera amicizia durante i suoi anni da giocatore all’Inter, gli aveva affidato la massima carica del Club, un incarico che Facchetti aveva accettato soprattutto per riconoscenza, ma nel quale probabilmente poco si riconosceva in quanto “quel” Mondo del Calcio non era più quello conosciuto da giocatore per i troppi sotterfugi, tradimenti e quant’altro che oggi lo contraddistingue.
E, pertanto, a noi piace pensare che la sua vita in nerazzurro, dopo aver conosciuto il nero della malattia fatale, sia ora coronata di quell’azzurro pulito che solo l’immensità dei Cieli può contenere, magari trovandosi a commentare assieme al suo emulo Scirea le umane cose terrene …
Ma sottovoce, però, per non dar fastidio …
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