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Giancarlo De Sisti: “Valcareggi arrivò a mettere in discussione Rivera e Mazzola per farmi giocare”

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Giancarlo Picchio De Sisti, 19 stagioni e 478 partite in Serie A, compierà martedì 80 anni…

Il grande Campione che ha segnato un epoca ha rilasciato alcune dichiarazioni al Corriere dello Sport che ripercorrono la sua immensa carriera. Di seguito un estratto:

 … ha finalmente scelto tra Roma e Fiorentina?

«No, persisto nell’imbarazzo. Essere nella hall of fame di entrambe le squadre per me è qualcosa di straordinario. A Roma ci sono le mie radici, i parenti, i ricordi. Lo stradone sterrato che percorrevo per girare intorno al muro della chiesa e raggiungere il campo della parrocchia su cui giocavo. Attaccavo le figurine dei calciatori sulla parete dello sgabuzzino, l’unico posto che mi era permesso sporcare. All’epoca sognavo di esordire in Serie A con la Roma. Ho avuto molto di più e stento ancora a crederci. A Firenze mi hanno fatto sentire un calciatore di primo piano, ho vinto lo scudetto giocando e l’ho accarezzato da allenatore. Ho versato qualche lacrima quando la Roma mi ha ceduto. Avevo ventidue anni, lasciavo ragazza e amici e casa. Credo sia normale».

Ma a Firenze stava come a casa.

«Esordii con un gol. Il presidente Nello Baglini mi invitò a cena. C’erano imprenditori del Norditalia e lui mi indicava orgoglioso, quasi fossi un nuovo modello di automobile o un orologio prezioso. Mi vergognavo un po’, tuttavia capii e la presi come una gratificazione. Una volta dovevo trattenermi a Roma un giorno in più per una pratica burocratica, pranzai con Pesaola e gli chiesi il permesso. Lui si alzò e mi disse: allora non ha capito niente, lei è il padrone della Fiorentina, faccia come meglio crede».

Qualcuno ha finito per crederci, a questa storia del padrone della Fiorentina.

«Io no di sicuro, ma Radice effettivamente me lo confessò. Sono convinto che ci stia ascoltando da lassù, quindi non racconto cavolate. Ero il capitano, rispettato e benvoluto da tutti i compagni, e allora significava qualcosa. Adesso si riceve la fascia dopo una stagione e mezzo, si bacia la maglia e poi si va a baciarne un’altra a gennaio. Radice non mi vedeva e io sinceramente non volevo andare in panchina, non c’ero abituato. Così mi sistemavo in tribuna e tutti mi chiedevano perché non giocassi. Scelte del tecnico, rispondevo. Ero arrivato a pesare sessantasei chili: un’acciuga, io che sono sempre stato un bombolotto muscoloso. Alla fine dissi a Radice che un’altra stagione così non l’avrei sopportata. Non avevo idea che stessero per esonerarlo».

E lei tornò alla Roma.

«Mi cercò Mazzola, ma ricevetti la telefonata del braccio destro di Anzalone, Camillo Anastasi, e non esitai. Lavorare di nuovo con Liedholm per me era il massimo. Ti affascinava con quei verbi all’infinito e quelle battute sarcastiche. Poi prendeva il pallone, ti diceva di calciare la palla in un punto preciso e prima la calciava lì lui. Per un po’ gli feci da assistente. Capitava che i calciatori non avessero troppa voglia di darmi retta. Liedholm arrivava e diceva che chi non faceva quello che volevo io non avrebbe giocato la domenica, semplice. Devo essere grato a tanti, da Chiappella a Pesaola a Valcareggi, ma probabilmente nessuno mi ha influenzato quanto lui».

Sulla Nazionale …

«Valcareggi arrivò a mettere in discussione Rivera e Mazzola per far giocare me. Ho sempre accettato tutte le critiche, ma di una cosa sono certo: dal punto di vista tattico avevo pochi rivali. Arrivai in azzurro in un momento storico. Diventammo campioni d’Europa dopo trent’anni che non si vinceva nulla. Il più grande rimpianto della mia vita di giocatore resta la finale persa con il Brasile. Certo, era dura battere una squadra di quel livello e con Pelé che faceva qualsiasi cosa, anche colpire di testa. Ma qui viene fuori l’incontentabile che è dentro ciascuno di noi».

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