La forza dello sport è quella di rendere reali i sogni, anche i più improbabili.
Nel calcio, spesso, non conta il valore dei contendenti, ma solo la direzione verso cui Eupalla decide di puntare il dito della vittoria.
Il più delle volte, quasi a sbeffeggiare l’umana inclinazione ai pronostici, alle previsioni, questo dito indica la direzione meno attesa, avvalorando l’ipotesi meno probabile.
Naturalmente molteplici possono essere gli esempi addotti, anche in altre discipline sportive, il classico Davide che abbatte Golia, l’esempio che dà forza ai contendenti apparentemente inferiori.
Insieme al vantaggio psicologico di non avere nulla da perdere, la condizione ideale di quando si incontra un avversario più forte, che “deve” vincere.
Questo vale nelle singole partite, perché poi ci sono quelle vittorie impossibili, di quelli che gli inglesi chiamano underdogs e noi possiamo tradurre come impronosticabili o sfavoriti.
Di questi l’esempio più clamoroso è quello del Leicester campione d’Inghilterra nella stagione 2015/2016, c’è poi una competizione internazionale che di sorprese di questo tipo ne ha riservate più d’una: il campionato europeo per nazioni.
Qui si crea quasi un paradosso, perché in genere risulta più difficile diventare regina d’Europa che re del mondo, più difficile di un mondiale.
Già nel 1992 questa competizione aveva regalato una grande sorpresa, quando a vincere fu la Danimarca, nemmeno qualificata e ripescata al posto della Jugoslavia, esclusa per la sanguinosa e tragica “guerra dei Balcani”.
Nel 2004 i tempi erano apparentemente più pacifici, il campionato europeo disputava la sua dodicesima edizione, gli scenari scelti erano quelli del Portogallo.
Non siamo alle pletoriche edizioni attuali con trentadue qualificate, allora era molto più difficile perché solo sedici erano le nazionali che accedevano alla fase finale.
Nonostante questo, a sorpresa si qualificava la Lettonia, che superava agli spareggi la Turchia, e la Grecia, il cui unico precedente in una fase finale risaliva all’edizione italiana del 1980.
Gli ellenici erano stati capaci di arrivare primi, nonostante due sconfitte all’inizio, in un girone di qualificazione che comprendeva Armenia, Irlanda del Nord, Spagna e Ucraina, costringendo i più quotati iberici al secondo posto e a trovare la qualificazione attraverso gli spareggi.
Artefice di questo che già poteva considerarsi un grande risultato fu il CT degli ellenici, il tedesco Otto Rehhagel.
Già tecnico plurivittorioso in Germania con, tra le altre, la vittoria del campionato tedesco con Werder Brema e Kaiserslautern, e in Coppa delle Coppe con i primi, aveva assunto l’incarico in Grecia nel 2001, per dare lustro calcistico ad una nazionale che stazionava alla periferia del grande calcio internazionale.
Quello greco era un organico abbastanza composito, i convocati provenivano dalle maggiori squadre di quel campionato, Aek Costantinopoli, Olympiakos Pireo e Panathinaikos Atene, più qualche “straniero”.
La difesa, guidata dal portiere Antōnīs Nikopolidīs, era imperniata sulla solidità del centrale della Roma Traïanos Dellas, a centrocampo giostravano Aggelos Mpasinas e Theodōros Zagorakīs, in avanti si contava sulla potenza di Angelos Charisteas e sulla vena del “fiorentino” Zīsīs Vryzas.
Messi nell’urna delle squadre più deboli, i greci furono sorteggiati in uno dei gironi che, in partenza, dava loro poche speranze, con il Portogallo padrone di casa, la Russia e ancora la Spagna.
Favorite di quell’Europeo erano le solite note, ma Germania e Italia si fecero eliminare subito ai gironi, con le altre che si arresero cammin facendo.
La gara d’esordio proponeva il Portogallo di Felipe Scolari, fresco campione del mondo con il Brasile nel 2002, subito di fronte alla “quasi Cenerentola” Grecia, e qui ci fu la prima sorpresa con la vittoria degli ellenici sui lusitani in cui iniziava a splendere la stella di Cristiano Ronaldo.
I lusitani poi si rifecero superando il girone da primi dopo aver vinto contro Russia (due a zero) e Spagna (uno a zero), derubricando perciò la sconfitta iniziale quasi a incidente di percorso; agli ellenici, per proseguire nel torneo, bastò pareggiare con gli iberici (uno a uno) e arrivare secondi nonostante la sconfitta con la Russia (due a uno).
Nei quarti fu solo ai rigori che la squadra di Scolari eliminò la sempre incompiuta Inghilterra, raggiungendo la finale dopo aver superato al penultimo atto l’Olanda (due a uno).
Per la Grecia la corsa sembrava dovesse fermarsi ai quarti quando di fronte si trovarono la Francia campione uscente, che quattro anni prima aveva fatto piangere l’Italia con il golden gol.
Qui, però, Rehhagel costruì il suo primo capolavoro tattico strategico, contenendo l’estro dei transalpini e colpendo a metà ripresa con Charisteas.
Rehhagel e i suoi si ripeterono in semifinale quando avversario si ritrovarono la Repubblica Ceca. Questa era una squadra diversa rispetto alla Francia, univa l’estro di giocatori quali Pavel Nedvěd e Tomáš Rosicky alla potenza dei vari Karel Poborsky, Jan Koller, Milan Baroš, ma anche qui il tecnico tedesco seppe trovare la giusta strategia trascinando la partita ai supplementari e risolvendola con il silver gol di testa di Dellas sugli sviluppi di un angolo.
A sorpresa la piccola Grecia, patria della bellezza e della cultura ellenica, si ritrovava nella finale del torneo continentale proponendo un calcio non bello, ma sicuramente pragmatico ed efficace.
Ad attenderla, come detto, c’era il Portogallo, padrone di casa, nel replay di quella che era stata la gara d’esordio della competizione, con pronostico chiuso a favore dei più quotati Maniche, Cristiano Ronaldo, Deco, Luis Figo, Rui Costa, ma ancora una volta indovinata e vincente fu la strategia adottata da Rehhagel: difesa attenta, marcature anche a uomo, contropiede appena possibile.
Ai portoghesi non era servita la sconfitta della prima partita: al 57’, sugli sviluppi di un corner, Charisteas svettava su tutti e batteva, imparabilmente e definitivamente, Ricardo.
Contro qualsiasi pronostico possibile, la Grecia era campione d’Europa.
I critici e gli esteti storsero il naso, considerando il modo di giocare di Zagorakīs e compagni, antico, sorpassato, eccessivamente utilitaristico.
In realtà, Otto Rehhagel aveva saputo creare un gruppo unito, dalle non eccelse qualità tecniche, ma terribilmente funzionale per raggiungere la vittoria.
Un vero capolavoro tattico e strategico, capace di unire le tante anime di una nazione frammentata come le tante isole che la compongono, di far assurgere, nei suoi giocatori, l’animo di Ares e di Atena, dio della guerra e dea della scaltrezza guerriera, piuttosto che quello di Apollo e di Afrodite, divinità dedicate alla bellezza.
Il tutto sotto la protezione di Zeus, che per una volta si impossessò del pallone, portandolo sull’Olimpo.