Il Sistema inventato da Herbert Chapman era nato dalla necessità di contrastare la nuova regola del fuorigioco che metteva in inferiorità numerica i reparti difensivi rispetto a quelli offensivi.
Da sempre nel calcio si sono inventate variazioni alle regole che potessero favorire il maggior numero di segnature, considerate l’essenza del gioco del calcio, da sempre gli allenatori, i pensatori di questo gioco, hanno cercato a loro volta tattiche per ovviare a questa situazione.
Quasi un gioco a rimpiattino, un cane che si morde la coda.
In genere queste tattiche, difensive al limite dell’ostruzionismo, sono trovate, e messe in atto fino all’esasperazione, in quelle squadre cosiddette “povere”, che non possono vantare grossa caratura tecnica, e allora si devono arrangiare con la tattica.
Una di queste, particolarmente sviluppata e applicata proprio in Italia, è stata il “catenaccio”.
Prima, però, che assumesse il rango di status vero e proprio, fino a diventare un’etichetta del nostro football, che ancora ci identifica all’estero soprattutto a guisa di scherno, esso ebbe naturalmente un’origine, e non fu nel Bel Paese.
Karl Rappan era un allenatore austriaco che aveva avuto una buona carriera da centrocampista, diventando un tecnico di buon livello, tra i rappresentanti della grande scuola tecnica mittel-europea che aveva il suo massimo rappresentante in Hugo Meisl.
Rappan era uno studioso, poco incline a voli pindarici quanto abile nell’organizzazione e disciplina della sua squadra, la sua idea in pratica esasperava quella di Chapman: dietro ai tre difensori previsti dal Sistema egli spostò un centrocampista, che si muoveva alle loro spalle in orizzontale, su tutto il fronte difensivo, dando l’idea di un chiavistello che chiudeva le falle dei compagni.
Era nato il “verrou”, era nato il libero.
Rappan applicò questa sua idea già nel 1932, quando era alla guida del Servette, ma fu come selezionatore della nazionale svizzera che raggiunse i più alti risultati, qualificando gli elvetici per tre edizioni dei mondiali (1938 in Francia, 1954 in Svizzera, 1962 in Cile), arrivando ai quarti nei mondiali casalinghi che fecero registrare l’eliminazione azzurra proprio per mano loro.
In sostanza, questo l’atto di nascita di questo sistema di gioco, ma com’è che poi si è affermato da noi fino ad identificare, addirittura, il nostro modo di giocare?
Come abbiamo letto, è ancora negli anni Trenta che Rappan sviluppa la sua idea, in Italia si impone nel secondo dopoguerra, quando tramonta anche l’epopea di Vittorio Pozzo, che nelle sue nazionali vincenti applicava il “mezzo sistema”.
La nostra è una nazione distrutta che deve essere ricostruita, l’italiano è povero e si deve arrangiare, ammantandosi anche del cinismo del caso.
“Se davvero il calcio esprime quello che un popolo è e sente in quel momento storico, è abbastanza naturale che nasca il difensivismo e si sviluppi da noi proprio il contro gioco, il calcio a sorpresa che prende alle spalle, un gioco algido e semplice da cui inizia un’avventura universale”.[1]
Una lettura socio – antropologica, una scelta probabilmente inevitabile stante la nostra situazione di sofferenza che imponeva di arrangiarci.
Dopo vari tentativi in piccole società calcistiche di confine, quasi a simboleggiare quella lontananza in cui l’arte di arrangiarsi era un vero modo di sopravvivenza, fu Gipo Viani ad ottenere i primi successi con questo gioco alla Salernitana, di contro nel profondo Sud, portando un’altra variazione, identificata poi come “vianema”, che in realtà era un’altra furbata: egli schierava in campo con il numero nove un finto centravanti, arretrandolo durante il gioco nella posizione di stopper sul centrattacco avversario, mentre quest’ultimo si posizionava come libero, sorprendendo gli avversari.
Per Viani uno sviluppo del genere era quasi naturale, avendo idee molto difensiviste, il padre naturale del catenaccio all’italiana si può considerare Nereo Rocco che, con lo stesso Viani quale direttore tecnico, sdoganò a livello internazionale questa idea di gioco, mietendo successi con il Milan, ancora con una variante: il suo centrocampo prevedeva due mediani e un trequartista, che nel suo caso rispondeva al nome di Gianni Rivera.
Altra squadra che si può considerare vessillifera di quel gioco fu l’Inter, e i nerazzurri lo furono in due occasioni: prima vincenti in patria con Alfredo Foni, nella prima metà degli anni Cinquanta, schierando Ivano Blason nell’ultima linea prima del portiere, poi vincenti di tutto in Europa e nel mondo con la squadra allenata dal Mago Helenio Herrera, che schierava Armando Picchi libero in una difesa non bloccata, che prevedeva le scorribande in avanti di Giacinto Facchetti, in pratica il primo terzino fluidificante e goleador della storia.
Questi successi naturalmente contribuirono ad accentuare la nostra immagine di un calcio opportunista e sparagnino, concreto e cinico ma non estetizzante, anche se spesso era la frustrazione dei perdenti a creare l’etichetta.
Anche i cantori dell’epoca spinsero in questo senso, un quasi eponimo fu il Sommo Gianni Brera, che ritenendo il nostro un calcio “femmina”, riconosceva come più efficace per la nostra mentalità questo calcio di attesa e ripartenza.
Un’etichetta, appunto, che ci ha identificato e ancora ci identifica anche se gli anni sono passati e la mentalità è quasi del tutto cambiata, di certo un gioco che ci ha portato tante vittorie, probabilmente nell’unico modo possibile da noi: all’italiana.
[1] M. Sconcerti, Storia delle idee del calcio, Baldini e Castoldi, Milano 2012, p. 97